Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 21225 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 21225 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 14/02/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Napoli il 13/7/1963
COGNOME NOMECOGNOME nato a Sant’Antimo il 15/2/1956
COGNOME nato a Sant’Antimo il 26/8/1966
avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli del 16/11/2023
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udita la requisitoria del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto di rigettare i ricorsi;
uditi gli Avv. NOME COGNOME difensore di NOME COGNOME, l’Avv. NOME COGNOME difensore di NOME COGNOME e l’Avv. NOME COGNOME difensore di NOME COGNOME, che hanno chiesto l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 16 novembre 2023 la Corte di appello di Napoli ha confermato la pronuncia emessa il 6 luglio 2022 dal Tribunale di Napoli Nord, con cui NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME sono stati condannati alla pena ritenuta di giustizia per i reati di cui agli artt. 319, 320 limitatamente alla condotta commessa a luglio 2012 – e all’art. 635-quinquies, comma secondo, cod. pen., aggravati dall’art. 416-bis.1 cod. pen. La sentenza di primo grado ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME in ordine al reato ex artt. 378 e 416-bis.1 cod. pen., perché estinto per intervenuta prescrizione.
Secondo la ricostruzione effettuata in modo conforme in entrambe le sentenze di merito, per ciò che ancora rileva in questa sede, NOME COGNOME, dipendente di una società affidataria esclusiva del servizio di installazione di microspie per conto della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, contattato da NOME COGNOME su richiesta di NOME COGNOME, aveva percepito una somma di danaro al fine di eseguire la bonifica dell’ufficio di NOME COGNOME, appartenente del clan camorristico Puca, imperante in SINDIRIZZO ed aree limitrofe / (reato ex artt. 319 e 320 cod. pen.) e aveva anche distrutto una microspia, ossia una componente del sistema informatico e telematico di utilità pubblica, essendo i risultati delle intercettazioni destinati all’autorità giudiziaria (reato di cui a 635-quinquies, comma secondo, cod. pen.). Tali condotte erano dirette ad agevolare l’anzidetto sodalizio di camorra.
Avverso l’anzidetta sentenza hanno proposto ricorsi per cassazione i difensori di NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME
Il difensore di NOME COGNOME ha dedotto i motivi di seguito indicati.
4.1. Nullità del decreto di giudizio immediato, in quanto privo dell’avviso sulla facoltà di accedere all’istituto della messa alla prova, in contrasto con quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la pronuncia n. 14/2019, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 456, comma 2, cod. proc. pen. nella parte in cui non include tale avviso.
4.2. Vizi della motivazione in ordine all’affermazione della responsabilità per il reato di cui agli artt. 319 e 320 cod. pen., difettando in capo all’imputato l qualifica di incaricato di pubblico servizio. Tale qualifica potrebbe essere riconosciuta esclusivamente con riferimento al singolo servizio demandato al ricorrente nell’ambito di uno specifico procedimento e non, invece, in generale, in
ragione della sua attività professionale e del rapporto di collaborazione non occasionale con gli uffici di polizia giudiziaria. L’ipotizzato delitto di corruzion potrebbe configurarsi in capo al ricorrente soltanto in relazione all’infedele svolgimento dello specifico servizio, affidatogli dall’autorità di polizia in esecuzione di un determinato provvedimento giudiziario.
4.3. Violazione di legge e vizi della motivazione con riguardo all’affermazione della responsabilità per il reato di cui al capo B), non essendo stato considerato che la rimozione della microspia era avvenuta quattro mesi dopo che era stata revocata l’utilizzabilità della captazione.
4.4. Violazione di legge e vizi della motivazione in merito all’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., ritenuta sussistente pur se la condotta dell’imputato non fosse caratterizzata dal dolo intenzionale, normativamente richiesto. Non sarebbe emerso, infatti, alcun elemento comprovante che egli conoscesse i vertici dell’organizzazione o sapesse che qualcuno di essi fosse stato condannato con sentenza irrevocabile per la partecipazione all’associazione.
4.5. Violazione di legge e vizi della motivazione in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche, non avendo la Corte territoriale considerato né l’incensuratezza e il comportamento processuale dell’imputato (sempre presente a ogni udienza), né la risalenza dei fatti al lontano 2010 e il difetto di elementi da cui desumere la sua spiccata capacità a delinquere.
4.6. Vizi della motivazione, essendo meramente apparenti le argomentazioni formulate in entrambe le pronunce di merito quanto alle responsabilità dell’imputato.
Il difensore di NOME COGNOME ha dedotto vizi della motivazione in relazione all’affermazione della responsabilità penale per il reato di cui all’art. 635quinquies, comma 2, cod. pen. (capo B). La Corte di appello avrebbe travisato le dichiarazioni del collaboratore NOME COGNOME che era stato chiaro, invece, nel dire che la decisione di rimuovere la microspia era da attribuire solo ad NOME COGNOME e l’esecuzione era stata affidata a NOME COGNOME. La condotta del ricorrente si sarebbe arrestata dopo avere messo in contatto COGNOME e COGNOME, ponendo solo le basi per l’operazione di bonifica consistente nella mera individuazione della microspia, senza che ciò comportasse il danneggiamento dell’apparato elettronico. Il ricorrente non avrebbe partecipato alle successive fasi, relative alla distruzione della microspia, e non poteva prefigurarsi in termini di probabilità concreta che mettere in contatto COGNOME e COGNOME avrebbe condotto all’illogica soluzione della distruzione della microspia.
6. Il difensore di NOME COGNOME ha dedotto violazione di legge e vizi della motivazione, per essere stato ritenuto credibile il collaboratore di giustizia NOME COGNOME allorquando aveva riferito di aver appreso da NOME COGNOME che presso il suo ufficio era stata rinvenuta una microspia, nascosta dietro un condizionatore, e che di ciò egli si era accorto grazie all’attività di bonifica effettuata da un tecnico incaricato da NOME COGNOME, a sua volta presentatogli da NOME COGNOME, ex ispettore di polizia. Secondo il ricorrente, la conversazione intercettata, avvenuta tra NOME COGNOME e NOME COGNOME il 12 maggio 2020 all’interno dell’autovettura in uso a quest’ultimo, non poteva costituire un riscontro alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME in ordine al coinvolgimento del ricorrente nella vicenda. Nel corso della conversazione sarebbe emerso solo che COGNOME era in contatto con un tecnico in grado di effettuare bonifiche ambientali e che tale tecnico era preoccupato per un’indagine in corso, avendo ricevuto una informazione di garanzia. Il contenuto della conversazione tra COGNOME e COGNOME, riferita da COGNOME a Cicala, ricordava episodi che risalivano agli anni compresi tra il 2007 e il 2009 e, dunque, a un’epoca certamente anteriore all’episodio del 2012, che è l’unico per il quale il Tribunale era pervenuto all’affermazione di responsabilità del ricorrente. Nel corso di tale conversazione COGNOME, peraltro, non aveva fatto alcun riferimento espresso al ricorrente, ma si era limitato a riferire che egli contattava COGNOME quando suo cugino NOME COGNOME gli chiedeva di trovare qualcuno per la verifica dei telefoni sotto controllo. Anche l’ulteriore conversazione, menzionata dal Tribunale, avvenuta il 28 maggio 2020, non potrebbe assumere rilievo decisivo perché, se è vero che COGNOME aveva fatto riferimento alla richiesta del proprio cugino e che quest’ultimo era certamente COGNOME, non ci sarebbero motivi per ritenere che si trattasse dello stesso cugino di cui egli aveva parlato con COGNOME durante la conversazione del maggio 2020. Anche dalle prove dichiarative non sarebbero emersi riscontri adeguati alle dichiarazioni della chiamata in reità. NOME COGNOME, infatti, aveva riferito di svariate bonifiche ambientali, eseguite presso la propria abitazione, ma non aveva fatto alcun riferimento ad NOME COGNOME nemmeno come soggetto intermediatore: ciò non poteva non assumere rilievo perché, se egli fosse stato a conoscenza del coinvolgimento di COGNOME, l’avrebbe naturalmente riferito. NOME COGNOME poi, avrebbe reso dichiarazioni contrastanti: nell’interrogatorio aveva riferito di aver appreso da NOME COGNOME dell’accaduto, ma di non aver mai visto COGNOME mentre in dibattimento aveva dichiarato di essere stato presente ai fatti, senza, però, fornire un’univoca descrizione e dire il motivo per il quale nell’interrogatorio aveva reso una versione differente. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto da NOME COGNOME va rigettato mentre quelli presentati da NOME COGNOME e NOME COGNOME devono essere dichiarati inammissibili.
Il ricorso di NOME COGNOME si fonda su motivi nel complesso infondati.
2.1. Il primo motivo, concernente la nullità del decreto di giudizio immediato per il mancato avviso della facoltà di accedere alla messa alla prova, è manifestamente infondato.
Va premesso che la Corte costituzionale con la sentenza n. 19 del 2020 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per violazione dell’art. 24, secondo comma, Cost. – l’art. 456, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il decreto che dispone il giudizio immediato contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova. Secondo il Giudice delle leggi, la disposizione censurata violava il diritto di difesa, in quanto, come già rilevato in relazione al procedimento per decreto, anche nel giudizio immediato il termine, entro cui chiedere i riti alternativi a contenuto premiale (quindici giorni dalla notifica del relativo decreto), è anticipato rispetto al dibattimento, con la conseguenza che, essendo tale termine stabilito a pena di decadenza, la mancanza dell’avvertimento può determinare un pregiudizio irreparabile della facoltà di accedere al rito speciale della messa alla prova.
La Corte costituzionale, inoltre, ha ribadito che la sospensione del procedimento con messa alla prova si configura come un istituto di natura sia sostanziale, laddove dà luogo all’estinzione del reato, sia processuale, consistendo in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio (nello stesso senso Corte cost. n. 131 del 2019, n. 91 del 2018, n. 201 del 2016 e n. 240 del 2015), e che la richiesta di riti alternativi costituisce anch’essa una modalità, tra le pi qualificanti, di esercizio del diritto di difesa (così Corte cost. n. 201 del 2016, n 237 del 2012, n. 219 del 2004, n. 148 del 2004 e n. 497 del 1995).
Dalla declaratoria di illegittimità costituzionale discende che l’omissione dell’avviso integra una nullità di ordine generale ex art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.
Tanto premesso, con riguardo al caso in disamina, va rilevato, per un verso, che la sentenza n. 19 del 2020 della Corte costituzionale è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 19 febbraio 2020 e, quindi, prima del decreto di giudizio immediato, emesso nei confronti del ricorrente il 19 gennaio 2021; per altro verso, va sottolineato, come già ritenuto nella sentenza impugnata, che per i reati contestati all’imputato è esclusa la possibilità di accedere al beneficio ex art. 168-
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bis cod. pen., così che nessuna lesione del diritto di difesa può dirsi realizzata per effetto del mancato avviso circa la possibilità di richiedere la messa alla prova, essendo precluso al ricorrente l’accesso a tale rito speciale sulla base di una disposizione normativa.
2.2. Il secondo motivo è infondato.
Questa Corte è ferma nel ritenere che la tutela penale apprestata dall’ordinamento in relazione alla qualità di pubblico ufficiale (o di incaricato di un pubblico servizio o di esercente un servizio di pubblica necessità) è disposta nel pubblico interesse, il quale può essere leso o posto in pericolo non solo durante il tempo in cui il pubblico ufficiale esercita le sue mansioni, ma anche dopo, quando il soggetto, investito del pubblico ufficio, abbia perduto la qualifica, sempre che il reato commesso si riconnetta all’ufficio già prestato (Sez. 6, n. 39010 del 10/04/2013, COGNOME, Rv. 256596 – 01; Sez. 6, n. 20558 del 11/05/2010, COGNOME, Rv. 247394 – 01; Sez. 5, n. 22203 del 26/02/2008, COGNOME, Rv. 240439 – 01; Sez. 6, n. 134 del 14/07/1981, dep. 1982, COGNOME, Rv. 151500 – 01; Sez. 6, n. 9661 del 21/12/1976, dep. 1977, Rv. COGNOME, 136544 – 01).
L’art. 360 cod. pen., infatti, dispone che, quando la qualità di pubblico ufficiale è elemento costitutivo di un reato, la cessazione di tale qualità, nel momento in cui il reato è commesso, non esclude l’esistenza di questo.
Tale norma, quindi, non richiede, necessariamente, l’attualità dell’esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio, ossia che l’agente sia titolare dei poteri o della qualità di cui abusa nell’immanenza della condotta criminosa, ma stabilisce, in linea con la concezione oggettivo – funzionale delle qualità e dei poteri correlati alle figure tipicamente modulate dagli artt. 357-358 cod. pen. a seguito delle modifiche introdotte dalla legge del 1990, un peculiare criterio di collegamento tra la specificità del bene giuridico, tutelato dalle relative fattispecie incriminatrici, e la concreta capacità offensiva di una condotta, la cui realizzazione è in concreto resa possibile proprio dalla natura dell’attività precedentemente esercitata.
Va rilevato che la medesima ratio, posta a base del riconoscimento della qualifica pubblica pur in caso di cessazione della funzione o del servizio in precedenza esercitati, si ravvisa anche nelle ipotesi in cui l’agente è ancora titolare dei poteri o delle qualità pubbliche e compie attività che non sono esplicazione dell’incarico pubblico ricevuto, ma sono, comunque, ad esso connesse.
Anche tali fattispecie ricadono nell’alveo dell’art. 360 cod. pen., che, quindi, pone un principio di carattere generale, applicabile in ogni ipotesi in cui sia
ravvisabile un rapporto funzionale tra la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio e la commissione del reato.
Nel caso in esame, come si legge nella sentenza impugnata, il ricorrente, all’epoca, era un tecnico specializzato, dipendente, da novembre 2007 sino a marzo 2015, della società RAGIONE_SOCIALE e, poi, dal 2015 fino alla data del suo arresto nel 2020, di RAGIONE_SOCIALE, che era succeduta alla prima società. Entrambe le società, nei suddetti periodi, erano state affidatarie esclusive del servizio di installazione di microspie per conto della Procura di Napoli.
Era risultato accertato che il ricorrente, tra il 2007 e il 2008, era intervenuto, in più occasioni, presso l’abitazione del capo del clan COGNOME, per la ricerca di microspie, senza rinvenirne alcuna. Successivamente, nel 2012, presso il capannone, dove era l’ufficio di NOME COGNOME, imprenditore vicino al clan, il ricorrente aveva rinvenuto, nascosta dietro il motore di un condizionatore, una microspia, che egli stesso aveva installato tempo prima per conto della D.D.A. della Procura di Napoli, e l’aveva rimossa.
Alla luce di quanto precede è evidente che l’attività di rimozione della microspia nell’interesse di soggetti terzi, pur non attenendo ai compiti demandati al ricorrente quale dipendente della società, incaricata dalla Procura del servizio di installazione di microspie, si ricollegava comunque all’esperienza maturata dall’imputato in tale veste e, dunque, era riferibile al servizio pubblico esercitato.
A tal riguardo è dirimente osservare che, come riferito dal collaboratore NOME COGNOME l’imputato, nell’accingersi alla bonifica dell’ufficio di Antimo COGNOME, aveva affermato l’inutilità di procedere alle ricerche, perché la microspia era stata da lui stesso ivi collocata dietro un condizionatore (circostanza che trovava un elemento di riscontro individualizzante nell’informativa dei Carabinieri di Castello di Cisterna del 3 luglio 2019), luogo dal quale aveva provveduto senza esitazioni a rimuoverla.
A confermare plasticamente la correttezza della qualificazione giuridica vi è anche l’intercettazione ambientale del 20 maggio 2020, in cui l’ispettore di polizia NOME COGNOME il quale intermediava tra gli uomini del clan e il tecnico per l’espletamento delle attività di “sanificazione” ambientale – aveva descritto a NOME COGNOME (a sua volta indagato per reati riconducibili all’associazione criminale) il contenuto delle prestazioni che venivano richieste a NOME COGNOME sempre per il tramite di esso COGNOME; prestazioni che, all’evidenza, venivano richieste proprio in quanto il ricorrente era esperto nel settore dell’installazione e uso dei dispositivi di captazione per conto delle autorità inquirenti, quale dipendente della società affidataria di tale servizio.
Anche nella considerazione dei sodali l’attività, oggetto di addebito, aveva stretta inerenza con i compiti istituzionalmente espletati dal ricorrente. Il
collaboratore di giustizia NOME COGNOME infatti, aveva dichiarato che il tecnico operava per una ditta «che veniva utilizzata dalla Procura o dai Carabinieri per installare le microspie», mentre NOME COGNOME, già intraneo al clan, nonché NOME COGNOME imputata in procedimento probatoriamente collegato, avevano descritto il ricorrente come organico alle Forze dell’ordine, al punto da dichiarare che era «un poliziotto o un carabiniere».
Ne discende che va disattesa la censura del ricorrente, relativa alla qualifica di incaricato di pubblico servizio, che entrambi i Giudici del merito gli hanno attribuito con riguardo all’episodio del luglio 2012.
2.3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
Va premesso che integra il reato di cui all’art. 635-quinquies, comma secondo, cod. pen. anche la distruzione di una microspia, quale componente periferica di un sistema informatico di intercettazione, avente natura di pubblica utilità, attesa la finalizzazione dei risultati delle captazioni all’attività investigativa. La microspi infatti, è strumento di registrazione e di trasmissione di dati ad unità centrali, in vista della loro registrazione e memorizzazione.
Ciò posto, va rilevato che – come affermato nella sentenza impugnata – la disattivazione della microspia da remoto, per la disposta revoca dell’attività captativa in epoca antecedente alla rimozione, non ha escluso l’evento del reato ipotizzato, perché tale rimozione ha inciso sulla funzionalità del sistema informatico, nell’accezione sopra esplicitata, non consentendone il successivo, pur solo eventuale, riutilizzo.
2.4. Il quarto motivo è privo di specificità, a fronte delle argomentazioni con cui la Corte territoriale ha ritenuto configurata l’aggravante di cui all’art. 416-bis. cod. pen., declinata sub specie di agevolazione del clan camorristico “COGNOME“.
Come evidenziato nella sentenza impugnata, l’attività di bonifica presupponeva nell’esecutore, proprio per la qualità criminale dei committenti, la consapevolezza degli obiettivi e il vincolo di riservatezza. È di piana evidenza che quelle attività fossero orientate ad impedire le indagini nei confronti degli appartenenti al clan, sicché non può dirsi che, seppure animato in via prioritaria dal movente economico, piuttosto che dall’intento di favorire i sodali, il ricorrente non fosse partecipe di questa finalità agevolativa, che certamente gli era nota.
Il contenuto dell’incarico, attribuito a NOME COGNOME dagli affiliati, rapporti, protratti negli anni con il cugino intraneo NOME COGNOME, sono univocamente significativi della consapevolezza della finalità agevolativa di esponenti del sodalizio.
2.5. Il quinto motivo, con cui il ricorrente ha censurato il diniego delle attenuanti generiche, è privo di specificità, non confrontandosi adeguatamente con la motivazione della sentenza impugnata sul punto.
La Corte territoriale, infatti, ha negato le anzidette circostanze, tenuto conto delle gravissime modalità dei fatti e dell’intensità del dolo, essendo emerso con certezza che l’imputato era pienamente consapevole dell’illiceità dell’attività, posta in essere, e del vulnus, arrecato alle indagini dal suo comportamento, che, di fatto, neutralizzava uno dei principali e più efficaci strumenti di indagine nel campo dei reati in materia di criminalità organizzata. Peraltro, l’episodio del 2012 non costituiva un’evenienza del tutto occasionale ed estemporanea, ma si inseriva nell’ambito del rapporto di stabile collaborazione di NOME COGNOME con NOME COGNOME per lo svolgimento dell’infedele attività.
Così argomentando, il Collegio di secondo grado si è conformato al consolidato orientamento di questa Corte, per la quale, al fine di ritenere o escludere la configurabilità delle attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio: anche un solo elemento, attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso, può, pertanto, risultare all’uopo sufficiente (così, ex multis, Sez. 2, n. 23903 del 15/7/2020, Marigliano, Rv. 279549 – 02; Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, COGNOME e altri, Rv. 249163 – 01).
2.6. L’ultimo motivo del ricorso di NOME COGNOME è del tutto generico.
Contrariamente a quanto apoditticamente dedotto dal ricorrente, la Corte territoriale, dopo avere riassunto le argomentazioni sviluppate nella pronunzia del Giudice di primo grado, che ha in gran parte condiviso, ha compiutamente esposto le ragioni per le quali ha ritenuto sussistenti gli elementi richiesti per l configurazione delle contestate ipotesi delittuose, evidenziando al riguardo gli aspetti maggiormente significativi, dai quali ha tratto la conclusione che le obiezioni e i rilievi, prospettati dalla difesa, erano in realtà privi di ogni agganci probatorio e si ponevano solo quali mere ipotesi alternative, peraltro smentite dal complesso degli elementi di prova processualmente acquisiti.
La conclusione, a cui è pervenuta la sentenza impugnata, riposa, in definitiva, su un quadro probatorio coerentemente giudicato completo e univoco, come tale in nessun modo censurabile sotto il profilo della congruità e della correttezza logica.
Il ricorso di NOME COGNOME è fondato su censure che non rientrano tra quelle consentite.
Quanto all’affermazione della responsabilità penale per il reato di cui alla lettera B), contestata dal ricorrente, entrambi i Giudici del merito hanno ritenuto che ciascuno degli imputati avesse fornito un contributo consapevole e volontario alla condotta di rimozione della microspia, che aveva reso inservibile il sistema informatico. In particolare, NOME COGNOME aveva contattato NOME COGNOME al fine di fargli compiere l’attività di bonifica del capannone nell’interesse di NOME COGNOME.
Nel dare risposta ai rilievi formulati nell’atto di gravame, secondo cui l’imputato si sarebbe limitato a mettere in contatto NOME COGNOME e NOME COGNOME al fine di ricercare la microspia, mentre la decisione di rimuoverla sarebbe stata assunta solo da questi ultimi, la Corte di appello ha affermato che dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME nonché da conversazioni intercettate era emersa con certezza l’esistenza di un rapporto confidenziale tra COGNOME e COGNOME, consolidato e risalente almeno a far data dall’anno 2007 e ancora ben saldo nel 2019 e nel 2020, in virtù del quale il primo affidava al secondo lavori di bonifica per conto degli appartenenti del clan COGNOME. La menzionata Corte ha aggiunto che rispondevano a «una mera illazione difensiva la pretesa segmentazione della vicenda in due fasi e l’ipotesi secondo cui la scelta di divellere la microspia era intervenuta solo dopo che COGNOME si era allontanato ed era riferibile solo a Puca: invero, è sufficiente osservare che tale non era l’abitudine dei sodali per come concordemente riferita dai collaboratori, essendo pacificamente emerso che il compito di COGNOME era quello di scovare ed eliminare le microspie (“pulire”, per usare il termine utilizzato proprio da COGNOME nella conversazione intercettata), cosicché era del tutto inverosimile che proprio in questo caso l’oggetto dell’incarico fosse diverso».
Siffatte argomentazioni, con cui la Corte del merito ha sottolineato che il ricorrente aveva affidato a NOME COGNOME per conto di NOME COGNOME, l’incarico di “pulire”, ossia di rimuovere le microspie, sfuggono al sindacato di questa Corte, in quanto logiche.
È, infatti, preclusa al Giudice della legittimità «la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova» (tra molte v. Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217 – 01).
4. Anche le censure formulate nel ricorso di NOME COGNOME non sono consentite.
La Corte di appello, nel ritenere attendibile il narrato del collaboratore NOME COGNOME che aveva riferito della consuetudine degli affiliati di affidare le operazioni di bonifica a un tecnico di fiducia di NOME COGNOME ha richiamato le argomentazioni del Giudice di primo grado relative alla credibilità soggettiva e all’attendibilità del collaboratore e ha precisato che le dichiarazioni di quest’ultimo erano riscontrate da quelle di NOME COGNOME e di sua madre NOME COGNOME altri due collaboratori di giustizia, i quali, già prima dell’inizio della collaborazione di COGNOME avevano parlato dell’abitudine dei sodali di far bonificare auto e ambienti e avevano affermato che il soggetto, che si occupava di tale operazione per conto del capo clan, era un appartenente alle forze dell’ordine, secondo quella che era una prassi corruttiva, praticata dal clan nei confronti di poliziotti e carabinieri NOME COGNOME nel corso dell’interrogatorio dell’Il maggio 2016, aveva riferito che la bonifica era stata eseguita da un poliziotto o un carabiniere, inviato dal reggente del clan COGNOME, e nel verbale del 27 novembre 2019 aveva riconosciuto tale soggetto proprio in COGNOME. Dichiarazioni di contenuto analogo aveva reso anche NOME COGNOME che aveva riconosciuto in COGNOME il soggetto che aveva eseguito le bonifiche presso la sua abitazione, e lo stesso COGNOME aveva ricordato di aver fatto delle operazioni di bonifica.
Anche la conversazione del 12 giugno 2020 tra COGNOME e COGNOME confortava le dichiarazioni di NOME COGNOME poiché lasciava intendere l’esistenza sia di una pregressa conoscenza tra COGNOME e COGNOME, certamente risalente all’epoca in cui COGNOME era ancora in servizio presso la Questura, sia di incarichi ricevuti da COGNOME per lavori di pulitura, che riguardavano soggetti terzi.
Riguardo all’episodio del 2012, per il quale è stata confermata la condanna dei ricorrenti, il collaboratore NOME COGNOME aveva riferito di aver appreso da NOME COGNOME che presso il suo ufficio era stata rinvenuta una microspia, nascosta dietro un condizionatore, e di ciò egli si era accorto grazie all’attività di bonifi effettuata da un tecnico incaricato da NOME COGNOME, presentatogli dal cugino NOME COGNOME.
La Corte d’appello ha sottolineato che COGNOME era cugino di COGNOME e che la circostanza secondo cui era egli che veicolava a COGNOME le richieste per le attività di bonifica si traeva già dalle dichiarazioni del collaboratore NOME COGNOME – sia pure limitatamente alle condotte degli anni 2007/2008 – e dalla conversazione del 12 maggio 2002, allorché COGNOME, parlando di fatti risalenti al 2007/2008, aveva richiesto l’intervento di COGNOME su richiesta del proprio cugino, che aveva necessità di verificare la presenza di dispositivi per intercettazioni. L’episodio del 2012 si collocava nell’ambito di tale stabile rapporto tra COGNOME e COGNOME, tant’è vero che lo stesso COGNOME, nell’interrogatorio in at aveva dichiarato che la richiesta di COGNOME gli era stata avanzata per conto di
un parente. Tali elementi si ponevano a riscontro delle dichiarazioni del collaboratore COGNOME circa il fatto che COGNOME era – come in passato – il soggetto
che aveva veicolato la richiesta di COGNOME a COGNOME.
A fronte di tali argomentazioni le censure del ricorrente concernono il significato che i Giudici di merito hanno conformemente assegnato alle risultanze
probatorie, valutate sia per il contenuto intrinseco di ognuna di esse, apprezzato dal Tribunale e dalla Corte di appello in maniera sovrapponibile, sia per la valenza
dalle stesse assunta in relazione ad altre captazioni o ad altri dati processuali. Le anzidette censure, quindi, sono tese a sollecitare una rivalutazione del compendio
probatorio in un senso stimato più plausibile o, comunque, più favorevole al ricorrente. Tuttavia, la valutazione dei dati processuali e la scelta tra
i
vari significati, assegnati al compendio probatorio, investono apprezzamenti di fatto
riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre o nell’attribuire un determinato
significato ad essa, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, COGNOME, Rv. 271623
– 01; Sez. 2, n. 10255 del 29/11/2019, dep. 2020, Fasciani, Rv. 278745 – 01).
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., il rigetto del ricorso di NOME COGNOME comporta la sua condanna al pagamento delle spese processuali /mentre alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi di NOME COGNOME e NOME COGNOME consegue la condanna di tali ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché – non sussistendo ragioni di esonero (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186) – della somma di euro tremila, equitativamente determinata, in favore della Cassa delle ammende a titolo di sanzione pecuniaria.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso di COGNOME NOME e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibili i ricorsi di COGNOME NOME e COGNOME e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 14 febbraio 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente