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Rifiuto test antidroga: Cassazione e ricorso inammissibile

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23116/2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un automobilista condannato per il reato di rifiuto del test antidroga. Il ricorso è stato respinto perché basato su doglianze di fatto, non consentite nel giudizio di legittimità, e non su critiche giuridiche alla sentenza impugnata. La Corte ha confermato la condanna al pagamento delle spese processuali e di una sanzione di 3.000 euro.

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Pubblicato il 27 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Rifiuto test antidroga: quando il ricorso in Cassazione è inammissibile

L’ordinanza n. 23116 del 2024 della Corte di Cassazione offre un importante chiarimento sui limiti del ricorso nel giudizio di legittimità, specialmente in casi come il rifiuto del test antidroga. La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile l’appello di un automobilista, confermando la sua condanna e sottolineando una regola fondamentale: in Cassazione non si possono contestare i fatti, ma solo la corretta applicazione della legge.

Il caso: dal rifiuto del test alla doppia condanna

I fatti risalgono al 22 giugno 2021, quando un automobilista, fermato in Borgosesia, si è rifiutato di sottoporsi agli accertamenti previsti dall’art. 187, comma 2-bis, del Codice della Strada. La Polizia Giudiziaria aveva richiesto il test ritenendo presenti sintomi che legittimavano il controllo per verificare l’eventuale assunzione di sostanze stupefacenti.

Per questo comportamento, l’uomo è stato condannato sia dal Tribunale di Vercelli che, successivamente, dalla Corte d’Appello di Torino con sentenza del 31 marzo 2023. La difesa ha quindi deciso di presentare ricorso alla Corte di Cassazione, chiedendo l’annullamento della sentenza o, in subordine, una sua riforma.

I motivi del ricorso e il rifiuto del test antidroga

La difesa ha basato il proprio ricorso su argomentazioni che, secondo la Cassazione, rientravano nelle cosiddette “doglianze in fatto”. In sostanza, si contestava la valutazione dei giudici di merito riguardo alla sussistenza dei sintomi che avevano giustificato la richiesta del test e la prognosi negativa sull’applicazione di sanzioni sostitutive, basata sui precedenti dell’imputato.

Questo tipo di contestazione mira a ottenere una nuova valutazione delle prove e delle circostanze del caso, un’attività che è preclusa alla Corte di Cassazione. Il suo compito, infatti, è quello di un “giudizio di legittimità”, ovvero controllare che i giudici precedenti abbiano applicato correttamente le norme di legge e di procedura, non di riesaminare come sono andati i fatti.

Le motivazioni della Cassazione: perché il ricorso è stato respinto

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile ai sensi dell’art. 606, comma 3, del codice di procedura penale. La motivazione è netta: il ricorso era basato su motivi non consentiti. Le critiche mosse dall’appellante erano mere “doglianze in fatto”, non supportate da una necessaria analisi critica delle argomentazioni giuridiche della sentenza impugnata.

I giudici di Cassazione hanno evidenziato come le corti di merito avessero già motivato in modo esauriente la loro decisione, sia sulla legittimità della richiesta di controllo basata sulla sintomatologia riscontrata, sia sulla prognosi negativa per la concessione di sanzioni alternative. Questa prognosi era stata formulata tenendo conto delle precedenti esperienze giudiziarie dell’imputato, considerate indicative di una sua incapacità di rispettare le prescrizioni.

Citando consolidata giurisprudenza (Sez. U, n. 8825/2016, Galtelli), la Corte ha ribadito che i principi che governano l’inammissibilità dei motivi d’appello si applicano anche al ricorso per cassazione. Un ricorso non può limitarsi a riproporre le stesse questioni di fatto già respinte, ma deve individuare specifici vizi di legge nella decisione impugnata.

Le conclusioni: le conseguenze pratiche della decisione

La declaratoria di inammissibilità ha comportato, come previsto dall’art. 616 del codice di procedura penale, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Inoltre, è stato condannato a versare una somma di 3.000 euro alla Cassa delle ammende, non essendo emerse ragioni per un esonero da tale pagamento.

Questa ordinanza conferma un principio cruciale: il ricorso in Cassazione non è un terzo grado di giudizio dove si possono ridiscutere i fatti. È uno strumento di controllo sulla legalità delle decisioni. Chi intende ricorrere alla Suprema Corte deve formulare censure precise e di natura strettamente giuridica, altrimenti il ricorso sarà inevitabilmente respinto con un aggravio di spese.

Perché il ricorso in Cassazione è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché basato su “doglianze in fatto”, cioè contestazioni sulla ricostruzione degli eventi, e non su critiche relative a errori di diritto commessi dai giudici dei gradi precedenti. Questo tipo di motivi non è consentito nel giudizio di legittimità.

Cosa significa che un ricorso non è supportato da una necessaria “analisi critica”?
Significa che il ricorrente si è limitato a riproporre le stesse argomentazioni già respinte nei gradi di merito, senza spiegare in modo specifico e giuridicamente fondato perché le motivazioni della sentenza impugnata sarebbero errate dal punto di vista legale.

Quali sono le conseguenze economiche per chi presenta un ricorso inammissibile in Cassazione?
La persona che presenta un ricorso dichiarato inammissibile viene condannata, a norma dell’articolo 616 del codice di procedura penale, al pagamento delle spese del procedimento e al versamento di una somma di denaro (in questo caso 3.000 euro) in favore della Cassa delle ammende.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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