Rifiuto di Generalità: Quando Dire ‘No’ alla Polizia Diventa un Reato
Il rifiuto generalità a un pubblico ufficiale è un comportamento che può costare caro. Lo sa bene la protagonista di una recente vicenda giudiziaria, la cui condanna per essersi rifiutata di fornire le proprie generalità a operatori della Polizia Municipale è stata definitivamente confermata dalla Corte di Cassazione. Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale del nostro ordinamento e, allo stesso tempo, offre importanti spunti sulla corretta formulazione dei ricorsi in sede di legittimità.
I Fatti del Caso: Una Semplice Richiesta, un Rifiuto Costoso
La vicenda ha origine da un controllo effettuato dalla Polizia Municipale. Durante l’esercizio delle loro funzioni, gli agenti chiedevano a una cittadina di fornire le proprie generalità, come previsto dalla legge. La donna, tuttavia, si rifiutava di adempiere alla richiesta.
Per questo comportamento, il Tribunale di Torre Annunziata, in composizione monocratica, la dichiarava colpevole del reato previsto e punito dall’articolo 651 del codice penale. La condanna consisteva in una pena pecuniaria: settanta euro di ammenda. Una cifra modesta, ma che sanciva la commissione di un reato a tutti gli effetti.
L’Appello e il verdetto della Cassazione sul rifiuto generalità
Contro la sentenza di primo grado, veniva proposto ricorso per Cassazione. Tuttavia, la Suprema Corte ha ritenuto il ricorso inammissibile, confermando così la condanna. Il motivo del rigetto non risiede nel merito della questione – ovvero se il rifiuto generalità fosse o meno giustificato – ma in un vizio procedurale dell’atto di impugnazione.
Secondo gli Ermellini, il ricorso era “meramente assertivo”. In altre parole, si limitava a contestare la decisione del Tribunale in modo generico, senza specificare quali elementi di fatto o passaggi logici della sentenza di primo grado fossero errati. L’appellante non ha adempiuto all’onere di indicare con precisione quali prove, se riesaminate, avrebbero potuto portare a una conclusione diversa. Di fronte a un’impugnazione così formulata, priva di elementi concreti e di genuina capacità critica, la Corte non ha potuto fare altro che dichiararne l’inammissibilità.
Le Motivazioni della Decisione
La decisione della Cassazione si fonda su un principio cardine del processo penale: la specificità dei motivi di ricorso. Chi impugna una sentenza non può limitarsi a esprimere il proprio dissenso, ma deve articolare una critica puntuale e argomentata, evidenziando gli errori specifici – siano essi di fatto, di diritto o di logica – commessi dal giudice precedente. In assenza di tale specificità, il ricorso diventa una semplice asserzione, incapace di attivare un vero e proprio controllo di legittimità.
Nel caso di specie, il ricorrente non ha fornito alla Corte gli strumenti per valutare se la decisione del Tribunale fosse fondata. Il ricorso era privo dell’indicazione di “elementi asseritamente ignorati” o di passaggi logici fallaci che avrebbero potuto condurre a un “diverso esito decisorio”. Pertanto, la condanna per il rifiuto generalità è diventata definitiva non perché la Corte abbia riesaminato e confermato nel merito la colpevolezza, ma perché il tentativo di metterla in discussione è fallito sul piano procedurale.
Conclusioni: Cosa Impariamo da Questa Sentenza
Questa pronuncia offre due importanti lezioni. La prima, di carattere sostanziale, è un chiaro monito per tutti i cittadini: opporre un rifiuto alla richiesta di un pubblico ufficiale di fornire le proprie generalità costituisce un reato. È un dovere civico e giuridico collaborare con le autorità che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni.
La seconda lezione è di natura processuale e si rivolge principalmente agli operatori del diritto. Un ricorso per Cassazione, per avere speranza di successo, deve essere redatto con estremo rigore, specificità e completezza. Non è sufficiente contestare, ma è necessario dimostrare, punto per punto, dove e perché il giudice precedente ha sbagliato. Un ricorso generico è destinato a essere dichiarato inammissibile, con la conseguenza di rendere definitiva la sentenza impugnata.
Cosa succede se un cittadino si rifiuta di fornire la propria identità a un agente della Polizia Municipale?
Commette il reato previsto dall’articolo 651 del codice penale, ovvero “Rifiuto d’indicazioni sulla propria identità personale”, e può essere condannato a una pena, che nel caso di specie è stata una ammenda di settanta euro.
Per quale motivo il ricorso presentato alla Corte di Cassazione è stato respinto?
Il ricorso è stato respinto perché ritenuto inammissibile. Era “meramente assertivo”, cioè si limitava a contestare la sentenza precedente in modo generico, senza specificare quali elementi di fatto o di logica, se esaminati, avrebbero potuto portare a una decisione differente.
Qual è l’obbligo del ricorrente quando presenta un appello in Cassazione?
Il ricorrente ha l’onere di specificare nel dettaglio quali siano i dati di fatto o i passaggi logici errati nella sentenza impugnata. Non basta una contestazione generica, ma è necessaria un’indicazione puntuale degli elementi che, se correttamente valutati, potrebbero condurre a un esito diverso.
Testo del provvedimento
Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 26113 Anno 2025
In nome del Popolo Italiano
Penale Sent. Sez. 1 Num. 26113 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 26/06/2025
PRIMA SEZIONE PENALE
NOME COGNOME
Sent. n. sez. 477/2025
UP – 26/06/2025
– Relatore –
NOME COGNOME
ha pronunciato la seguente
sul ricorso proposto da:
avverso la sentenza del 21/03/2025 del TRIBUNALE di TORRE ANNUNZIATA
udita la relazione del Consigliere NOME COGNOME
Con la sentenza indicata in epigrafe, il Tribunale di Torre Annunziata in composizione monocratica ha dichiarato NOME COGNOME colpevole del reato di cui all’art. 651 cod. pen. – per essersi rifiutata di fornire indicazioni circa la propria identità personale a operatori della Polizia Municipale, durante l’esercizio delle loro funzioni – e, per l’effetto, l’ha condannata alla pena di euro settanta di ammenda.
Il ricorrente, in altri termini, non ha adempiuto all’onere di specificare quali dati di fatto o logici, ove esaminati, avrebbero potuto fondatamente condurre a un diverso esito decisorio. In tal modo, il ricorso rimane meramente assertivo e privo dell’indicazione di elementi asseritamente ignorati, oltre che genuinamente atti a fornire difformi lumi.