Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 7181 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1   Num. 7181  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 09/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a ROMA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 20/02/2023 della CORTE APPELLO di ROMA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
 Con ordinanza del 20 febbraio 2023, la Corte di appello di Roma, quale giudice dell’esecuzione, ha ridetermiNOME in cinque anni e quattro mesi di reclusione e 22.000 euro di multa la pena inflitta ad NOME COGNOME con sentenza del 29 settembre 2020, divenuta irrevocabile l’8 febbraio 2022, per reato ex art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, commesso nel 2007.
A tal fine, ha rilevato che la sanzione è stata commisurata dal giudice della cognizione sulla base di una cornice edittale – quella vigente al tempo della consumazione del reato – della quale la Corte costituzionale, con sentenza n. 32 del 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, con conseguente reviviscenza della normativa previgente, che prevedeva, per quei fatti, la pena della reclusione da due a sei anni e della multa da 5.164 a 77.640 euro.
Ha, quindi, fissato la pena per il più grave reato contestato a COGNOME al capo 9-bis) in cinque anni di reclusione e 20.000 euro di multa ed applicato, a titolo di aumento per la continuazione con il reato di cui al capo 9), la pena di quattro mesi di reclusione e 2.000 euro dr multa.
NOME COGNOME, con il AVV_NOTAIO dellAVV_NOTAIO, ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, con il quale deduce vizio di motivazione per avere il giudice dell’esecuzione ingiustificatamente preso le mosse, nella rideterminazione della pena, da sanzione detentiva prossima al massimo edittale, per di più indicando, quale reato più grave, quello che il giudice della cognizione aveva, al contrario, ritenuto di minore offensività.
 Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTI)
1.  Il ricorso è inammissibile per carenza di interesse.
Dall’esame degli atti trasmessi dalla Corte di appello di Roma risulta, invero, che, diversamente da quanto esposto dal ricorrente e ritenuto dal giudice dell’esecuzione, NOME COGNOME condanNOME per il reato, ascrittogli al capo 9) e consumato tra agosto e settembre del 2007, di detenzione illecita e cessione di «sostanza stupefacente rientrante nella tabella I di cui all’art. 14» del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, condotta , avendo ad oggetto cc.dd. «droghe pesanti», non è stata interessata dalla decisione adottata dalla Corte
costituzionale nel 2014, relativa alle sole sostanze indicate nelle Tabelle II e IV e, specificamente, alla disposizione che ne ha parificato il trattamento rispetto a quelle inserite nella Tabelle I e III.
Dalla lettura della sentenza di merito emerge, poi, che COGNOME è stato condanNOME per il più grave reato di cui al capo 9) – per questa parte ravvisandosi, nel provvedimento impugNOME, un’ulteriore imprecisione, laddove si assume, erroneamente, che il giudice della cognizione avesse stimato la maggiore gravità del reato contestato al capo 9-bis) alla pena di sei anni e due mesi di reclusione e 32.000 euro di multa (e non, va per completezza espositiva segnalato, in sei anni di reclusione e 30.000 euro di multa, come indicato dal giudice dell’esecuzione, che ha omesso di tenere conto dell’aumento a titolo di continuazione interna).
Rebus sic stantibus, è evidente che la corretta considerazione del tenore delle imputazioni avrebbe dovuto indurre il giudice dell’esecuzione ad operare la chiesta rideterminazione sulla sola porzione di pena di quattro mesi di reclusione e 3.000 euro di multa, applicata, a titolo di aumento per la continuazione, per il reato di cui al capo 9-bis), concernente hashish.
Il disguido verificatosi ha, invece, fatto sì che il giudice dell’esecuzione riducesse il carico sanzioNOMErio in termini (cinque anni e quattro mesi di reclusione e 22.000 euro di multa) largamente inferiori a quelli (sei anni e due mesi di reclusione e 32.000 euro di multa) che, ove le coordinate della questione fosse state nitidamente delineate, sarebbero stati, comunque, invalicabili al ribasso.
La definitività della statuizione de qua agitur che, per questa parte, non è stata impugnata – elide la rilevanza delle doglianze sollevate da COGNOME, il quale, per effetto del fallace apprezzamento dell’addebito sub 9), ha già conseguito un risultato più favorevole di quello che egli potrebbe, secondo diritto, ottenere laddove fosse accertata la fondatezza de rilievi introdotti con il ricorso per cassazione.
Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale, rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 3.000,00 euro.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 9 novembre 202:3.