Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 38622 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 38622 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 26/06/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME NOME FILIANO il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 26/03/2024 della CORTE ASSISE di POTENZA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG, dott.AVV_NOTAIO NOME COGNOME, la quale ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 26 marzo 2024, la Corte di assise di Potenza, quale giudice dell’esecuzione, ha rigettato< la richiesta, avanzata nell'interesse di NOME COGNOME, di rideterminazione in trenta anni di reclusione della pena dell'ergastolo< con isolamento diurno per la durata di sei mesi, inflittagli con sentenza emessa da quell'ufficio giudiziario il 9 novembre 1999, confermata in appello 1'11 dicembre 2000 e divenuta irrevocabile il 3 luglio 2002.
A tal fine, ha, tra l'altro, rilevato che la normativa transitoria di cui COGNOME ha chiesto l'applicazione presuppone l'ammissione dell'imputato, in fase di appello, al giudizio abbreviato che, nel caso di specie, non ha avuto luogo perché, a sua volta, condizionata alla rinnovazione, in secondo grado, dell'istruttoria dibattimentale, oggetto dell'istanza illo tempore presentata da COGNOME e disattesa dalla Corte di assise di appello perché tendente ad approfondimenti superflui e, comunque, non necessari ai fini della decisione.
NOME COGNOME propone, con l'assistenza dell'AVV_NOTAIO, ricorso per cassazione affidato a due motivi, con il primo dei quali eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione sul rilievo che il giudice dell'esecuzione ha imperniato la decisione impugnata su considerazioni che hanno trovato smentita in recenti pronunzie della giurisprudenza di merito, che hanno riconosciuto l'illegittimità dell'esegesi del quadro normativo che subordina la rideterminazione in melius, in fase esecutiva, del trattamento sanzioNOMErio ad una circostanza casuale ed aleatoria, quale quella dell'avvenuta riapertura dell'istruzione dibattimentale, che, peraltro, è dipesa da fattori a lui totalmente estranei, sì da determinare, ai suoi danni, un'evidente disparità di trattamento.
Con il secondo motivo, COGNOME eccepisce l'illegittimità costituzionale dell'art. 4 -ter d.l. 7 aprile 2000, n. 82, convertito dalla legge 5 giugno 2000, n. 144, per contrasto con gli artt. 117, primo comma, in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, e 3 Cost..
Rileva, al riguardo, che la normativa in questione ha sottoposto gli imputati per reati puniti con la pena dell'ergastolo ad un trattamento sanzioNOMErio irragionevolmente differenziato in funzione delle diverse fasi processuali.
Segnala, specificamente, che l'art. 4 -ter costituisce – al pari dell'art. 442, comma 2, cod. proc. pen., nella versione successiva all'entrata in vigore della legge 16 dicembre 1999, n. 479 – norma sostanziale, in quanto tale soggetta al principio di retroattività della legge penale più favorevole.
Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché vertente su censure manifestamente infondate.
In fatto, è utile ricordare, preliminarmente, che COGNOME, nel proporre appello avverso la sentenza di primo grado, che lo aveva condanNOME alla pena dell'ergastolo, e, poi, nel corso del giudizio di secondo grado, chiese la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, mediante nuovo esame degli imputati e loro eventuale confronto, nonché ulteriore audizione dei consulenti tecnici.
Tanto, al dichiarato fine (cfr. pagg. 41-42 della sentenza della Corte di assise di appello di Potenza dell'il dicembre 2000) di essere, per tale via, abilitato a chiedere l'ammissione al giudizio abbreviato in forza della speciale disciplina introdotta dall'art. 4-ter d.l. 7 aprile 2000, n. 82, convertito dalla legge 5 giugno 2000, n. 144, che, a seguito dell'eliminazione della preclusione all'accesso a quel rito in precedenza prevista per i reati puniti con la pena perpetua, ha previsto al comma 3), lett. b), in via transitoria, che l'imputato possa, appunto, presentare richiesta di trasformazione del rito «nel giudizio di appello, qualora sia stata disposta la rinnovazione dell'istruzione ai sensi dell'articolo 603 del codice di procedura penale, prima della conclusione della istruzione stessa».
La Corte di assise di appello disattese l'istanza di COGNOME, ritenuta funzionale allo svolgimento di un'attività processuale «inutile, superflua e quindi non assolutamente necessaria».
Formatosi il giudicato, COGNOME si è reiteratamente rivolto al giudice dell'esecuzione per ottenere la rideterminazione della pena in quella temporanea di trenta anni di reclusione in applicazione del principio discendente dalla sentenza resa dalla Corte EDU il 17 settembre 2009 sul caso COGNOME c. Italia.
In particolare, a fronte del rigetto frapposto, da parte del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Potenza, alla richiesta di rideterminazione della pena, COGNOME propose ricorso per cassazione, che fu, a sua volta, respinto con sentenza n. 34231 dell'il marzo 2015.
3.1. Nell'occasione, i giudici di legittimità ricordarono, innanzitutto, come «la giurisprudenza di questa Corte abbia in modo unanime insegNOME che il principio discendente dalla sentenza 17.9.2009 della CEDU sul caso SCOPPOLA c. Italia si può applicare solo a coloro che abbiano chiesto e ottenuto l'accesso al rito abbreviato nel periodo di vigenza della L. n. 479 del 1999 (quindi, tra il 2.1.2000 e il 24.11.2000), perché solo in quel caso l'intervenuta modifica legislativa ebbe a creare un irragionevole pregiudizio a carico dell'imputato (sul punto, assolutamente pacifico, cfr. Rv. 258272, 256257, 255388, 254524, 254212, 254096, 251857, 253093, 252211 e altre)».
Richiamarono, in particolare, due «fondamentali decisioni delle Sezioni Unite, entrambe pronunciate in data 19.04.2012, la n. 34233, in proc. COGNOME (dep. il 7.9.2012) e la n. 34472, in proc. COGNOME (dep. il 10.9.2012), peraltro ribadite e completate dalla più recente decisione n. 18821 del 24.10.2013, dep. 7.5.2014, COGNOME, Rv. 258649, emessa, ancora dalle Sezioni Unite, dopo l'intervento della Corte costituzionale (investita proprio dal Supremo consesso con la citata ordinanza n. 34472/2012) che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 7, comma 1, D.L. 24.11.2000, n. 341, convertito dalla L. 19.1.2001, n. 4, per contrasto con l'art. 117, comma primo, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU (sent. n. 210 del 2013)».
Ribadirono, sulla scia di quei dicta, i seguenti principi:
«- le decisioni della Corte EDU che evidenziano una situazione di oggettivo contrasto della normativa interna sostanziale con la Convenzione EDU assumono rilevanza – con le precisazioni che seguono – anche nei processi diversi da quello nell'ambito del quale è intervenuta la pronuncia della predetta Corte (ordinanza COGNOME cit., Rv. n. 252933);
l'art. 442 c.p.p., disciplinando la severità della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato, è norma di diritto sostanziale e, tenuto conto che la stessa – con specifico riferimento ai reati punibili con la pena dell'ergastolo – ha subìto, nel tempo, varie modifiche per interventi della Corte costituzionale e del legislatore, deve soggiacere al principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7, § 1, CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, vale a dire irretroattività della previsione più severa (principio già contenuto nell'art. 25, comma secondo, Cost.), ma anche, e implicitamente, retroattività o ultrattività della previsione meno severa;
lo strumento processuale di eventuale adeguamento interno, al fine di garantire concreta applicazione al principio della legalità della pena, anche nella sua valenza convenzionale ex art. 7 della Carta dei Diritti dell'Uomo quale interpretato dalla Corte EDU, va individuato nell'incidente di esecuzione ex art. 670 c.p.p., nell'ambito del quale superare – se del caso – il giudicato (il valore
della cui intangibilità viene considerato recessivo rispetto a quello, fondato sull'art. 30, quarto comma della L. 11.3.1953, n. 30, che inerisce al divieto di dare esecuzione ad una sanzione penale contemplata da una norma dichiarata incostituzionale dal Giudice delle leggi: tale è il principio affermato nella recente Sez U, n. 18821/2014, cit.)».
Evidenziarono, ancora, «come l'adeguamento concreto a tali principi nel diritto interno, nei termini e nelle forme suddette, vada ricondotto solo ai casi che si trovino in una situazione identica a quella esaminata dalla CEDU», secondo quanto precisato, in specie, dalla citata sentenza n. 34233, COGNOME, che, sul punto, così si esprime: «L'operatività di tale regola (i.e. la retroattività della lex mitior, quale legalità convenzionale della pena), con specifico riferimento alla disciplina del giudizio abbreviato, non può essere ancorata, per individuare la disposizione che prevede la pena più mite, al mero dato formale delle diverse leggi succedutesi tra la data di commissione dei reati e la pronuncia della sentenza definitiva, ma presuppone la coordinazione di tale dato, di per sé neutro, con le modalità e con i tempi di accesso al rito, perché da essi direttamente deriva, in base alla legge vigente, il trattamento sanzioNOMErio da applicare».
Più avanti, soggiunsero i giudici di legittimità, «la stessa sentenza ribadisce e precisa tale concetto, assumendo che si tratta di una "fattispecie complessa integrata" nella quale – in definitiva – la natura sostanziale del trattamento sanzioNOMErio deve essere di necessità collegata alle modalità e ai tempi del rito speciale» sicché, in altri termini, «l'individuazione della pena sostitutiva da applicare in sede dì giudizio abbreviato per i reati punibili in astratto con l'ergastolo, con o senza isolamento diurno, è subordinata al verificarsi di una fattispecie integrata dalla commissione di reati per i quali sia prevista tale sanzione e dalla richiesta di accesso al rito speciale avanzata dall'interessato, elementi questi che, in quanto inscindibilmente connessi tra loro, devono concorrere entrambi, affinché possa trovare applicazione, in caso di condanna, la commiNOMEria punitiva prevista dalla legge al momento della richiesta: è quest'ultima, infatti, che cristallizza, in rapporto al reato o ai reati per i quali si procede, il trattamento sanzioNOMErio vigente al momento di essa».
Le precedenti considerazioni indussero la Corte di cassazione a riaffermare «la concreta inapplicabilità del principio discendente dalla sentenza della CEDU in data 17. 9.2009 (nel caso SCOPPOLA c. Italia) a tutte quelle situazioni che non siano sovrapponibili, nei loro elementi essenziali aventi rilievo nello schema sopra illustrato, alla situazione valutata dall'anzidetta Corte sopranazionale».
La Corte giunse, per questa via, alla conclusione, sempre imperniata sui principi di diritto espressi dalle Sezioni Unite nella sentenza COGNOME, che «la conversione della pena dell'ergastolo in quella di anni trenta è possibile, in sede esecutiva, solo ove il rito abbreviato sia stato chiesto e sia stato ammesso tra il 2 gennaio ed il 24 novembre 2000, e cioè nella vigenza della L. n. 479 del 1999, art. 30, comma 1, lett. b, (che prevedeva che, in esito al rito speciale, all'ergastolo si sostituisse la pena di anni trenta di reclusione), mentre la decisione definitiva sia stata pronunciata dopo il 24.11.2000, con applicazione del più severo trattamento sanzioNOMErio introdotto con l'art. 7 D.L. n. 341 del 2000 (che ripristinava l'ergastolo senza isolamento diurno: norma giudicata dalla Corte costituzionale, nella citata decisione n. 210/2013, non di "interpretazione autentica" dell'art. 442, comma 2, ult. periodo, c.p.p., come esplicitamente enunciato dal legislatore, ma norma sostanzialmente innovativa, che andava a modificare in malam partem il contenuto sanzioNOMErio della disposizione suddetta e non poteva, perciò, avere efficacia retroattiva)».
Con il corollario che «tutti i casi diversi da quello appena delineato, siccome strutturalmente non riconducibili a quello per cui è stato espresso il principio, non possono, dunque, trovare soluzione positiva (vedi, tra le più recenti, Sez. 1, n. 6004 del 10/1/2014, COGNOME, Rv. 250026; Sez. 1, n. 4008 del 10/1/2014, COGNOME, Rv. 258272; Sez. 1, n. 23931 del 17/5/2013, COGNOME, Rv. 256257)».
3.2. In ordine, poi, alla corretta interpretazione della norma prevista dall'art. 4 -ter d.l. 7 aprile 2000, n. 82, la Corte di cassazione osservò che «La norma transitoria di cui all'art. 4-ter, comma 3, L. 5 giugno 2000 n. 144 di conversione del D.L. 7 aprile 2000 n. 82 – recante modificazioni alla disciplina del giudizio abbreviato – concernente specificamente i processi penali in corso per delitti puniti con la pena dell'ergastolo per i quali il soggetto non aveva potuto prima avvalersi della più favorevole disposizione del novellato art. 442, comma 2, c.p.p., limitava la possibilità dell'imputato di proporre la richiesta di giudizio abbreviato "prima della conclusione dell'istruzione dibattimentale" alle sole fasi di merito, di primo grado, d'appello o di rinvio, mentre un analogo meccanismo recuperatorio dell'attenuazione di pena non era previsto per i processi ormai pervenuti alla fase del giudizio di cassazione».
Quanto, in particolare, alla fase di appello – si legge nella sentenza n. 34231 dell'Il marzo 2015 – l'univoco tenore della lettera b) dell'art. 4 -ter, comma 3, implica «che la nuova disciplina in tema di rito abbreviato non poteva avere ingresso nei giudizi di appello in cui o non fosse stata ordinata la riapertura dell'istruttoria dibattimentale oppure, qualora disposta ai sensi dell'art. 603 c.p.p., la stessa si fosse esaurita, atteso che, in tale sede, non sarebbe stato possibile l'ipotetico "recupero" di facoltà ormai naturalmente precluse, proprio
perché al detto recupero non sarebbe conseguita alcuna rinuncia al diritto alla prova nel contraddittorio di merito, essendo stato tale diritto, per definizione, già integralmente esercitato».
La Corte di cassazione stimò, dunque, che «il legislatore, in presenza del mutato quadro ordinamentale e delle profonde innovazioni che hanno contrassegNOME l'intero scenario, sul piano dei presupposti e delle cadenze, del rito alternativo che viene qui in discorso, ha consentito in via transitoria la proposizione di richieste, ormai precluse, ancorandone temporalmente l'ammissibilità ad uno stadio antecedente l'inizio dell'istruttoria dibattimentale», in tal modo compiendo una scelta del tutto ragionevole che «si salda appieno con la funzione deflattiva che – anche in regime transitorio – continuava a caratterizzare il giudizio abbreviato rispetto all'ordinario epilogo dibattimentale e in sé giustifica la speciale diminuzione di pena in ipotesi di condanna».
3.3. L'operata ricostruzione dell'istituto indusse nei giudici di legittimità due ulteriori considerazioni.
Da un canto, venne rilevato, «risolvendosi la diminuente di pena in un trattamento premiale accessorio che scaturisce dalla scelta, ormai unilaterale, di un rito che si configura a struttura probatoria eventuale e contratta, è evidente che un siffatto trattamento sanzioNOMErio vive e trae la propria ragione d'essere esclusivamente nell'alveo del rito cui accede, senza pertanto assumere l'autonomia tipica di una disciplina di natura sostanziale».
Dall'altro, si aggiunse, «correlandosi il regime transitorio alla opzione per un modello ontologicamente alternativo alla istruzione dibattimentale, è del tutto evidente che la sede del giudizio di appello in cui o non è stata mai disposta o, se disposta, si è esaurita l'istruttoria dibattimentale, si presenterebbe del tutto eccentrica rispetto ad un ipotetico "recupero" di facoltà ormai naturalmente precluse, proprio perché ad esso non conseguirebbe alcuna rinuncia al diritto alla prova nel contraddittorio di merito, essendo stato tale diritto per definizione già integralmente esercitato».
3.4. Nel avallare il rigetto, da parte del giudice dell'esecuzione, della richiesta di COGNOME, la Corte di cassazione non mancò, del resto, di evocare il consolidato indirizzo ermeneutico che ha riconosciuto la coerenza costituzionale della disciplina transitoria in esame, sul postulato che «la disciplina processuale del rito abbreviato è certamente caratterizzata da innegabili riflessi di natura sostanziale, visto l'effetto premiale, sul piano sanzioNOMErio, per l'imputato, il che induce istintivamente a pensare a
situazioni che, pur simili nella loro struttura sostanziale, finiscono per soggiacere a regole processuali diverse, in dipendenza di eventi meramente casuali. In realtà, però, il riverbero che l'operatività di un istituto processuale può avere su di una situazione sostanziale non è idoneo ad annullare o a svilire la connotazione tipicamente processuale dello stesso istituto, nella specie il giudizio abbreviato. Non va sottaciuto che l'effetto sostanziale della riduzione di pena che a tale giudizio consegue è in stretto ed ineludibile rapporto di dipendenza con una precisa scelta processuale, praticabile solo nel rispetto delle modalità e dei tempi fissati, con rigida scansione, nel codice di rito. Se, quindi, si è di fronte a norme processuali, le stesse non possono che essere soggette al principio "tempus regit actum", senza che ciò significhi lesione alcuna dei principi costituzionali e, segnatamente, del principio di uguaglianza dettato dall'art. 3 Cost. Né è legittimo fare leva sulla norma dell'art. 2, comma 3, c.p. in materia di successione di leggi penali nel tempo, per sostenere le retroattività della sopravvenuta più favorevole normativa in materia di giudizio abbreviato, e ciò per la semplice ragione che tale normativa non integra il concetto di "legge", dovendosi per tale intendere solo quella il cui contenuto incide direttamente sul precetto o sulla sanzione. Conclusivamente, il principio cui soggiace la normativa in esame altro non è che l'applicazione alla materia processuale della regola generale della irretroattività di ogni legge, stabilità dell'art. 11, comma 1, delle disposizioni sulla legge in generale" (Sez. 6, Sentenza n. 10621 del 4/7/2000, COGNOME ed altri, Rv. 217098; ma anche, Sez. 5, n. 33718 del 13.6.2001, COGNOME e altri; Sez. 1, n. 468 del 18.12.2000, COGNOME ed altri; Sez. I, 8.11.2000, COGNOME ed altri; Sez. I, 7.7.2000, COGNOME; Sez. I, 26.6.2000, COGNOME; Sez. VI, 20.6.2000, COGNOME; Sez. II, 13.6.2000, COGNOME ed altri; Sez. 1, n. 8857 del 13.6.2000, COGNOME; Sez. I, 5.6.2000, Flasani)». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Orientamento che, fu conclusivamente precisato, ha trovato ennesimo, autorevole avallo da parte del massimo consesso nomofilattico (Sez. U, n. 44895 del 17/07/2014, COGNOME, Rv. 260927 – 01), chiaro nell'evidenziare l'inapplicabilità del principio di necessaria retroattività della disposizione più favorevole, affermato dalla sentenza CEDU del 17 settembre 2009 nel caso COGNOME contro Italia, in relazione alla disciplina dettata da norme processuali, che è regolata dal principio tempus regit actum.
Nel 2018, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Potenza, nuovamente adito da NOME COGNOME, ha, del pari, rigettato l'istanza di sostituzione della pena dell'ergastolo con quella di trent'anni di reclusione.
Il ricorso per cassazione proposto dal condanNOME avverso tale decisione è stato dichiarato inammissibile con ordinanza n. 8409 del 06/12/2018, dep. 2019,
in ragione dell'insussistenza dell'elemento di novità dedotto dall'interessato, asseritamente rappresentato dal principio di diritto affermato dalla Sezioni Unite con la sentenza Unite n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, COGNOME, e mutuato dalle successive decisioni.
La decisione dei giudici di legittimità è incentrata sui capisaldi argomentativi, del tutto coerenti con quelli che sorreggono la sentenza n. 34231/2015, che, di seguito si enunciano:
la conversione della pena dell'ergastolo in quella di anni trenta è dovuta, in sede esecutiva, solo nel caso di giudizio abbreviato ammesso tra il 2 gennaio ed il 24 novembre 2000 e cioè nella vigenza dell'art. 30, comma primo, lett. b), legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Sez. 1, n. 4008 del 10/01/2014, COGNOME, Rv. 258272) e solo se l'imputato nel corso del giudizio di cognizione sia stato ammesso al rito abbreviato e la sentenza di condanna sia stata pronunciata all'esito di quel giudizio (Sez. 1, n. 34158 del 04/07/2014, COGNOME, Rv. 260787);
il presupposto essenziale per chiedere l'estensione degli effetti della sentenza COGNOME è rappresentato dall'ammissione al rito abbreviato, mentre non vi sarebbe alcuna ragione per estendere lo sconto di pena a condannati, che non chiedevano o non potevano chiedere l'ammissione al rito abbreviato, ovvero, avendolo chiesto, non vi erano stati ammessi sulla base delle norme processuali all'epoca vigenti (Sez. 1, n. 34158 del 04/07/2014 cit.);
la norma dell'art. 4 -ter d.l. 7 aprile 2000, n. 82, riveste natura non sostanziale, ma processuale: essa non attiene all'entità della riduzione di pena conseguente al giudizio abbreviato, ma ai termini di proposizione della relativa richiesta, limitandosi in particolare a ribadire – nel quadro di una disciplina transitoria – l'impossibilità di introdurre il rito alternativo quando il processo si trova davanti al giudice di legittimità, che non è chiamato ad assumere prove;
il principio di necessaria retroattività della disposizione più favorevole, affermato dalla sentenza CEDU nel caso COGNOME c. Italia, non è applicabile in relazione alla disciplina dettata da norme processuali, regolata dal principio tempus regit actum (Sez. 3, n. 39842 del 16/07/2015, COGNOME, non massimata; Sez. U, n. 44895 del 17/07/2014, COGNOME, Rv. 260927; Sez. 1, n. 8350 del 27/11/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259543).
L'analitica esposizione del contenuto delle decisioni rese dalla Corte di cassazione in ordine agli incidenti di esecuzione in passato instaurati da
COGNOME sul medesimo oggetto dell'istanza disattesa con l'ordinanza qui impugnatasi consente di apprezzare con maggiore immediatezza la manifesta infondatezza del più recente ricorso del condanNOME che, al pari del provvedimento del giudice dell'esecuzione, a tali pronunzie non fa cenno.
Con il primo motivo, COGNOME invoca, nella sostanza, l'estensione nei suoi confronti delle rationes sottese a due provvedimenti resi da altrettanti giudici di merito nei confronti di soggetti che, come lui, avevano chiesto – ma non ottenuto – di essere ammessi, in fase di appello, al giudizio abbreviato in virtù della disciplina transitoria introdotta a seguito del venir meno della preclusione all'accesso al rito speciale per coloro che fossero chiamati a rispondere di delitti punti con la pena di massimo rigore.
5.1. Il ragionamento non persuade, perché viziato nel suo fondamentale presupposto, costituito dall'assimilabilità delle situazioni indicate a quella in trattazione.
Per un verso, COGNOME sottopone alla valutazione del giudice dell'esecuzione – e, poscia, di quello di legittimità – un caso in cui l'imputato, all'esordio del giudizio di appello, aveva chiesto, il 14 gennaio 2000, di essere ammesso al giudizio abbreviato, incontrando il diniego dell'organo giudicante, motivato dal fatto che, a quel tempo, tale possibilità era inibita pendente il secondo grado, e reiterato il 12 giugno 2000, ovvero dopo l'entrata in vigore dell'art. 4 -ter d.l. 7 aprile 2000, n. 82, l'istanza, che era stata, nondimeno, nuovamente disattesa perché la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, medio tempore, si era conclusa.
Tangibile si palesa, nella delineata cornice, la diversa connotazione, sotto il profilo della successione degli accadimenti processuali, delle fattispecie messe a confronto, una sola delle quali è stata segnata dalla rinnovazione, in grado di appello, dell'istruttoria dibattimentale.
Non giova, per altro verso, alla causa di COGNOME la residua decisione menzionata nel ricorso – e, al pari di quella già esaminata, ad esso materialmente allegata – che, secondo quanto è dato evincersi dalla sua formulazione letterale, perviene alla rideterminazione della pena sulla base della mera proposizione, vigente l'art. 4 -ter d.l. 7 aprile 2000, n. 82, di istanza di ammissione al giudizio abbreviato da parte di imputato, condanNOME in primo grado all'ergastolo ed appellante, senza in alcun modo chiarire se, in quella fase processuale, fosse stata o meno disposta la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale e, in caso di risposta positiva a tale quesito, se essa fosse o meno conclusa al momento della proposizione dell'istanza di accesso al rito speciale.
Tale decisione appare, pertanto, priva di qualsivoglia valenza nonnofilattica e, quindi, assolutamente inidonea a scalfire il pacifico indirizzo ermeneutico
(ribadito da Sez. 1, n. 11916 del 21/11/2018, dep. 2019, Montenegro, Rv. 275324 – 01, e, ancora di recente, da Sez. 7, n. 15758 del 28/03/2024, Cannatà, non massimata) sotteso alle precedenti pronunzie rese dal giudice dell'esecuzione e dalla Corte di cassazione sulle istanze di COGNOME.
5.2. Dalle superiori considerazioni discende l'inammissibilità dell'istanza di rideterminazione avanzata da NOME COGNOME e la manifesta infondatezza del correlato motivo del ricorso per cassazione proposto avverso l'ordinanza che la ha respinta, non apprezzandosi, nella fattispecie, la sussistenza di un «nuovo elemento di diritto» idoneo a superare la preclusione del c.d. giudicato esecutivo (in proposito, cfr., tra le altre, Sez. 1, n. 30569 del 07/03/2019, Acquas, Rv. 276604 – 01).
Ugualmente inammissibile è la residua doglianza di COGNOME, vertente sulla legittimità costituzionale dell'art. 4-ter di. 7 aprile 2000, n. 82, che trae linfa dall'attribuzione alla disposizione di natura sostanziale cui consegue l'applicazione retroattiva della norma penale più favorevole e dalla dedotta irragionevolezza della sottoposizione a trattamento differenziato delle situazioni soggettive in dipendenza delle diverse fasi processuali.
Il tema, invero, è già stato compiutamente affrontato, in senso contrario a quanto dedotto dal ricorrente, nella sentenza n. 34231 dell'Il marzo 2015, sicché la sua riproposizione incontro il limite del giudicato esecutivo.
La Corte costituzionale, peraltro, risulta avere già positivamente scrutiNOME, con l'ordinanza n. 235 del 2013, la compatibilità con la Carta fondamentale della normativa che esclude dalla rideterminazione coloro che, come COGNOME, non sono stati ammessi al giudizio abbreviato; tanto, sulla base del rilievo che essa ha natura meramente processuale anziché sostanziale, perché, lungi dall'incidere sull'entità della riduzione di pena conseguente al giudizio abbreviato, attiene esclusivamente ai termini di proposizione della relativa richiesta.
La situazione che connota il caso in esame va dunque distinta, secondo quanto implicitamente confermato anche dalla giurisprudenza della Corte EDU (cfr. la decisione di irricevibilità resa il 27 aprile 2010 nel procedimento Morabito contro Italia), da quella che ha caratterizzato il leading case COGNOME, nel quale si discuteva di soggetto ammesso al rito abbreviato e, pertanto, della legittimità del testo illo tempore vigente di una norma, l'art. 442, comma 2, cod. proc. pen., che, al contrario di quella che viene qui in rilievo, concerne la pena che può essere inflitta in esito a tale rito.
Pertinente si palesa allora, in conclusione, il richiamo all'insegnamento della Corte costituzionale che, con la menzionata ordinanza n. 235 del 2013, ha sancito che, non avendo l'istante nel procedimento a quo mai acquisito nel proprio patrimonio giuridico il diritto a essere giudicato con rito abbreviato sulla base della disciplina recata dalla legge n. 479 del 1999, il giudice dell'esecuzione non ha alcun titolo per procedere alla ipotizzata sostituzione della pena dell'ergastolo con isolamento diurno con la pena detentiva temporanea, né, tanto meno, per porre in discussione, in sede di incidente di esecuzione, la legittimità costituzionale di una norma che, come quella sottoposta a scrutinio, attiene al processo di cognizione e, più specificamente, al giudizio di appello e che, pertanto, sarebbe stata applicabile soltanto in quel giudizio, e solo alla condizione che, nel corso di esso, l'imputato avesse effettivamente richiesto il giudizio abbreviato con l'osservanza del termine stabilito dalla norma censurata, il che non è però avvenuto.
Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, quindi, dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale, rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima conSegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativannente fissata in 3.000,00 euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, 1'11 giugno 2024.