Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 7182 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1   Num. 7182  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 09/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME NOME a PALERMO il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 24/01/2023 della CORTE APPELLO di PALERMO
Da udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG, il quale ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità o,
subordine, il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 24 gennaio 2023 la Corte di appello di Palermo, quale giudice dell’esecuzione, ha ridetermiNOME in sei anni di reclusione e 44.000 euro di multa, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, la pena applicata ad NOME COGNOME, con sentenza resa il 29 marzo 2019, per reati sanzionati dall’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
NOME COGNOME propone, con il ministero dellAVV_NOTAIO, ricorso per cassazione affidato a due motivi – che, in conformità alla previsione dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., saranno enunciati nei limiti strettamente necessari per la decisione – con il primo dei quali lamenta violazione di legge e vizio di motivazione per avere il giudice dell’esecuzione, nella rideterminazione della sanzione detentiva, fissato, per i reati ascrittigli al capo a), la pena di otto anni e sei mesi di reclusione e 50.000 euro di multa, identica, nella parte detentiva, ed addirittura superiore, in quella pecuniaria, alla sanzione a tale titolo irrogata in esito al primo grado del giudizio di cognizione, in tal modo eludendo gli effetti della pronunzia della Corte costituzionale e violando il principio di proporzionalità e le previsioni degli artt. 1.32, 133 e 133-bis cod. pen..
Con il secondo motivo, eccepisce, ancora, violazione di legge e vizio di motivazione per avere fissato la pena inflitta, a titolo di continuazione esterna, per i reati contestati ai capi b) e d), in misura identica a quella stabilita in sede di cognizione, senza, cioè, provvedere alla rideterminazione in melius imposta dall’analoga operazione compiuta in relazione al reato più grave.
Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità o, in subordine, il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
 Il primo motivo di ricorso è infondato.
Le pene previste dalla fattispecie incriminatrice ex art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sono state oggetto di ripetuti mterventi del legislatore e della Corte costituzionale.
In particolare, la distinzione delle condotte illecite a seconda che il loro oggetto afferisca a sostanze stupefacenti così dette «leggere» (elencate nelle tabelle II e IV) ovvero «pesanti» (di cui alle tabelle I e III) – cui corrispondeva, in origine, un trattamento sanzioNOMErio assai diverso – è stata superata con la
legge 21 febbraio 2006, n. 49, che hai  stabilito, per tutte le tipologie di stupefacente, la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa da 26.000 a 260.000 euro.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 32 del 2014, ha tuttavia dichiarato la illegittimità costituzionale delle norme introdotte dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, con conseguente reviviscenza del precedente testo del l’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e delle relative tabelle.
Per i reati aventi ad oggetto le cc.dd. «droghe pesanti» è, quindi, tornata in vigore la sanzione della reclusione da otto a venti anni e della multa da 25.822 a 258.228 euro.
Il giudice delle leggi è, poi, nuovamente intervenuto sulla disciplina in esame con la sentenza n. 40 del 2019, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 – nel testo originario, applicabile per effetto della già citata sentenza n. 32 del 2014 – nella parte in cui fissava in otto, anziché sei, anni di reclusione il minimo edittale della pena detentiva.
Il provvedimento impugNOME è stato emesso in costanza di esecuzione della sanzione detentiva irrogata ad NOME COGNOME nell’ambito di un procedimento penale che si è concluso con sentenza divenuta irrevocabile.
La giurisprudenza di legittimità ritiene che, nel caso in cui la dichiarazione di incostituzionalità di una norma penale diversa da quella incriminatrice, che si riverberi sulla commisurazione del trattamento sanzioNOMErio, sopraggiunga prima che la pena sia stata interamente espiata, il giudice dell’esecuzione è tenuto, ove venga promosso apposito incidente, alla rideterminazione conseguente all’intervento della Corte costituzionale, cioè all’applicazione, in forza del principio consacrato dall’art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, della più favorevole normativa risultante dalla dichiarazione di incostituzionalità (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697).
Preso atto, dunque, della citata sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 23 gennaio 2019 – che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del minimo edittale di otto anni di reclusione per le fattispecie previste dall’art. 73 d.P.R. ottobre 1990, n. 309, riguardanti le droghe così dette pesanti, ha contestualmente indicato come conforme ai principi costituzionali un minimo edittale di anni sei di reclusione – occorre procedere alla rideterminazione della pena inflitta, e non ancora interamente espiata, con sentenze,, divenute irrevocabili, che avevano applicato la norma dichiarata incostituzionale.
Operazione, quella del cui compimento si discute, per la quale è possibile avvalersi degli approdi raggiunti dalla giurisprudenza di legittimità che si è occupata della rideterminazione della pena’ in fase esecutiva, per effetto clla
declaratoria di illegittimità costituzionale pronunziata con la sentenza n. 32 del 2014, che ha riguardato il trattamento sanzioNOMErio dei reati concernenti le così dette «droghe leggere», fattispecie pure interessate da una modifica in melius -da sei a due anni di reclusione – del minimo edittale.
In quel contesto, è stata, in specie, affermata (Sez. U, n. 33040 del 26/2/2015, 3azouli, Rv. 264205) l’illegalità della pena commisurata sulla base della cornice edittale in vigore al momento del fatto, ma dichiarata successivamente incostituzionale, anche nel caso in cui la pera concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità.
Ciò, in quanto la commisurazione della pena è finalizzata ad individuare, nell’ambito che il legislatore ha rimesso alla discrezionalità del giudice, la pena giusta in relazione ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen., condizione necessaria per assicurare il rispetto del principio della personalità della responsabilità penale.
La necessità della rideterminazione deriva dall’obiettiva esigenza di eliminare una pena commisurata secondo un quadro edittale non conforme al principio di legalità, per effetto della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale.
Tale affermazione – di particolare significatività per le fattispecie interessate dalla pronuncia n. 32 del 2014, che ha dichiarato la incostituzionalità di una intera previsione normativa e con effetti assai significativi, risultando il «nuovo» minimo pari a un terzo di quello incostituzionale e il «nuovo» massimo edittale pari al minimo incostituzionale – assume rilievo anche in conseguenza della sentenza n. 40 del 2019, che ha, invece, mantenuto inalterato il massimo edittale di venti anni di reclusione e circoscritto l’intervento innovativo al minimo, ridotto da otto a sei anni di reclusione per assicurarne la compatibilità costituzionale.
3.1. Per quanto concerne l’individuazione delle concrete modalità di intervento in fase esecutiva, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che l’esercizio del potere di riqualificazione sanzioNOMEria non autorizza ad operare in base a criteri matematico-proporzionali (Sez. 5, n. 42229 del 16/09/2021, COGNOME, Rv. 282093 – 01; Sez. 6, n. 3481 del 22/10/2019, COGNOME, Rv. 278132 – 01; Sez. 2, n. 29431 del 08/05/2018, COGNOME, Rv. 273809 – 01), né ad utilizzare automatismi che replichino le scelte sottese all’accordo originario.
Il giudice deve, al contrario, procedere alla rideterminazione della pena utilizzando i criteri previsti dagli artt. 132 e 133 cod. pen., secondo i canoni dell’adeguatezza e della proporzionalità che tengano conto sia della nuova cornice edittale (Sez U., n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264858), che delle valutazioni già effettuate in sentenza dal giudice della cognizione con riferimento
alla sussistenza del fatto ed al significato ad esso attribuibile (Sez. 1, n. 52981 del 18/11/2014, COGNOME, Rv. 261688).
4. Nel caso di specie, il giudice dell’esecuzione, chiamato a confrontarsi con il novum introdotto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, ha ridetermiNOME la pena senza compiere un’operazione di riduzione ispirata a criteri aritmetico-proporzionali e considerando, piuttosto, la concreta offensività della condotta e la personalità dell’imputato.
Così facendo, si è attenuto ai principi enucleati dal massimo consesso nomofilattico nelle decisioni adottate in relazione agli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 ed estensibili alle fattispecie, quale quella in esame, conseguenti alla più recente pronuncia del giudice delle leggi.
Con specifico riferimento ai poteri del giudice dell’esecuzione, le Sezioni Unite hanno, in particolare, stabilito che «quando, successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzioNOMErio, e quest’ultimo non è stato interamente eseguito, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condanNOME pur se il provvedimento ‘correttivo’ da adottare non è a contenuto predetermiNOME, potendo egli avvalersi di penetranti poteri di accertamento e di valutazione […}» (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697).
4.1. La giurisprudenza di legittimità ha affermato l’ulteriore principio per cui il giudice dell’esecuzione, nel procedere alla rimodulazione della pena irrogata in sede di cognizione al fine di adeguarla ai limiti edittali derivanti dall’intervent della Corte costituzionale, non è vincolato a seguire un criterio rigido di calcolo di tipo puramente aritmetico e proporzionale e deve, invece, operare una nuova commisurazione della pena alla stregua dei criteri fissati negli artt. 132 e 133 cod. pen., valendosi dei penetranti poteri di accertamento e valutazione attribuiti dall’art. 666, commi 4 e 5, del codice di rito, e del cui esercizio deve dare adeguato conto nella motivazione del provvedimento.
La commisurazione originariamente effettuata in sede cognitiva ha costituito, infatti, il frutto dell’esercizio di una discrezionalità esplicatasi nell’ambito di range edittale, tra il minimo e il massimo,, diverso da quello ripristiNOME dalla Consulta, così da rendere necessaria una rivalutazione piena di tale aspetto, tenendo conto del fatto così come accertato dal giudice della cognizione, ma senza adeguarsi necessariamente ai termini matematici espressi da tale giudice in rapporto alla scelta tra minimo e massimo della pena edittale (Sez. 2, n. 29431 del 08/05/2018, COGNOME, Rv. 273809; Sez. 3, n. 36357 del 19/05/2015, COGNOME,
Rv. 264880) né, in caso di fissazione della pena nel minimo edittale della normativa dichiarata incostituzionale, attenersi al minimo di quella applicabile per effetto della sentenza della Corte costituzionale (Cass. Sez. 3, n. 13223 del 03/12/2015, Boy, Rv. 266767; Sez. 4, n. 46973 del 06/10/2015, COGNOME, Rv. 265209).
Restano fermi, ovviamente, sia il dovere, per il giudice dell’esecuzione che proceda alla rideterminazione della pena inflitta per il reato di cui all’art. 73 comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, di «motivare in modo specifico e con rafforzato grado di persuasività in ordine ai criteri fattuali seguiti, quanto più si discos nell’esercizio del proprio potere discrezionale, dal nuovo minimo edittale» (Sez. 5, n. 22809 del 30/03/2021, Tuci, Rv. 281317 – 01), sia quello di ridurre la pena in termini assoluti e di non sovvertire il giudizio di disvalore espresso dal precedente giudice (Sez. 6, n. 51130 del 15/11/2019, COGNOME, Rv. 278184 – 01).
4.2. Erra, pertanto, il ricorrente nell’invocare – peraltro introducendo valutazioni che attengono esclusivamente al merito della decisione impugnata e genericamente tacciando di manifesta eccessività la pena risultante dall’operata rideterminazione – una più ampia riduzione della sanzione.
Il giudice dell’esecuzione ha, invero, ridetermiNOME la pena in relazione alle specifiche caratteristiche del caso concreto e, in particolare, «alla qualità ed al significativo quantitativo della droga, alla reiterazione della condotta, nonché alla personalità dell’COGNOME, il quale risulta gravato anche da precedenti penali specifici».
Tanto, peraltro, in perfetta continuità con quanto, illo tempore, stabilito dal giudice della cognizione e, segnatamente, dalla Corte di appello che, nel recepire l’accordo raggiunto tra le parti ai sensi dell’art. 599-bis cod. proc. pen., ha espressamente avallato la determinazione della pena in misura superiore al minimo edittale «avuto riguardo alla gravità delle imputazioni ed alla quantità di stupefacente in sequestro».
4.3. Non meno infondata è l’ulteriore doglianza articolata dal ricorrente che, nel segnalare che la pena fissata dal giudice dell’esecuzione per i reati di cui al capo a) è uguale, nella parte detentiva, a quella già irrogata dal Giudice per le indagini preliminari (e, va, per completezza, aggiunto, superiore, per la porzione pecuniaria), trascura che, in secondo grado, la sanzione per i predetti reati è stata quantificata in dieci anni di reclusione e 50.000 euro di multa e, quindi, che il giudice dell’esecuzione ha ridotto, in considerazione dell’intervento della Corte costituzionale, la pena nella misura, tutt’altro che simbolica, di un anno e sei mesi di reclusione.
Né, al riguardo, vale obiettare, come fa il ricorrente, che la Corte di appello, all’atto di incrementare, pur in assenza di impugnazione da parte del pubblico ministero, la pena rispetto a quanto stabilito dal Giudice per le indagini preliminari, avrebbe violato il divieto di reformatio in peius, atteso, da un canto, che sulla predetta statuizione si è ormai formato il giudicato e, dall’altro, che la consacrazione di un accordo ex art. 599-bis cod. proc. pen. che contempli l’applicazione di pena illegittimamente determinata, ma non illegale, non sarebbe stata, comunque, sindacabile in sede di legittimità (in questo senso,. cfr., tra le altre, Sez. 1, n. 944 del 23/10/2019, dep. 2020, M., Rv. 278:170 – 01; Sez. 2, n. 22002 del 10/04/2019, COGNOME, Rv. 276102 – 01).
5. Il secondo motivo di ricorso è, invece, fondato.
Il giudice dell’esecuzione, muovendo dal postulato che i reati cc.dd. satellite, contestati ad COGNOME ai capi b) e d) della rubrica, attengono a fattispecie sulla quale la sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019 non riverbera i propri effetti, ha ritenuto di confermare il quanturn di pena applicato, con riferimento ai medesimi delitti, dalla Corte di appello, unitariamente determiNOME in sei mesi di reclusione e 16.000 euro di multa.
L’ordinanza impugnata si pone, per questa parte, in contrasto con il consolidato ermeneutico, che il Collegio condivide e fa proprio, secondo cui «In tema di effetti della declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nella parte in cui prevedeva la pena minima edittale della reclusione nella misura di anni otto anziché di anni sei, intervenuta con sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, in caso di condanna irrevocabile per più reati unificati sotto il vincolo della continuazione, il più grave dei quali sia quell previsto dal citato art. 73, comma 1, il giudice dell’esecuzione che proceda alla rideterminazione della pena inflitta in relazione a detto reato è tenuto a rideterminare anche gli aumenti di pena inflitti per i reati-satellite, sebbene non incisi dalla decisione di incostituzionalità, in quanto, ai sensi dell’art. 81, comma 2, cod. pen. la porzione di pena relativa a detti reati è commisurata alla violazione più grave, non rilevando più i limiti di pena di cui alle rispettive norme incriminatrici, bensì quelli stabiliti in via generale per il reato continuato, del tri della pena-base o, se più favorevole, della pena che sarebbe applicabile in ipotesi di cumulo” (Sez. 1, n. 23588 del 09/07/2020, COGNOME, Rv. 279522 – 01; nello stesso senso cfr. anche Sez. 3, n. 26820 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 279899 01).
5.1. Dal precedente rilievo discende l’annullamento dell’ordinanza impugnata, limitatamente alla determinazione degli aumenti per la continuazione c.d. «esterna» – e non anche di quelli per la continuazione interna al capo a), estranei
all’ambito devoluto con il secondo motivo di ricorso – con rinvio alla Corte di appello di Palermo per nuovo giudizio sul punto, volto alla rideterminazione in melius del trattamento sanzioNOMErio a tale titolo applicato, operazione nel compimento della quale dovrà tenersi conto, ulteriormente, della necessità di calcolare e motivare l’aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati diversi da quello più grave, in ossequio alla lezione del massimo consesso nomofilattico (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269 – 01).
P.Q.IM.
Annulla l’ordinanza impugnata limitatamente agli aumenti per continuazione con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Palermo. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso il 09/11/2023.