Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 33847 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 6 Num. 33847 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 17/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen. proposto da COGNOME NOME, nato a Caserta il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 09/01/2025 della Corte di cassazione visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di cassazione, Sezione Seconda, dichiarava inammissibile il ricorso per cassazione proposto nell’interesse di NOME COGNOME avverso la sentenza della Corte di appello di Roma del 12 aprile 2024, che aveva parzialmente riformato, quanto alla pena che aveva ridotto, la sentenza che lo aveva condannato per il reato di estorsione aggravata dal metodo mafioso (aveva in concorso con altri, tra i quali il capo del clan camorristico NOME COGNOME, costretto NOME COGNOME e i suoi figli a versare al COGNOME titoli e danaro per consentirgli di condurre in locazione una serie di ristoranti, all’epoca sottoposti a sequestro di prevenzione).
Avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen. i difensori del COGNOME, AVV_NOTAIO e NOME
COGNOME, denunciando i seguenti errori di fatto, sintetizzati conformemente al disposto dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Errore di fatto in ordine al motivo di ricorso volto a far valere la violazione degli artt. 63 e 64 cod. proc. pen. e il vizio di motivazione sul punto, in relazione alle dichiarazioni rese dalle persone qualificate come vittime dell’estorsione.
La difesa aveva infatti sostenuto che costoro erano in realtà complici nel reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al loro socio COGNOME al capo 1) della rubrica, e che quindi le loro dichiarazioni erano da ritenersi inutilizzabili per la violazione degli artt. 63 e 64 cod. proc. pen.
La Suprema Corte ha ritenuto il motivo inammissibile in quanto dedotto per la prima volta in sede di legittimità. Tuttavia, non ha considerato che tale deduzione si basava sulla circostanza che già la Corte di appello aveva ritenuto esplicitamente le presunte vittime coinvolte nei fatti ascritti al COGNOME e che quindi non era stato rimesso (come invece ritenuto) per la prima volta alla Corte di cassazione l’accertamento di un eventuale coinvolgimento di costoro nelle vicende in esame.
Va osservato che il vizio dedotto in sede di ricorso avrebbe travolto l’apparato motivazionale a sostegno della responsabilità del COGNOME, per la decisività della loro utilizzazione.
2.2. Errore di fatto in ordine al motivo di ricorso avente ad oggetto il vizio di motivazione sulla sussistenza del fatto estorsivo e sulla sua diversa qualificazione nel reato di cui all’art. 593 cod. pen.
La sentenza impugnata ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso in cui era stato contestato il ragionamento probatorio posto a fondamento della condanna del ricorrente, sul rilievo che la difesa aveva chiesto una diversa valutazione delle intercettazioni. L’errore di fatto sta nella circostanza che la difesa si era invece doluta della “omessa” considerazione di intercettazioni che la Corte territoriale aveva definito inesistenti.
Il vizio che aveva sollevato la difesa in sede di ricorso per cassazione (travisamento della prova per omissione) aveva rilevanza decisiva, in quanto in grado di disarticolare il ragionamento probatorio posto alla base della condanna.
2.3. Errore di fatto in relazione al motivo di ricorso relativo all’aggravante speciale mafiosa.
Nel caso di specie l’aggravante mafiosa è stata ritenuta solo come forma di minaccia silente, contrariamente alla giurisprudenza di legittimità.
Andava inoltre considerato che la minaccia proveniva da un soggetto estraneo alla consorteria mafiosa.
L’errore di fatto è consistito nelle due forme: ovvero nell’omesso esame del motivo di ricorso che lamentava tale valutazione e nella erronea lettura degli atti del giudizio di legittimità.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile in quanto deduce questioni, all’evidenza, estranee all’ambito dell’errore – di fatto.
In ordine al primo motivo, va osservato che la Suprema Corte, nella impugnata sentenza (pag. 29), ha ritenuto la questione sollevata dalla difesa circa l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese da COGNOME NOME (in quanto doveva essere sentito, sin dall’inizio del procedimento, nella qualità di persona sottoposta a indagine ovvero, in sede dibattimentale, di imputato in un reato collegato o connesso, con le garanzie di cui agli artt. 63, 64 e 210 cod. proc. pen.) inammissibile, perché dedotta per la prima volta con il ricorso per cassazione, posto che la sua disamina presupponeva accertamenti in punto di fatto inaccessibili al giudice della legittimità.
Secondo i giudici di legittimità, non risultava, invero, dedotta davanti alla corte di appello la questione relativa alla riconducibilità di COGNOME alla figura dell’indagato/imputato di un reato connesso o collegato, ovvero a quella di coindagato/coimputato, così che l’accertamento di un eventuale coinvolgimento del COGNOME nelle vicende in esame non poteva essere rimesso per la prima volta davanti alla Corte di cassazione, sulla base delle argomentazioni sviluppate nei ricorsi, dove erano state messe a disposizione le emergenze istruttorie (intercettazioni e testimonianze) dalla cui valutazione sarebbe stato possibile evincere la complicità di NOME nei delitti in contestazione.
Ebbene, anche a voler tacere della rilevanza del presunto errore percettivo (la difesa assume, assertivamente, che le dichiarazioni dei Domini siano tali da stravolgere, con la loro inutilizzabilità, il ragionamento probatorio, tra l’altro assegnando egual rilevanza anche alle intercettazioni, oggetto del secondo motivo), il motivo in questa sede proposto non considera il pacifico principio di diritto, secondo cui non compete alla Corte di cassazione, in mancanza di specifiche deduzioni, verificare se esistano cause di inutilizzabilità o di invalidità di atti del procedimento che non appaiano manifeste, in quanto implichino la ricerca di evidenze processuali o di dati fattuali che è onere della parte interessata rappresentare adeguatamente (Sez. U, n. 39061 del 16/07/2009, Rv. 244328 01).
In definitiva è la stessa difesa a far rilevare la genericità del motivo di ricorso per cassazione là dove pretendeva dal giudice di legittimità la ricerca d’ufficio dei presupposti di fatto per la declaratoria di inutilizzabilità non prospettati nella impugnazione.
3. Anche il secondo motivo è inammissibile.
Oltre alla rilevanza dell’errore percettivo, per quanto sopra illustrato, va rammentato il principio di diritto consolidato, secondo cui il vizio di travisamento della prova è deducibile in cassazione solo quando abbia un “oggetto definito e inopinabile”, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della prova e quello tratto dal giudice, con conseguente esclusione della rilevanza di presunti errori da questi commessi nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima (tra le tante, Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017, dep. 2018, Grancini, Rv. 272406 – 01).
Nella specie, come correttamente evidenziato dalla sentenza impugnata, la Corte di appello ha ritenuto di non ravvisare il fondamento della tesi difensiva in alcuna delle conversazioni intercettate, mentre il ricorrente pretendeva dalla Corte di legittimità una diversa lettura delle medesime captazioni e non far valere un vizio definito e non opinabile (ovvero di palese e di incontrovertibile rilevabilità).
4. Stessa sorte riguarda l’ultimo motivo.
Anche in questo caso alcun errore di fatto è stato prospettato.
La Corte di legittimità ha preso in debita considerazione le doglianze difensive sull’aggravante mafiosa, richiamando quanto già osservato sul punto per NOME COGNOME (pagg. 25 e 26, anche in ordine alla “minaccia silente”) ed evidenziando in primo luogo le coordinate giuridiche per la configurabilità della suddetta fattispecie (” le modalità esecutive della condotta siano idonee, in concreto, a evocare, nei confronti dei consociati, la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso. Tale capacità evocativa non può essere aprioristicamente esclusa in ragione della non appartenenza dell’agente o degli agenti a un sodalizio criminoso, dovendosi verificare in concreto se le modalità dell’azione, in ragione del loro peculiare atteggiarsi, abbiano avuto la capacità di evocare quella matrice mafiosa che produce il maggior disvalore del fatto”) e osservando poi come la Corte di appello si fosse attenuta a tali principi (” ha ancorato questa maggiore capacità intimidatrice alla figura di COGNOME, che si descrive come un soggetto che, pur estraneo all’originario sodalizio criminoso, non ne aveva dismesso le modalità operative, strumentalizzando la propria storia criminale e il proprio potere economico al fine di aggiogare gli operatori del tessuto economico in cui si stava stabilizzando. Il tutto con il consapevole contributo di COGNOME, COGNOME e COGNOME
NOME, così come emerso dagli elementi istruttori a tal fine valorizzati e non contestati”).
La difesa, invocando surrettiziamente l’errore di fatto, mira ad una diversa valutazione giuridica della vicenda.
Da quanto precede discende che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con procedura cosiddetta de plano, a norma dell’art. 625-bis cod. proc. pen.
Dalla dichiarazione di inammissibilità del ricorso, consegue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Pie lui i COGNOME