Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 46690 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 46690 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/09/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME nato a SAN GENNARO VESUVIANO il 08/10/1960
NOME nato a TERZIGNO il 08/11/1966
avverso la sentenza del 24/11/2023 della CORTE di APPELLO di NAPOLI;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa il 3 giugno 2022 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, per quanto qui di interesse, dichiarava COGNOME NOME e NOME colpevoli del reato di estorsione continuata aggravata loro in concorso ascritto e, concesse al solo COGNOME le circostanze attenuanti generiche, con giudizio di equivalenza sulle contestate aggravanti, e applicata la diminuente per il rito, condannava il COGNOME COGNOME alle pena di anni sei e mesi otto di reclusione ed euro 5.300,00 di multa e l’COGNOME alla pena di anni quattro, mesi cinque e giorni dieci di reclusione ed euro 900,00 di multa.
Con sentenza del 24 novembre 2023 la Corte d’Appello di Napoli, in parziale riforma della detta sentenza di primo grado, escludeva per entrambi gli imputati la circostanza aggravante di cui all’art. 628vcomma.2/n. 3) cod. pen. e per l’effetto rideterminava la pena per il COGNOME in anni sei, mesi cinque e giorni dieci di reclusione ed euro 4.533,00 di multa e per l’COGNOME in anni quattro di reclusione ed euro 800,00 di multa.
Avverso tale ultima sentenza proponevano ricorso per cassazione, con distinti atti, entrambi gli imputati, per il tramite dei rispettivi difens chiedendone l’annullamento.
La Marca NOME deduceva sei motivi di doglianza.
4.1. COGNOME Con il primo motivo deduceva mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine alla valutazione della credibilità della parte offesa COGNOME doglianza già fatta oggetto di specifico motivo di appello. Assumeva, in particolare, che al momento della denuncia – datata 23 luglio 2019 – l’COGNOME, di professione imprenditore, era debitore nei confronti di svariati soggetti di circa un milione e mezzo di euro, così che si doveva ragionevolmente ritenere che lo stesso avesse interesse ad ammantare di illiceità penale tutte le vicende debitorie che lo riguardavano al fine di evitare di adempiere, e che inoltre con la detta denuncia l’COGNOME aveva confessato di essersi appropriato indebitamente di capi di abbigliamento per un valore complessivo di euro 300.000,00, affermando di essersi trovato in stato di necessità in ragione di minacce ricevute da terzi, e aveva anche affermato che era solito utilizzare un’utenza cellulare intestata ad altra persona e altresì di avere evaso il fisco, comportamenti che, ad avviso della difesa, evidenziavano come l’COGNOME fosse soggetto aduso a mentire e a delinquere, e dunque tutt’altro che credibile.
4.2. Con il secondo motivo deduceva mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine alla valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in merito ai fatti per cui è processo.
Osservava, in particolare, che la Corte territoriale aveva ritenuto che le discrasie che caratterizzavano le molteplici dichiarazioni dell’Izzo fossero solo delle imprecisioni descrittive riguardanti aspetti secondari della vicenda, argomentazione che era in aperto contrasto con il contenuto delle dette dichiarazioni, le quali in realtà davano conto di plurime e diverse versioni della medesima vicenda fornite al processo, e precisamente:
con la denuncia del 23 luglio 2019 l’Izzo aveva affermato di aver contratto un debito di euro 40.000,00 circa, per ragioni commerciali, con
la società RAGIONE_SOCIALE riconducibile a COGNOME NOME (detto NOME COGNOME) e di aver conosciuto nell’ottobre 2018 COGNOME NOME, che gli aveva rappresentato di essere il nuovo titolare del credito, così che l’Izzo aveva consegnato al detto COGNOME due assegni di pari importo (euro 4.500,00), tratti sul conto corrente di un suo amico, tale COGNOME NOME, nonché di aver successivamente consegnato al COGNOME e all’COGNOME altri venti assegni tratti sul conto corrente della società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE;
con le dichiarazioni rese il 16 settembre 2019 l’COGNOME aveva riferito circostanze del tutto diverse, e precisamente che il debito nei confronti del COGNOME era in realtà di euro 200.000,00 e non era sorto per ragioni commerciali, bensì in virtù di un prestito concessogli dal Sarnino, parzialmente restituito per la sola somma di euro 50.000,00 circa, che in ragione del parziale inadempimento era stato contattato da tale COGNOME NOME, che aveva successivamente incontrato e che nel corso di tale incontro gli aveva rappresentato che il COGNOME aveva incaricato La Marca NOME di recuperare il credito, e ancora che successivamente, nel dicembre 2018, il La Marca gli era stato presentato dallo stesso COGNOME (che gli aveva rappresentato che il La Marca era il “boss della zona”) come “NOME NOME“; aveva anche precisato, l’COGNOME, di aver incontrato il La Marca e l’COGNOME, odierni ricorrenti, in tre ulteriori occasioni, delle quali non aveva riferito in precedenza, e di aver consegnato al La Marca due assegni dell’importo di euro 4.000,00 ciascuno e uno dell’importo di euro 4.500,00;
con le dichiarazioni rese il 20 settembre 2019 l’COGNOME aveva rassegnato la terza e diversa versione della vicenda, affermando che era stato l’amico COGNOME NOME, presumibilmente su indicazione del debitore COGNOME, a esercitare pressioni nei suoi confronti finalizzate alla restituzione del denaro.
Concludeva sul punto la difesa affermando che la mancanza di costanza nelle dichiarazioni rese dalla parte offesa, con particolare riguardo alla causale del credito, al suo importo, al modo in cui aveva conosciuto il La Marca e alle modalità con le quali aveva versato gli assegni, costituiva sicuro indice di inattendibilità delle medesime dichiarazioni, le quali, per altro verso, risultavano anche smentite da quanto dichiarato in data 8 ottobre da COGNOME Vincenzo, che aveva affermato che il La Marca era totalmente estraneo ai fatti e aveva
precisato che l’Izzo aveva “truffato” il COGNOME in quanto il denaro erogato da quest’ultimo riguardava degli anticipi per lavori in favore della società RAGIONE_SOCIALE, lavori che l’Izzo non aveva mai eseguito.
4.3. GLYPH Con il terzo motivo la difesa deduceva violazione degli artt. 110 e 393 cod. pen., evidenziando che COGNOME NOME era stato condannato con sentenza irrevocabile per il medesimo fatto qualificato ex art. 393 cod. pen. con l’aggravante del metodo mafioso, laddove la condotta posta in essere dal COGNOME era stata qualificata come estorsione pluriaggravata, e inoltre deduceva contraddittorietà della motivazione in relazione alle dichiarazioni rese dalla parte offesa COGNOME in data 16 settembre 2019.
Osservava, in particolare, che a fronte di un unico reato i due concorrenti (il La Marca e il Sarnino) erano stati condannati per aver concorso in due delitti diversi, ciò in violazione dei principi in materia di concorso di persone nel reato.
4.4. Con il quarto motivo deduceva violazione o falsa applicazione dell’art. 81 comma 2 cod. pen. in relazione al mancato riconoscimento del vincolo della continuazione tra i fatti qui giudicati e quelli giudicati con le seguenti sentenze: sentenza della Corte d’Appello di Napoli emessa in data 24 maggio 2000, irrevocabile il 17 luglio 2000; sentenza della Corte d’Appello di Napoli emessa in data 5 gennaio 2010, irrevocabile il 18 novembre 2011; sentenza della Corte d’Appello di Napoli emessa in data 25 maggio 2011, irrevocabile in data 11 novembre 2011.
Osservava sul punto la difesa che i fatti qui giudicati erano stati commessi dopo un breve lasso di tempo dalla scarcerazione del COGNOME, che lo stesso era stato qualificato quale “boss della zona” e che tutti i fatti considerati erano stati commessi nel medesimo contesto territoriale, con le medesime modalità operative e con lo stesso metodo.
4.5. GLYPH Con il quinto motivo la difesa deduceva violazione degli artt. 133 cod. pen. e 606 lett. e) cod. proc. pen. adducendo la mancanza di motivazione in relazione al criterio seguito per individuare la pena irrogata.
4.6. GLYPH Con il sesto e ultimo motivo deduceva violazione o falsa applicazione dell’art. 416-bis.1 cod. pen., considerando che la configurabilità dell’aggravante del metodo mafioso postulava che la condotta dell’imputato fossa tale da evocare con efficienza causale l’esistenza di un sodalizio ed idon ad incutere un timore aggiuntivo di ritorsione mafiosa rispetto a quello ontologicamente insito nella minaccia.
NOME deduceva sette motivi di doglianza.
5.1. GLYPH Con il primo motivo deduceva mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione della sentenza nella parte in cui veniva esclusa la riqualificazione del fatto nel reato di cui all’art. 393 cod. pen., nonostante per il medesimo fatto storico il coimputato COGNOME NOME fosse stato condannato per il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni aggravato dalla circostanza di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., e ancora nella parte in cui la sentenza esaminava soltanto la posizione del La Marca, omettendo ogni valutazione riguardo alla consapevolezza da parte di NOME COGNOME dell’ingiustizia del profitto.
Assumeva in particolare che l’COGNOME aveva partecipato quale semplice spettatore al dialogo fra il debitore COGNOME e i creditori e comunque non era a conoscenza del fatto che il credito vantato dal COGNOME non fosse legittimo.
5.2. Con il secondo motivo deduceva mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione della sentenza nella parte in cui la condotta contestata veniva qualificata come estorsiva, considerato che i titoli postdatati consegnati dall’COGNOME erano intestati a tale COGNOME NOMECOGNOME che ne aveva denunciato lo smarrimento.
5.3. COGNOME Con il terzo motivo deduceva mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione della sentenza in ordine alla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni rese dalla parte offesa, nonché travisamento della prova; rassegnava sul punto argomentazioni analoghe a quelle dedotte con il secondo motivo di ricorso depositato per il La Marca.
5.4. COGNOME Con il quarto motivo deduceva erronea applicazione della legge penale in ordine alla ricorrenza della circostanza aggravante delle più persone riunite, prevista dall’art. 628(comma 2′ n. 1) cod. pen.
Assumeva al riguardo che nel corso dell’incontro con la parte offesa il COGNOME non aveva proferito alcuna frase minacciosa.
5.5. COGNOME Con il quinto motivo, sovrapponibile al sesto motivo del ricorso nell’interesse del La Marca, deduceva erronea applicazione della legge penale con riferimento alla ricorrenza della circostanza aggravante di cui all’art. 416bis.1 cod. pen., assumendo che il comportamento tenuto dagli imputati non era idoneo a richiamare alla mente una intimidazione proveniente da un sodalizio criminale.
5.6. COGNOME Con il sesto motivo deduceva erronea applicazione della legge penale in ordine alla ritenuta insussistenza dei presupposti di diritto per il riconoscimento della circostanza attenuante dell’aver riparato interamente il
danno, considerato che il ricorrente aveva offerto alla parte offesa un assegno di euro 10.000,00.
5.7. COGNOME Con il settimo motivo deduceva vizio di motivazione in relazione al rigetto della richiesta di ritenere le circostanze attenuanti generiche prevalenti rispetto alle contestate aggravanti, avuto riguardo al carattere occasionale della condotta tenuta dall’COGNOME e al tentativo da parte di costui di risarcire il danno.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I primi due motivi dedotti dalla difesa di COGNOME Michele, con i quali si denuncia vizio di motivazione rispettivamente in relazione alla valutazione della credibilità soggettiva della parte offesa e dell’attendibilità delle sue dichiarazioni, esaminabili congiuntamente per le reciproche interazioni, sono inammissibili sotto diversi profili.
Si deve, innanzitutto, evidenziare che i detti vizi sono denunciati in via cumulativa (v. pag. 5 del ricorso, ove la motivazione viene denunciata come “illogica, mancante e contraddittoria”; v. anche la successiva pag. 14, ove ancora una volta si fa riferimento a una valutazione “illogica, contraddittoria e mancante”).
La concomitante proposizione di una censura cumulativa in relazione a tutti e tre i profili del vizio di motivazione non è consentita e come tale è inammissibile (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, NOMECOGNOME non massimata sul punto, secondo cui il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ha l’onere – sanzionato a pena di a-specificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica).
Va, sotto altro profilo, anche evidenziato come le doglianze reiterino, più o meno pedissequamente, censure già dedotte in appello; le stesse, inoltre, in più di una parte, palesano elementi di genericità (spesso in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute nella sentenza impugnata) rivelando la loro manifesta infondatezza, in considerazione dei rilievi con i quali la Corte territoriale – con argomentazioni giuridicamente corrette, nonché esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede – ha motivato le contestate statuizioni.
D’altro canto, questa Suprema Corte, con orientamento (Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009, P.C. in proc. COGNOME, Rv. 243636) che il Collegio condivide e ribadisce, ha ritenuto che, in presenza di una c.d. “doppia conforme”, ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l’affermazione di responsabilità), il vizio di travisamento della prova possa essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato sia stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (“Invero, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), cod. proc. pen., introdotta dalla L. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del “devolutum” con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice”).
Nel caso di specie, al contrario, la Corte di appello ha riesaminato e valorizzato lo stesso compendio probatorio già sottoposto al vaglio del Tribunale e, dopo avere preso atto delle censure dell’appellante, è giunta alla medesima conclusione in termini di sussistenza della responsabilità dell’imputato che, in concreto, nella sostanziale reiterazione delle censure, finisce per riproporre – in chiave innocentista – la diversa “lettura” delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti degli elementi probatori valorizzati.
Quanto alla (inammissibile) riproposizione di una diversa lettura delle risultanze probatorie, va preliminarmente evidenziato come, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte (cfr., Sez. 6, n. 10951 del 15/03/2006, COGNOME, Rv. 233708), anche alla luce della nuova formulazione dell’art. 606, comma primo lett. e) cod. proc. pen., dettata dalla L. 20 febbraio 2006 n. 46, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la relativa motivazione sia: a) “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non “manifestamente illogica”,
ovvero sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non logicamente “incompatibile” con altri atti del processo, dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione (nell’affermare tale principio, la Corte ha precisato che il ricorrente, che intende dedurre la sussistenza di tale incompatibilità, non può limitarsi ad addurre l’esistenza di “atti del processo” non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione o non correttamente interpretati dal giudicante, ma deve invece identificare, con l’atto processuale cui intende far riferimento, l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dal provvedimento impugnato, dare la prova della verità di tali elementi o dati invocati, nonché dell’esistenza effettiva dell’atto processuale in questione, indicare le ragioni per cui quest’ultimo inficia o compromette in modo decisivo la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione).
Non è dunque sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante e con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità, né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante.
Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. È, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Il
giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti “atti del processo”.
Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale “esistenza” della motivazione e sulla permanenza della “resistenza” logica del ragionamento del giudice.
Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispettino sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.
Pertanto, il sindacato di legittimità non ha per oggetto la revisione del giudizio di merito, bensì la verifica della struttura logica del provvedimento e non può quindi estendersi all’esame ed alla valutazione degli elementi di fatto acquisiti al processo, riservati alla competenza del giudice di merito, rispetto alla quale la Suprema Corte non ha alcun potere di sostituzione al fine della ricerca di una diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa.
Né la Suprema Corte può trarre valutazioni autonome dalle prove o dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel provvedimento impugnato. Invero, solo l’argomentazione critica che si fonda sugli elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel provvedimento impugnato può essere sottoposto al controllo del giudice di legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenza alle regole della logica, oltre che del diritto, e all’esigenza della completezza espositiva (Sez. 6, n. 40609 del 01/10/2008, COGNOME, Rv. 241214).
La medesima giurisprudenza di legittimità considera, peraltro, inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e motivatamente disattesi dal giudice
di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso (v., tra le tante, Sez. 5, n. 25559 del 15/06/2012, COGNOME; Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, p.m. in proc. Candita, Rv. 244181; Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, COGNOME, Rv. 231708). In altri termini, è del tutto evidente che a fronte di una sentenza di appello che ha fornito una risposta ai motivi di gravame, la pedissequa riproduzione di essi come motivi di ricorso per cassazione non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla Corte d’appello: in questa ipotesi, pertanto, i motivi sono necessariamente privi dei requisiti di cui all’art. 581 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), che impone la esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno di ogni richiesta (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, COGNOME, Rv. 243838).
Sulla base di questi principi va esaminato l’odierno ricorso che, messo a confronto con l’atto di appello, rende evidente, quanto ai primi due motivi, la mera reiterazione delle censure già sottoposta all’attenzione della Corte territoriale.
Parimenti inammissibile, in quanto manifestamente infondato, è il terzo motivo, con il quale si lamenta il fatto che uno dei correi del reato di estorsione è stato giudicato in diverso procedimento e in quella sede il fatto è stato riqualificato ex art. 393 cod. pen.
Ed invero, secondo l’opinione del Giudice di legittimità, condivisa da questo Collegio, è ben possibile che all’interno della fattispecie concorsuale il fatto venga riqualificato solo per alcuni dei concorrenti (cfr. Sez. U, n. 27727 del 14/12/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 286581 – 01).
Del resto, la Corte territoriale ha adeguatamente motivato sul punto, osservando che “Il diverso atteggiarsi delle ragioni e delle posizioni dei tre concorrenti rende possibile una diversa qualificazione del medesimo fatto rispettivamente ascritto, atteso che i due odierni appellanti, a differenza del Sarnino, non vantavano alcuna ragione creditoria nei confronti di COGNOME con la conseguenza che la loro condotta non poteva diesi finalizzata, come quella del coimputato non appellante, a far valere una pretesa giuridicamente azionabile in giudizio, avendo, invece, concorso, con frasi dal contenuto intimidatorio, nel costringimento della vittima al pagamento della somma pretesa come propria, nonostante attenesse ad un debito contratto con altri” (v. pag. 13 della sentenza impugnata).
È inammissibile, in quanto manifestamente infondato, anche il quarto motivo, con il quale si lamenta la violazione dell’art. 81 cpv. cod. pen. in relazione al mancato riconoscimento del vincolo della continuazione fra il reato qui giudicato e quelli oggetto delle tre sentenze su menzionate.
Al riguardo deve osservarsi che trattasi di censura, ancora una volta, reiterativa rispetto a quella già dedotta con l’atto di appello, di fronte alla quale la Corte territoriale, con argomentazioni giuridicamente corrette, esaurienti, logiche e non contraddittorie – e pertanto esenti da vizi rilevabili in questa sede – ha motivato la contestata statuizione, richiamando, in particolare, il lungo lasso di tempo intercorso fra i reati che si pretende posti in essere in esecuzione del medesimo disegno criminoso, nonché fra la data di adesione del ricorrente alla consorteria criminale denominata “clan Fabbrocino” – risalente al 1996 – e l’epoca di commissione dei suddetti reati.
Anche il quinto motivo, con il quale si censura la mancanza di motivazione del provvedimento impugnato in punto di trattamento sanzionatorio, è inammissibile poiché manifestamente infondato.
Si deve premettere, al riguardo, che la censura riguardante la determinazione della pena non è consentita.
Il trattamento sanzionatorio – comprensivo del riconoscimento delle circostanze attenuanti e della loro comparazione con le eventuali aggravanti e della concessione dei benefici della sospensione condizionale e della non menzione – rientra nelle attribuzioni esclusive del giudice di merito e così anche la determinazione della pena da infliggere in concreto che, per l’art. 132 cod. pen., è applicata discrezionalmente dal giudice che deve indicare i motivi che giustificano l’uso di tale potere.
In sede di legittimità è invece consentito esclusivamente valutare se il giudice, nell’uso del suo potere discrezionale, si sia attenuto a corretti criteri logico giuridici e abbia motivato adeguatamente il suo convincimento.
È, infatti, da ritenere adempiuto l’obbligo della motivazione in ordine alla misura della pena allorché sia indicato l’elemento, tra quelli di cui all’art. 133 cod. pen., ritenuto prevalente e di dominante rilievo (Sez. U , n. 5519 del 21/04/1979, COGNOME, Rv. 142252): invero, una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, in tutte le sue componenti, appare necessaria soltanto nel caso in cui la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti risultare sufficienti a dare conto del corretto impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen.
espressioni del tipo «pena congrua», «pena equa» o «congruo aumento», come pure il richiamo alla gravità del reato oppure alla capacità a delinquere (Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, COGNOME, Rv. 245596; Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, COGNOME, Rv. 265283).
Nel caso di specie, a fondamento della statuizione contestata, la Corte di appello, rinviando anche alla motivazione resa dal giudice di primo grado, ha incensurabilmente valorizzato i precedenti penali dell’imputato, gravi e specifici, e le gravi modalità dei fatti accertati, a dimostrazione di una spiccata capacità criminale.
È, infine, inammissibile anche il sesto e ultimo motivo dedotto dalla difesa di COGNOME Michele, avente ad oggetto la circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.
Trattasi, invero, ancora una volta di una censura reiterativa rispetto a quella già dedotta con l’atto di appello, rispetto alla quale la Corte territoriale ha reso adeguata motivazione richiamando la fama criminale del La Marca, rimarcata alla vittima dal coimputato COGNOME nonché le minacce contenenti anche il riferimento a non meglio individuati “amici”, di fronte ai quali il ricorrente “non potrà fare brutta figura”, e dunque evocative dell’esistenza, sullo sfondo, di una consorteria criminale di stampo mafioso.
Si viene, a questo punto, a trattare dei motivi dedotti nell’interesse di NOME COGNOME e si osserva quanto segue.
Il primo il terzo e il quinto motivo hanno il medesimo oggetto rispetto al terzo, al secondo e al sesto motivo dedotti dalla difesa del La Marca e si fondano altresì sulle medesime considerazioni, sicché i detti motivi devono essere ritenuti inammissibili per le considerazioni già svolte, rispettivamente, in sede di trattazione del terzo, del secondo e del sesto motivo dedotti per il La Marca.
Il secondo motivo è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
Il ricorrente sostiene che sarebbe carente l’ingiusto profitto del delitto di estorsione poiché vi sarebbe la prova della negoziazione da parte del La Marca di soli tre assegni consegnatigli dalla parte offesa, per un importo complessivo pari a euro 11.000,00.
La doglianza è all’evidenza contraddittoria poiché, da un lato, indica un ingiusto profitto dimostrato pari a euro 11.000,00 e, dall’altro, nega l’esistenza di un ingiusto profitto.
Anche il quarto motivo, con il quale la difesa denuncia erronea applicazione della legge penale in ordine alla ritenuta ricorrenza della circostanza aggravante delle più persone riunite di cui all’art. 628, terzo comma, n 1), cod. pen. è inammissibile in quanto manifestamente infondato, oltre che reiterativo.
Al riguardo, la Corte territoriale ha adeguatamente motivato osservando che, a tenore delle dichiarazioni della parte offesa, “in almeno una occasione la persona offesa è stata al cospetto del Sarnino e degli altri due coimputati nel momento in cui gli è stata prospettata con minaccia il saldo del debito del primo”; a fronte di ciò, il ricorrente si limita ad offrire, in maniera apodittica, una versione diversa dei fatti.
È inammissibile in quanto manifestamente infondato, anche il sesto motivo, reiterativo di una doglianza proposta con l’atto di appello, dovendosi considerare che la Corte territoriale ha adeguatamente motivato la propria statuizione ritenendo che la cifra offerta quale risarcimento, pari a euro 10.000,00 non fosse interamente satisfattiva del danno patito dalla vittima, argomentazione con la quale il ricorrente non si è confrontato.
È, infine, inammissibile, in quanto manifestamente infondato, anche il settimo e ultimo motivo, che ha, ancora una volta, carattere meramente reiterativo della relativa doglianza dedotta con l’atto di appello, rispetto alla quale la Corte territoriale ha argomentato con motivazione che appare immune da vizi, in particolare considerando che il giudizio di equivalenza fra le concesse circostanze attenuanti generiche e le ritenute aggravanti doveva ritenersi funzionale all’applicazione di una pena adeguata rispetto alla condotta del ricorrente (cfr., in tema, Sez. 1, GLYPH n. 11704 del 09/07/1986, GLYPH Decorlati, Rv. 174107 – 01, secondo cui la valutazione degli elementi favorevoli che consentono il riconoscimento delle attenuanti generiche è del tutto svincolata dal giudizio di comparazione tra circostanze di segno opposto, che ha la funzione di adeguare la pena in concreto alla gravità del fatto ed alla personalità del reo. Ne consegue che, non è ravvisabile vizio logico e contraddittorietà tra la ritenuta sussistenza di circostanze favorevoli all’imputato, idonee a legittimare l’applicazione dell’art. 62-bis cod. pen., ed il giudizio di equivalenza anziché di prevalenza delle attenuanti generiche con le aggravanti (nella specie recidiva), trattandosi di valutazione di natura completamente diversa (nello stesso senso, Sez. 2, n. 9247 del 19/04/1983, COGNOME, Rv. 161016).
12. Alla stregua dei rilievi fin qui rassegnati entrambi i ricorsi devono, dunque, essere dichiarati inammissibili.
I ricorrenti devono, pertanto, essere condannati, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, deve, altresì, disporsi che i ricorrenti versino la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammìssìbili ì ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso il 18/09/2024