Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 2237 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 2237 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 17/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Cannpofranco il 9/11/1962
avverso l’ordinanza del 13/6/2024 del Tribunale di Caltanissetta visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di dichiarare l’inammissibilità del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Caltanissetta, con ordinanza del 13 giugno 2024, ha rigettato la richiesta di riesame e, per l’effetto, ha confermato il provvedimento con cui il Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale 1’8 maggio 2024 aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere ad NOME COGNOME per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., per otto episodi di estorsione, tentata e consumata, e per la detenzione illegale di un’arma. In particolare, NOME COGNOME
è stato sottoposto a indagini per avere partecipato, con il ruolo di reggente, all’associazione di tipo mafioso denominata “cosa nostra” operante nella provincia di Caltanissetta, nello specifico alla famiglia di Campofranco. Il reato è aggravato dall’essere l’associazione armata e dal fatto che gli associati avevano finanziato, in tutto o in parte, attività economiche con il prezzo, il prodotto, ovvero il profitto dei delitti.
Il ricorrente, inoltre, è stato sottoposto a indagini per otto ipotesi di estorsione, tentata o consumata, specificamente descritte nei capi di imputazione provvisoria, aggravate ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen., e per la detenzione illegale di arma, aggravata ex art. 416-bis.1 cod. pen.
Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l’indagato che, a mezzo del difensore, ha dedotto violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 273 cod. proc. pen.:
quanto al reato associativo di cui al capo 1) il ricorrente ha censurato la carenza di elementi sia quanto alla sussistenza degli elementi costituivi del reato sia in ordine al ruolo di reggente attribuitogli. Sul punto la conclusione, cui sono pervenuti i Giudici di merito, si fonderebbe su una lettura errata e parziale delle conversazioni intercettate nelle quali ci sarebbe solo una sorta di programmazione, una espressione della volontà di provare a ricostituire “una famiglia” che “non siamo”, senza che in effetti ci fosse alcun elemento concreto, dimostrativo della costituzione dell’associazione e del ruolo di capo del ricorrente, che neanche uno dei “tentati” estorti gli avrebbe riconosciuto. Né, d’altro canto, potrebbe assumere alcun effettivo e concreto rilievo il fatto che il ricorrente si fosse auto attribuit tale ruolo, non potendo essere significativa dell’esistenza di indizi la “mera autoproclamazione”. In assenza di una effettiva capacità intimidatoria, ci troveremmo di fonte a una ipotesi di “mafia parlata”.
Quanto alle estorsioni, tentate e consumate, di cui ai capi 2), 3), 5), 6), 7), 8) e 9) il ricorrente ha dedotto che in merito ai reati fine la conclusione sarebbe apodittica e il Tribunale avrebbe effettuato un’errata lettura delle conversazioni intercettate. In particolare:
reato di cui al capo 2): COGNOME avrebbe usato parole chiare dalle quali sarebbe emerso di non sentirsi intimidito (pagina 6 del ricorso);
reato di cui al capo 5): la persona offesa non sarebbe stata intimidita e il Tribunale non avrebbe evidenziato alcun elemento a supporto della lettura della conversazione (pagina 8 del ricorso);
reato di cui al capo 6): dalla intercettazione non sarebbe emerso alcun elemento idoneo a mettere in correlazione l’atto intimidatorio con quanto
denunciato il 15 gennaio 2023 dal geometra della RAGIONE_SOCIALE né vi sarebbero elementi atti a dimostrare che l’intimidazione fosse stata ordinata dal ricorrente;
reato di cui al capo 7): gli elementi indiziari evidenziati a carico del ricorrente sarebbero deboli;
reato di cui al capo 8): non vi sarebbero elementi idonei a ricondurre la richiesta estorsiva, formulata da NOME COGNOME e NOME COGNOME, ad NOME COGNOME e a NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME;
reato di cui al capo 9): non ci sarebbero “protagonismi” a carico del ricorrente.
Il ricorrente ha poi censurato la sussistenza delle aggravanti contestate in relazione al delitto associativo e il reato di detenzione illegale di arma.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Deve ribadirsi che, in tema di impugnazione delle misure cautelari personali, il ricorso per cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica e i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti oppure si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, COGNOME, Rv. 270628 – 01; Sez. 6, n. 11194 dell’8/3/2012, COGNOME, Rv. 252178 – 01).
Correlativamente, allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, il vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale, a questa Corte spetta solo il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che a esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni del decisum e di controllare la congruenza della motivazione rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie.
Alla luce di siffatte coordinate ermeneutiche deve rilevarsi che il provvedimento impugnato è immune da vizi sindacabili in questa sede.
3.1. Quanto alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine alla partecipazione del ricorrente al sodalizio, il Tribunale ha, innanzitutto, premesso che l’esistenza storica di cosa nostra, operante nella provincia di Caltanissetta e, in particolare, nel territorio del c.d. Vallone, e la sua suddivisione in articolazioni territoriali risultavano incontrovertibilmente da diverse decisioni giudiziarie, le
quali avevano anche accertato che NOME COGNOME da epoca imprecisata fino a marzo 2011, aveva fatto parte del sodalizio con il ruolo di reggente.
Quanto al periodo successivo il Tribunale ha rilevato che l’indagine svolta nel presente procedimento, denominato RAGIONE_SOCIALE, e, in particolare, le intercettazioni telefoniche e ambientali, protrattesi per oltre un anno, avevano consentito di fotografare l’attività di riorganizzazione della famiglia mafiosa di Campofranco, dopo un periodo di difficoltà. All’indomani della rimessione in libertà, intervenuta il 24 ottobre 2022, infatti, NOME COGNOME aveva ripreso immediatamente la diretta gestione delle attività associative in strettissima collaborazione con NOME COGNOME e attraverso l’avvio di una capillare attività estorsiva, sviluppatasi principalmente nei territori di Campofranco e Milena con l’intermediazione di soggetti partecipanti o comunque contigui all’associazione, quali NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME.
In particolare, il Collegio del riesame ha affermato che particolarmente significativa, ai fini dell’affermazione della piena attualità del ruolo ricoperto da NOME COGNOME quale intraneo all’associazione di tipo mafioso, operante sul territorio, risultava, innanzitutto, quanto affermato dallo stesso indagato durante il dialogo intercettato il 29 dicembre 2022, che assumeva «la connotazione di un vero e proprio manifesto programmatico, nel quale trovavano piena sintesi le linee guida finalizzate, innanzitutto, alla ricostituzione di una cassa comune, che potesse garantire il mantenimento degli associati (detenuti e non) e delle loro famiglie, l’approvvigionamento delle armi, il pagamento dei difensori. Il detto obiettivo, secondo i propositi espressi, avrebbe dovuto raggiungersi attraverso la perpetrazione di una capillare attività estorsiva ai danni delle realtà economiche e imprenditoriali operanti sul territorio, alle quali doveva chiedersi la “messa a posto”, ciò garantendo introiti idonei anche a restituire nuovo vigore alla figura in effetti in più occasioni scarsamente apprezzata – di NOME COGNOME.
Il Tribunale ha aggiunto che la correttezza dell’interpretazione di tale dialogo appariva poi confortata da moltissime altre conversazioni, in parte ritrascritte nell’ordinanza impugnata, da cui risultava che NOME COGNOME era l’ideatore, il mandante, il riferimento ultimo per gli accoliti in relazione alla perpetrazione di tutte le attività estorsive, «senza che potesse condurre a una diversa determinazione l’esplicito riconoscimento da parte dello stesso ricorrente e del coindagato COGNOME del momento di oggettiva difficoltà della famiglia, i cui componenti, durante il ventennio di carcerazione subito dal reggente, sembravano aver perso di coraggio». La volontà di riavviare, in perfetta continuità rispetto al passato, i meccanismi da sempre operanti, finalizzati alla garanzia del buon funzionamento delle attività associative nonostante le già menzionate difficoltà, aveva poi di fatto condotto a una ripresa dell’attività dell’associazione.
A fronte di siffatte argomentazioni il ricorrente ha sollecitato un nuovo giudizio di merito, invocando di fatto una rilettura degli elementi indiziari posti a fondamento della decisione impugnata, che è, però, preclusa in questa sede per le ragioni innanzi esposte.
3.2. Con riguardo alle aggravanti, contestate in relazione al delitto associativo, deve rilevarsi che il Tribunale ha affermato che la compagine mafiosa aveva l’effettiva disponibilità delle armi e operava anche imponendo l’affidamento dei subappalti a specifiche ditte.
Il ricorrente si è limitato a contestare del tutto genericamente tali argomentazioni ma ciò non soddisfa l’onere imposto a carico del medesimo ricorrente, atteso che contenuto essenziale dell’impugnazione è quello della critica argomentata avverso il provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 20377 dell’11/03/2009, Rv. 243838 – 01; Sez. 6, n. 22445 dell’8/05/2009, Rv. 244181 01).
3.3. Quanto alle estorsioni, il Tribunale, dopo avere affermato che tali delitti venivano commessi in un’ottica prettamente associativa, come poteva evincersi dal modus operandi degli indagati, che agivano sotto la direzione di NOME COGNOME con la collaborazione di NOME COGNOME e NOME COGNOME ha dato risposta ai rilievi difensivi con riguardo a ciascuno degli episodi estorsivi contestati, aggiungendo che doveva ritenersi sussistente anche l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. sotto il profilo del metodo mafioso, attesi gli espliciti ed impliciti atti intimidatori tipicamente mafiosi perpetrati e compiutamente indicati.
Con il presente ricorso il ricorrente ha negato la rilevanza dei dialoghi intercettati o ne ha svilito la portata ma ha trascurato di considerare che non è possibile operare una reinterpretazione del contenuto delle captazioni acquisite, sulla scorta di quanto prospettato dalla difesa del ricorrente, essendo tale operazione di ermeneutica processuale preclusa alla Corte di cassazione, conformemente al principio di diritto secondo cui, in materia di intercettazioni telefoniche, costituiscono questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato dal giudice di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, Rv. 257784- 01; Sez. 6, n. 11794 dell’11/02/2013, Melfi, Rv. 254439 – 01). Profili, questi ultimi, non sussistenti nel caso in esame, non ravvisandosi nel provvedimento impugnato alcuna incongruità valutativa.
3.4. Del pari, il ricorrente ha svilito la portata degli elementi posti a supporto della ritenuta sussistenza del delitto in tema di armi, limitandosi a contestare in termini generici che dal contenuto delle conversazioni telefoniche valorizzate non potesse trarsi con certezza la sua detenzione dell’arma e così omettendo di correlare criticamente ed in modo puntuale le ragioni argomentative della decisione impugnata con quelle poste a fondamento dell’impugnazione.
La declaratoria di inammissibilità del ricorso comporta, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché – non sussistendo ragioni di esonero (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186) – della somma di euro tremila, equitativamente determinata, in favore della Cassa delle ammende a titolo di sanzione pecuniaria.
La Cancelleria è onerata degli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. attuaz. cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma Iter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 17 ottobre 2024
Il Consigliere estensore