Ricorso Patteggiamento: Spese di Mantenimento in Carcere e Limiti all’Appello
Il ricorso patteggiamento rappresenta una delle aree più delicate della procedura penale, dove i diritti di impugnazione dell’imputato sono significativamente limitati. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 20479 del 2024, offre chiarimenti cruciali su due aspetti spesso controversi: la condanna al pagamento delle spese di mantenimento in carcere e la possibilità di contestare i criteri di calcolo della pena concordata. Analizziamo la decisione per comprendere le sue implicazioni pratiche.
I Fatti del Caso
Il caso trae origine da una sentenza di patteggiamento emessa dal G.I.P. del Tribunale di Torino. L’imputato, oltre alla pena concordata, veniva condannato al pagamento delle spese processuali, delle spese di custodia cautelare e, punto cruciale, delle spese di mantenimento in carcere.
La difesa dell’imputato proponeva ricorso per cassazione, sollevando due principali motivi di doglianza:
1. Mancanza di motivazione sulla condanna al pagamento delle spese di mantenimento in carcere, ritenuta ingiustificata.
2. Violazione di legge e vizio di motivazione riguardo ai criteri utilizzati per determinare la pena base e gli aumenti per i reati unificati in continuazione.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione chiedeva che il ricorso fosse dichiarato inammissibile.
L’Analisi della Corte e il ricorso patteggiamento
La Corte di Cassazione ha accolto la richiesta del Procuratore Generale, dichiarando il ricorso inammissibile per ragioni distinte relative ai due motivi presentati.
Il Primo Motivo: le Spese di Mantenimento in Carcere
La Corte ha definito il primo motivo manifestamente infondato. Pur riconoscendo che la condanna alle spese di mantenimento in carcere è una statuizione estranea all’accordo di patteggiamento e quindi, in linea di principio, appellabile, ha chiarito un punto di diritto fondamentale.
Secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, le spese di mantenimento in carcere non rientrano tra le “spese del procedimento” che, ai sensi dell’art. 445 c.p.p., non sono dovute quando la pena patteggiata non supera i due anni (soli o congiunti a pena pecuniaria). Si tratta di due categorie di costi distinte: le spese del procedimento sono quelle legate all’attività giudiziaria, mentre quelle di mantenimento sono un’obbligazione di rimborso verso lo Stato per il sostentamento del detenuto.
Di conseguenza, la condanna al pagamento di tali spese era legittima e non richiedeva una motivazione specifica, essendo una conseguenza automatica della detenzione. Il ricorso su questo punto era, quindi, infondato.
Il Secondo Motivo del Ricorso Patteggiamento: la Determinazione della Pena
Il secondo motivo, relativo al calcolo della pena, è stato giudicato non deducibile, ovvero inammissibile per sua stessa natura. La Corte ha richiamato l’art. 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale, che limita strettamente i motivi per cui è possibile impugnare una sentenza di patteggiamento.
Il controllo sulla congruità della pena, sulla sua determinazione e sulla valutazione delle circostanze è una valutazione di merito che si considera “coperta” dall’accordo stesso tra imputato e pubblico ministero. L’imputato, accettando il patteggiamento, rinuncia a contestare tali aspetti. L’unico caso in cui il calcolo della pena può essere contestato è quando la sanzione finale risulta illegale, ad esempio perché supera i limiti massimi previsti dalla legge o è di un genere diverso da quello prescritto. Poiché la difesa non aveva allegato alcuna illegalità della pena, il motivo non poteva essere esaminato dalla Corte.
Le Motivazioni della Decisione
Le motivazioni della Corte si fondano su una rigorosa interpretazione delle norme che regolano il patteggiamento e i suoi mezzi di impugnazione. La ratio è quella di garantire la stabilità delle sentenze frutto di un accordo, evitando che il rito speciale si trasformi in una via per ottenere sconti di pena per poi rimettere tutto in discussione in sede di impugnazione. La volontà dell’imputato, espressa nell’accordo, preclude la possibilità di contestare successivamente la valutazione discrezionale sulla quantificazione della pena. Al contempo, la Corte ribadisce la distinzione netta tra le diverse tipologie di spese a carico del condannato, confermando un principio ormai consolidato e di rilevante impatto pratico.
Conclusioni
La sentenza in esame ribadisce due principi fondamentali per chi affronta un procedimento penale con il rito del patteggiamento:
1. L’accordo sulla pena non esonera dal pagamento delle spese di mantenimento in carcere, che sono sempre dovute in caso di detenzione.
2. Il ricorso patteggiamento non può essere utilizzato per contestare la congruità o il calcolo della pena concordata, a meno che non si configuri un’ipotesi di palese illegalità della sanzione.
Questa decisione serve da monito per le difese: la scelta del patteggiamento deve essere ponderata attentamente, con la piena consapevolezza dei suoi effetti preclusivi in termini di impugnazione. Una volta raggiunto l’accordo e ratificato dal giudice, gli spazi per un riesame sono estremamente limitati.
Chi patteggia una pena deve pagare anche le spese di mantenimento in carcere?
Sì. Secondo la sentenza, le spese di mantenimento in carcere sono sempre dovute perché non rientrano nelle “spese del procedimento” da cui l’imputato è esonerato, ai sensi dell’art. 445 c.p.p., quando la pena patteggiata non supera i due anni.
È possibile contestare l’entità della pena concordata in un ricorso patteggiamento?
No, di regola non è possibile. L’art. 448, comma 2-bis, c.p.p. limita l’appello. La modalità di calcolo della pena (pena base e aumenti) non può essere oggetto di ricorso, a meno che la sanzione finale risulti illegale, ad esempio perché superiore ai limiti edittali o di specie diversa da quella prevista dalla legge.
Cosa accade se un ricorso contro una sentenza di patteggiamento viene dichiarato inammissibile?
Se il ricorso è dichiarato inammissibile, il ricorrente viene condannato a pagare le spese del procedimento di cassazione. Inoltre, se la Corte ravvisa una colpa nella proposizione del ricorso (perché basato su motivi palesemente infondati o non consentiti), può condannarlo anche al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, come accaduto nel caso di specie.
Testo del provvedimento
Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 20479 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 20479 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 08/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME nato a VENARIA REALE il DATA_NASCITA avverso la sentenza del 15/06/2023 del G.I.P. del TRIBUNALE di TORINO udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del AVV_NOTAIO.AVV_NOTAIO. AVV_NOTAIO COGNOME per l’inammissibilità del ricorso; ricorso trattato con contraddittorio scritto ai sensi dell’art.23 co.8 d.l. 137/20.
RITENUTO IN FATTO
Con l’impugnato provvedimento il Giudice per le indagini preliminari di Torino, su richie delle parti ex art. 444 c.p.p. ha applicato all’imputato la pena congiuntamente indic condannandolo inoltre al pagamento delle spese processuali, di quelle di mantenimento in custodia cautelare e di tutte quelle che non possano essere ricondotte alle spese de procedimento ex art. 445 c.p.p..
Presentando ricorso per cassazione, la difesa dell’imputato deduce mancanza di motivazione e violazione di legge poiché è radicalmente assente la giustificazione del imposizione all’imputato delle spese di mantenimento in carcere, che si contesta.
Con un secondo motivo gli stessi vizi vengono dedotti in relazione alla determinazione dell pena base e degli aumenti applicati ai reati unificati dalla continuazione.
Con memoria inviata per PEC il AVV_NOTAIO Procuratore Generale NOME COGNOME ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché basato su un motivo manifestamente infondato e su uno non deducibile.
Manifestamente infondato è, in base alla giurisprudenza dominante, il primo motivo.
È vero che il ricorso ha ad oggetto, sotto questo aspetto, una parte della sentenza ( condanna alle spese di mantenimento in carcere) estranea all’accordo, e quindi non è soggetto alla previsione limitativa dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., ma il ricor comunque manifestamente infondato, perché, con riferimento alle spese di mantenimento in carcere, deve ritenersi ormai prevalente il principio di diritto sancito dalla giurisprude legittimità secondo cui esse non rientrano nelle spese di procedimento che, secondo la previsione dell’art. 445 cod. proc. pen., non conseguono alla condanna quando la pena applicata non superi i due anni di pena detentiva, soli o congiunti a pena pecuniaria (in senso, ex plurimis Sez. 4, Sentenza n. 24390 del 12/05/2022, COGNOME, Rv. 283243; Sez. 6, n. 46403 del 08/10/2019, Qata, Rv. 277409; Sez. 3, n. 50461 del 11/11/2015, COGNOME, Rv. 267282; Sez. 3, n. 19103 del 19/04/2012, Vedda, Rv. 252648). Esso, quindi, incorre nella causa di inammissibilità prevista dall’art. 606, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen.
Il secondo motivo non è deducibile ex art.448 co. 2 bis c.p.p., vedendo su profi sanzionatori che non si son trasfusi nella illegalità della sanzione inflitta, in quanto esor dai limiti edittali ovvero diversa da quella prevista dalla legge, circostanze nemmeno allegate
All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condan del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, 8 febbraio 2024
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