Ricorso Patteggiamento: la Cassazione fissa i paletti sull’impugnazione
Il patteggiamento, o applicazione della pena su richiesta delle parti, è uno strumento fondamentale nel nostro sistema processuale penale, pensato per deflazionare il carico giudiziario. Tuttavia, una volta raggiunto l’accordo, le possibilità di rimetterlo in discussione sono molto limitate. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito i confini invalicabili del ricorso patteggiamento, specialmente quando si contesta la qualificazione giuridica del reato. L’analisi di questa decisione offre spunti cruciali per comprendere quando e come sia possibile impugnare una sentenza di questo tipo.
I Fatti di Causa
Il caso trae origine dal ricorso presentato da un imputato avverso una sentenza di patteggiamento emessa dal Giudice dell’Udienza Preliminare. L’accordo riguardava una serie di reati continuati in materia di stupefacenti. L’imputato, dopo aver acconsentito all’applicazione della pena, ha deciso di impugnare la sentenza dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando vizi di motivazione su due aspetti principali: la mancata valutazione di cause di non punibilità e, soprattutto, l’errata qualificazione giuridica dei fatti.
L’Impugnazione e i Motivi del Ricorso Patteggiamento
Il ricorrente sosteneva che i fatti a lui addebitati avrebbero dovuto essere inquadrati in una fattispecie di reato meno grave, prevista dal comma 5 dell’art. 73 del Testo Unico Stupefacenti, anziché nei più gravi commi 1 e 4 contestati. In sostanza, si contestava la valutazione giuridica compiuta dal giudice di merito, ritenendola non corretta. Questo motivo di impugnazione metteva in discussione uno degli elementi centrali dell’accordo raggiunto tra accusa e difesa. L’esito del ricorso patteggiamento dipendeva dalla possibilità di considerare tale presunto errore come un valido motivo di impugnazione ai sensi della normativa vigente.
La Decisione della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, senza neppure entrare nel merito delle doglianze. La decisione si fonda su una rigorosa interpretazione dell’art. 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale, che elenca tassativamente i motivi per cui una sentenza di patteggiamento può essere impugnata. La Corte ha chiarito che le censure sollevate dal ricorrente non rientravano in alcuna delle categorie ammesse.
Le Motivazioni
Il cuore della motivazione risiede nella distinzione tra ‘errore manifesto’ e ‘margini di opinabilità’ nella qualificazione giuridica del fatto. La Corte ha specificato che, in tema di patteggiamento, il ricorso per cassazione basato su un’errata qualificazione è ammissibile solo se l’errore è palese, evidente e indiscutibile. Questo avviene, ad esempio, quando l’accordo sulla pena si trasforma impropriamente in un ‘accordo sui reati’, snaturando l’istituto.
Nel caso in esame, invece, la questione se i fatti rientrassero nell’ipotesi lieve (comma 5) o in quella ordinaria (commi 1 e 4) dell’art. 73 T.U. Stupefacenti presentava ‘margini di opinabilità’. Non si trattava di un errore palese, ma di una valutazione discrezionale che, una volta cristallizzata nell’accordo tra le parti, non può essere rimessa in discussione tramite ricorso. La Corte ha sottolineato che ammettere il ricorso in questi casi significherebbe vanificare la natura stessa del patteggiamento, che si fonda proprio sulla rinuncia delle parti a contestare nel merito le valutazioni operate.
Le Conclusioni
Questa pronuncia consolida un principio fondamentale: la scelta del patteggiamento è una decisione processuale seria con conseguenze significative, tra cui una forte limitazione del diritto di impugnazione. Chi accetta di patteggiare rinuncia implicitamente a sollevare questioni che non rientrino nei ristretti limiti fissati dalla legge. In particolare, la qualificazione giuridica del fatto, a meno di un errore macroscopico e innegabile, non può essere utilizzata come grimaldello per scardinare l’accordo raggiunto. La decisione serve da monito per la difesa: l’accordo sulla pena deve essere ponderato attentamente in ogni suo aspetto, poiché le vie d’uscita successive sono estremamente circoscritte.
È sempre possibile impugnare una sentenza di patteggiamento?
No, non è sempre possibile. L’art. 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale elenca in modo tassativo i motivi per cui si può ricorrere in Cassazione avverso una sentenza di patteggiamento. I motivi non inclusi in tale elenco rendono il ricorso inammissibile.
Si può impugnare un patteggiamento per errata qualificazione giuridica del reato?
Sì, ma solo a una condizione molto restrittiva: l’errore nella qualificazione giuridica deve essere ‘manifesto’, ovvero palese e indiscutibile. Se la diversa qualificazione del fatto è semplicemente opinabile o soggetta a interpretazione, come nel caso di specie, il ricorso è inammissibile.
Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità del ricorso?
A norma dell’articolo 616 del codice di procedura penale, quando un ricorso è dichiarato inammissibile, il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in denaro in favore della Cassa delle ammende, che nel caso esaminato è stata fissata in 4.000 euro.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 1357 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 1357 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 23/11/2023
ORDINANZA
sul ricorso proposto da: NOME nato il 23/01/1993
avverso la sentenza del 07/02/2023 del GIUDICE COGNOME di LECCO
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udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
Motivi della decisione
Rilevato che l’imputato NOME ha proposto ricorso avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Lecco ha applicato allo stesso una pena, su accordo delle parti, per il reato di cui agli artt.81 e 110 cod. pen. e 73, commi 1 e 4, d.P.R. 9 ottobre 1990, n.309 (in Costa Masnaga, Garbagnate Monastero e Nibionno tra il 2014 e il maggio 2021);
ritenuto che il ricorso è inammissibile, per causa che può essere dichiarata senza formalità ai sensi dell’art. 610 comma 5 bis cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 1, comma 62, della legge 23 giugno 2017, n. 103, in vigore a decorrere dal 3 agosto 2017;
che, in particolare, si tratta di ricorso avverso sentenza applicativa di pena (art. 444 cod. proc. pen.), proposto per motivi (omessa motivazione circa l’assenza di cause di non punibilità ai sensi dell’art.129 cod. proc. pen. e circa la qualificazione del fatto ai sensi dell’art.73, comma 5, T.U. Stup.) non deducibili ai sensi dell’art. 448 comma 2-bis cod. proc. pen. (inserito dall’art. 1, comma 50, della legge 103/2017 citata); con particolare riguardo alla qualificazione del fatto, in tema di patteggiamento, la possibilità di ricorrere per cassazione deducendo l’erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza è infatti limitata ai casi di errore manifesto (non ricorrente nel caso di specie), ossia ai casi in cui sussista l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in un accordo sui reati, mentre deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti, come nel caso in esame, margini di ophabilità (Sez. 3, n. 34902 del 24/06/2015, COGNOME, Rv. 26415301; Sez. 15, n. 15009 del 27/11/2012, dep.2013, Bisignani, Rv. 25486501);
ritenuto che, a norma dell’articolo 616 cod. proc. pen., segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 4.000,00 in favore della Cassa delle ammende, non emergendo ragioni di esonero (cfr. C. Cost. 186/2000).
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro quattromila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 23 novembre 2023
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Il presidente