Ricorso Patteggiamento: i Limiti Imposti dalla Cassazione
Il ricorso patteggiamento rappresenta una delle questioni più delicate della procedura penale, poiché bilancia la necessità di deflazione del contenzioso con la tutela dei diritti dell’imputato. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 26679/2024) ha fornito un’importante occasione per ribadire i confini, molto stretti, entro cui è possibile impugnare una sentenza di applicazione della pena su richiesta. La decisione sottolinea come non ogni doglianza possa giustificare un riesame da parte della Suprema Corte.
I Fatti del Caso: un’Impugnazione contro la Qualificazione del Reato
Il caso trae origine dal ricorso di un imputato avverso una sentenza di patteggiamento emessa dal GIP del Tribunale di Como per un reato in materia di stupefacenti, qualificato ai sensi dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. 309/1990. L’imputato, tramite il suo difensore, lamentava un vizio di motivazione e una violazione di legge, sostenendo che i fatti avrebbero dovuto essere inquadrati nella fattispecie di minore gravità prevista dal comma 5 dello stesso articolo.
In sostanza, il ricorrente non contestava la propria responsabilità, ma chiedeva alla Corte di Cassazione di rivalutare la qualificazione giuridica del reato, optando per una norma che avrebbe comportato una pena significativamente più mite. La difesa mirava a ottenere una riqualificazione del fatto, un’operazione tipicamente riservata al merito del giudizio.
L’Analisi della Corte e i Limiti del Ricorso Patteggiamento
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, fondando la sua decisione su una lettura rigorosa dell’articolo 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale. Questa norma, introdotta con la riforma del 2017, ha limitato drasticamente i motivi per cui è possibile presentare un ricorso patteggiamento. Essi sono circoscritti a:
1. Vizi relativi all’espressione della volontà dell’imputato di patteggiare.
2. Difetto di correlazione tra la richiesta delle parti e la sentenza del giudice.
3. Erronea qualificazione giuridica del fatto.
4. Illegalità della pena applicata o della misura di sicurezza disposta.
La Corte ha evidenziato che la doglianza del ricorrente non rientrava in nessuna di queste categorie. Chiedere una diversa qualificazione giuridica, più favorevole, non equivale a denunciare una ‘erronea qualificazione giuridica’ nel senso inteso dalla norma. Quest’ultima si configura solo di fronte a un errore manifesto e incontrovertibile, non quando si tratta di una diversa valutazione di merito tra più opzioni astrattamente possibili.
Le Motivazioni della Decisione
La motivazione della Suprema Corte è chiara: l’accordo raggiunto con il patteggiamento cristallizza la qualificazione giuridica del fatto. L’imputato, accettando il rito, accetta anche l’inquadramento normativo proposto dall’accusa e vagliato dal giudice. L’appello in Cassazione non può trasformarsi in una sorta di ‘terzo grado’ di negoziazione per ottenere un trattamento sanzionatorio migliore. I motivi di ricorso sono tassativi e concepiti per correggere solo vizi strutturali dell’accordo o della sentenza, non per rimetterne in discussione il contenuto. Pertanto, le lamentele del ricorrente sono state definite ‘doglianze non consentite’ nel giudizio di legittimità avverso sentenze di patteggiamento.
Conclusioni: le Conseguenze dell’Inammissibilità
Le conclusioni pratiche di questa ordinanza sono nette e severe. La declaratoria di inammissibilità ha comportato non solo la conferma della sentenza impugnata, ma anche la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Inoltre, richiamando una sentenza della Corte Costituzionale (n. 186/2000), la Cassazione ha ritenuto che il ricorrente avesse proposto il ricorso ‘senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità’. Di conseguenza, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., è stato condannato anche al versamento di una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende. Questa decisione rafforza il principio di definitività delle sentenze di patteggiamento e funge da deterrente contro impugnazioni dilatorie o fondate su motivi non ammessi dalla legge, consolidando l’efficienza del rito speciale.
È sempre possibile impugnare una sentenza di patteggiamento?
No. Secondo l’art. 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale, il ricorso contro una sentenza di patteggiamento è consentito solo per motivi specifici: problemi nell’espressione della volontà dell’imputato, mancanza di correlazione tra richiesta e sentenza, erronea qualificazione giuridica del fatto, o illegalità della pena o della misura di sicurezza.
Chiedere una qualificazione del reato più favorevole è un motivo valido per il ricorso patteggiamento?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che lamentare una mancata qualificazione del fatto in una fattispecie meno grave non rientra tra i motivi ammessi. L’impugnazione è possibile solo per una ‘erronea qualificazione giuridica’, che è un vizio palese, non per una diversa valutazione di merito già concordata tra le parti.
Cosa succede se il ricorso contro un patteggiamento viene dichiarato inammissibile?
Quando il ricorso è dichiarato inammissibile, il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di denaro (in questo caso, tremila euro) in favore della Cassa delle ammende, come previsto dall’art. 616 del codice di procedura penale.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 26679 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 26679 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 01/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 02/11/2023 del GIP TRIBUNALE di COMO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
COGNOME NOME ricorre per cassazione avverso sentenza emessa, per i reati di cui a 73, comma 1, d.P.R.309/1990, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. (da trattarsi ai se 610, comma 5-bis cod. proc. pen.), lamentando vizio della motivazione e violazione di legg ordine alla mancata qualificazione del fatto ai sensi del comma 5 dell’art. 73 d.P.R.309
Il ricorso è inammissibile.
Deve invero rammentarsi che, secondo quanto previsto dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. – disposizione introdotta con la legge 23 giugno 2017, n. 103 -, il pubblico e l’imputato possono ricorrere per cassazione contro la sentenza di applicazione della richiesta solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato stesso, correlazione tra richiesta e sentenza, all’erronea qualificazione giuridica dei fatto e della pena o della misura di sicurezza. In definitiva, quindi, il ricorrente non ha posto del suo ricorso alcuna della ipotesi per le quali è attualmente consentito il ricorso per avverso sentenze di applicazione della pena su richiesta, non avendo sollevato questioni a all’espressione della volontà dell’imputato stesso, al difetto di correlazione tr sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o d sicurezza.
Si tratta di doglianze non consentite, nel giudizio di legittimità avverso se applicazione della pena su richiesta.
Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzi rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abb il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibili declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro tremila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle processuali ed al versamento della somma di euro tremila in favore della Cassa delle amm Così deciso in Roma il 1° marzo 2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente