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Ricorso patteggiamento: limiti di inammissibilità

La Corte di Cassazione dichiara l’inammissibilità del ricorso patteggiamento presentato da cinque imputati condannati per furto aggravato. Gli imputati contestavano la qualificazione del reato come consumato anziché tentato, ma la Corte ha stabilito che tale motivo non rientra tra quelli tassativamente previsti dalla legge per impugnare una sentenza di patteggiamento, condannando i ricorrenti al pagamento delle spese e di una sanzione pecuniaria.

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Pubblicato il 12 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Inammissibilità Ricorso Patteggiamento: Quando l’Appello è Precluso

L’istituto del patteggiamento, previsto dall’art. 444 del codice di procedura penale, rappresenta una scelta strategica per l’imputato che, in cambio di uno sconto di pena, rinuncia al dibattimento. Tuttavia, questa scelta comporta significative limitazioni al diritto di impugnazione. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito con forza i confini entro cui è possibile contestare una sentenza di patteggiamento, dichiarando l’inammissibilità del ricorso patteggiamento basato su motivi non consentiti dalla legge.

I Fatti del Caso: Un Patteggiamento per Furto Aggravato

Cinque individui erano stati condannati dal Tribunale di Latina, tramite sentenza di patteggiamento, alla pena di un anno e sei mesi di reclusione e 350 euro di multa ciascuno. L’accusa era di furto aggravato in concorso, un reato previsto dagli articoli 110, 624-bis e 625 del codice penale. Accettando il patteggiamento, gli imputati avevano di fatto concordato con la pubblica accusa la pena da applicare, ottenendo il benestare del giudice.

Il Motivo del Ricorso: Furto Consumato o Tentato?

Nonostante l’accordo raggiunto, gli imputati, tramite il loro difensore, hanno deciso di presentare ricorso per Cassazione. Il loro unico motivo di doglianza riguardava la qualificazione giuridica del fatto. Sostenevano che il giudice di merito avesse erroneamente configurato il reato come furto consumato, mentre, a loro avviso, si sarebbe dovuto trattare di un furto tentato. Questa distinzione è fondamentale, poiché il tentativo di reato comporta una pena significativamente inferiore rispetto al reato consumato.

La Decisione della Cassazione e l’Inammissibilità del Ricorso Patteggiamento

La Suprema Corte ha respinto categoricamente il ricorso, dichiarandolo inammissibile. La decisione si fonda su una lettura rigorosa dell’articolo 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale, introdotto dalla cosiddetta Riforma Orlando (L. 103/2017).

I Limiti Tassativi dell’Art. 448, comma 2-bis, c.p.p.

Questa norma stabilisce un elenco chiuso e tassativo dei motivi per cui è possibile presentare ricorso contro una sentenza di patteggiamento. I motivi ammessi sono:

1. Difetti nell’espressione della volontà dell’imputato di patteggiare.
2. Mancata correlazione tra la richiesta di patteggiamento e la sentenza emessa.
3. Erronea qualificazione giuridica del fatto, ma solo se questa ha portato all’applicazione di una pena illegale.
4. Illegalità della pena o della misura di sicurezza applicata.

La Corte ha chiarito che la censura sollevata dai ricorrenti – ovvero la discussione sulla natura consumata o tentata del reato – non rientra in nessuna di queste categorie. Non si trattava di un vizio della volontà, né di un’illegalità della pena. Contestare la qualificazione del fatto in sé, senza che ciò si traduca in una sanzione non prevista dalla legge, è un motivo non consentito per impugnare un patteggiamento.

Le Conseguenze della Declaratoria di Inammissibilità

In conformità con l’articolo 610, comma 5-bis, del codice di procedura penale, la Corte ha dichiarato l’inammissibilità “senza formalità”. Tale decisione comporta, per legge, la condanna dei ricorrenti non solo al pagamento delle spese processuali, ma anche al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che in questo caso è stata fissata in 4.000,00 euro per ciascuno.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Corte risiedono nella natura stessa del patteggiamento. Si tratta di un accordo processuale che implica una rinuncia da parte dell’imputato a contestare nel merito l’accusa in cambio di un beneficio sanzionatorio. Consentire un’ampia facoltà di impugnazione su questioni come la qualificazione del fatto (consumato vs. tentato) snaturerebbe l’istituto, trasformandolo in un’anticamera per un giudizio di merito che le parti hanno scelto di evitare. La legge, con l’art. 448, comma 2-bis, ha voluto blindare la sentenza di patteggiamento, limitando il ricorso a vizi procedurali gravi o a palesi illegalità della pena, escludendo riesami sul fatto.

Le Conclusioni

Questa pronuncia conferma un orientamento giurisprudenziale consolidato: chi sceglie la via del patteggiamento deve essere consapevole delle sue conseguenze, inclusa la drastica limitazione del diritto di appello. La possibilità di ricorrere in Cassazione è un’eccezione, circoscritta a vizi specifici e gravi. La contestazione sulla qualificazione giuridica del fatto, come quella tra reato tentato e consumato, rimane al di fuori di questo perimetro, rendendo il ricorso destinato a una sicura declaratoria di inammissibilità con conseguente condanna a sanzioni pecuniarie aggiuntive.

È sempre possibile fare ricorso in Cassazione contro una sentenza di patteggiamento?
No, non è sempre possibile. L’articolo 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale elenca in modo tassativo i soli motivi per cui si può ricorrere, come ad esempio un vizio nella volontà dell’imputato o l’illegalità della pena applicata.

Contestare la qualificazione del reato (es. da consumato a tentato) è un motivo valido per ricorrere contro un patteggiamento?
No. Secondo la decisione analizzata, questo motivo non rientra tra quelli consentiti dalla legge per impugnare una sentenza di patteggiamento, a meno che l’errata qualificazione non abbia determinato l’applicazione di una pena illegale.

Cosa succede se un ricorso contro una sentenza di patteggiamento viene dichiarato inammissibile?
Il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di denaro, stabilita dal giudice, in favore della Cassa delle ammende. Nel caso di specie, la somma è stata di 4.000 euro per ogni ricorrente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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