Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 895 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 895 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 28/11/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME nato a CAPRI LEONE il 25/03/1958
COGNOME
LA CORTE NOME COGNOME
nato a PALERMO il 20/11/1965
COGNOME
NOME9> nato a SAN FRATELLO il 21/07/1966
avverso la sentenza del 21/11/2022 della CORTE DI APPELLO DI MESSINA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per la inammissibilità dei ricorsi di COGNOME e La Corte e per la rideterminazione della pena per COGNOME in anni due di reclusione con rigetto nel resto;
udito il difensore delle parti civili avv. NOME COGNOMEper COGNOME), anche in sostituzione dell’avv. COGNOMEper COGNOME), che ha concluso per la inammissibilità e comunque per il rigetto dei ricorsi;
uditi i difensori degli imputati ricorrenti avv. NOME COGNOME (per COGNOME), avv. NOME COGNOME in sostituzione dell’avv. NOME COGNOMEper La Corte), avv. NOME COGNOME e avv. NOME COGNOMEper COGNOME), che hanno concluso per l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza emessa il 21 novembre 2022 la Corte di appello di Messina confermava la sentenza del Tribunale di Messina nella parte in cui aveva riconosciuto la responsabilità di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME per i reati di usura loro rispettivamente ascritti ai capi al), b e c) dell’imputazione, con la condanna al risarcimento del danno subìto dalle parti civili e la confisca disposta ai sensi dell’art. 644, sesto comma, cod. pen.
In parziale riforma della pronuncia di primo grado, il giudice di appello, dichiarato estinto per prescrizione il reato sub a) ascritto a COGNOME ed esclusa la recidiva ritenuta dal primo giudice per La Corte, rideterminava le pene inflitte ai due imputati e a COGNOME riducendo altresì l’entità della confisca nei confronti di La Corte.
Hanno proposto ricorso i tre imputati, a mezzo dei rispettivi difensori, chiedendo l’annullamento della sentenza.
Con un unico motivo, nel ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME COGNOME si denuncia che la Corte territoriale, con una motivazione illogica e resa per relationem alla pronuncia del primo giudice, rigettando le doglianze difensive, ha erroneamente fondato la responsabilità del ricorrente per il reato di usura ascrittogli al capo al) dell’imputazione sulle sole dichiarazioni rese da NOME COGNOME escusso ai sensi dell’art. 210 cod. proc. pen., in contrasto con il disposto normativo di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., che impone di valutare le suddette affermazioni unitamente agli altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità.
La Corte d’appello ha utilizzato a sostegno dell’accusa lo stesso dato da verificare, in particolare ritenendo come riscontri la scrittura privata datata 23 marzo 2009 e la perizia del dottor COGNOME per la ricostruzione dei tassi-soglia usurari, valutando entrambe proprio sulla base del narrato della persona offesa; inoltre, la sentenza non ha tenuto conto né degli esiti negativi della perquisizione domiciliare effettuata nei confronti dell’imputato né dell’ipotesi alternativa prospettata nella suddetta perizia.
Il ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME è articolato in quattro motivi.
4.1. Violazione di legge in relazione agli artt. 192, comma 2, 125, comma 3, e 546 cod. proc. pen.
La Corte territoriale ha erroneamente fondato la responsabilità penale del ricorrente, per il reato di cui al capo b) dell’imputazione, sulle sole dichiarazioni mendaci, inattendibili e prive di riscontri rese da NOME COGNOME il quale, come riferito in dibattimento dal luogotenente NOME COGNOME era stato coinvolto in una indagine per antiriciclaggio condotta dalla Guardia di Finanza nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE, dallo stesso amministrata, e aveva accusato gli imputati al solo fine di distogliere l’attenzione degli inquirenti.
La sentenza impugnata non ha proceduto a un effettivo vaglio della credibilità della persona offesa e dell’attendibilità delle sue dichiarazioni omettendo una verifica incrociata con gli altri elementi di prova raccolti, così disattendendo totalmente i principi affermati sul punto dalla giurisprudenza di legittimità; inoltre, senza confrontarsi con le specifiche doglianze avanzate con il gravame, non ha tenuto in debito conto un elemento fondamentale per la valutazione della non veridicità del narrato del dichiarante, costituito dall’assoluzione di La Corte per il reato ascrittogli al capo b1), fondata sulla inattendibilità del racconto di COGNOME in ragione di altre contrastanti risultanz probatorie.
Non è stata raggiunta la prova circa la sussistenza di un prestito usurario di 80.000 euro, a fronte del quale la persona offesa avrebbe restituito circa 100.000 euro, in quanto la testimonianza di COGNOME è smentita dalle emergenze dibattimentali e dall’assenza di documenti attestanti che quest’ultimo avesse effettivamente ricevuto il prestito, quantomeno con riferimento alla parte che si assume essere stata dall’imputato consegnata in assegni.
4.2. Manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione e travisamento della prova in relazione alle prove dichiarative e alle intercettazioni.
In primo luogo, vi è una incontrovertibile difformità tra il senso intrinseco della deposizione del teste NOME COGNOME sentito a s.i.t., e quello trattone dalla Corte d’appello.
Oltre alle dichiarazioni del suddetto testimone, che chiariscono aspetti fondamentali della vicenda (in particolare, riferendosi non a tutti ma solo ad alcuni degli assegni indicati dalla persona offesa e a singole operazioni, egli ha spiegato come vi fossero rapporti economici tra l’imputato e COGNOME tali da giustificare l’emissione di titoli da parte del secondo per estinguere i suoi debiti nei confronti del primo), la stessa Corte non ha tenuto conto neppure delle altre testimonianze (indicate alle pagg. 13-14 del ricorso), contrastanti con il racconto della parte civile, espungendole immotivatamente dal compendio probatorio.
Per quanto attiene alle intercettazioni, la sentenza ha completamente travisato il senso di una serie di conversazioni che vedevano coinvolto La Corte: quella intercorsa con NOME COGNOME da cui si è apoditticamente desunta una
presunta consapevolezza da parte di questi rispetto all’asserito rapporto di usura tra il ricorrente e COGNOME; quella avvenuta con quest’ultimo, sulla base della quale si è ritenuto sussistente il prestito usurario, nonostante il senso letterale di una parte della conversazione (riportata a pag. 17 del ricorso) dimostrasse che la persona offesa aveva ricevuto da La Corte non 80.000 ma 100.000 euro; quella tra l’imputato e NOME COGNOME, moglie di COGNOME, dalla quale risulta la circostanza che La Corte aveva anticipato delle somme per conto della persona offesa in favore di terzi, senza ottenerne la restituzione, in assenza di alcun accenno alla promessa e/o dazione di interessi.
Nessuna congrua motivazione è stata offerta dal giudice d’appello per spiegare l’assunto in base al quale tutti i soggetti terzi prenditori di assegni, indicati da COGNOME, dovessero ritenersi “prestanomi” di NOME COGNOME e che, pertanto, tutti i predetti titoli fossero da imputarsi a un prestito a fronte quale venivano versati interessi con tasso usurario a suo favore, nonostante non fosse stata disposta alcuna perizia calligrafica che consentisse di attribuirli alla sua mano e che tutti i suddetti prenditori avessero dichiarato di non conoscerlo e di non aver ricevuto da lui gli assegni.
4.3. Mancanza della motivazione sulla ritenuta natura usuraria degli interessi asseritamente corrisposti, in relazione alla perizia e alle dichiarazioni della parte civile.
Non sono state accertate né l’effettiva somma prestata dal ricorrente a Bringheli né quella che quest’ultimo avrebbe restituito; ciononostante, in presenza di dati incerti, la sentenza ha confermato la sussistenza degli elementi costitutivi del reato previsto dall’art. 644 cod. pen., quando invece, secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, la verifica della natura usuraria degli interessi richiede una specifica e puntuale indagine.
In particolare, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, La Corte avrebbe prestato a COGNOME 80.000 euro, richiedendo in restituzione 100.000 euro, nel periodo compreso tra maggio e ottobre 2010, mentre il perito ha indicato in 73.000 euro la somma prestata (come nel capo d’imputazione) e in 14.926 euro gli interessi corrisposti.
La persona offesa, poi, in dibattimento ha confermato di avere ricevuto dal ricorrente una ulteriore somma di 15.000 euro senza interessi e di non avergliela mai restituita, circostanza decisiva ignorata dalla Corte territoriale, idonea a disarticolare il ragionamento su cui si è fondata la decisione.
La motivazione della sentenza impugnata è apparente, avendo affermato la sussistenza del delitto di usura senza alcun supporto dimostrativo, bensì ricorrendo a mere presunzioni e ad apodittiche deduzioni, prima fra tutte quella riguardante la totale credibilità di COGNOME che pure ha ammesso di avere
intrattenuto con l’imputato anche rapporti commerciali aventi ad oggetto la compravendita di autoveicoli.
4.4. Violazione di legge e vizio motivazionale con riferimento all’omessa revoca della confisca disposta ex art. 644, ultimo comma, cod. pen.
La Corte territoriale, confermando la confisca di denaro che non era né di proprietà del ricorrente né nella sua disponibilità né tantomeno frutto del reato contestatogli, non ha considerato che anche la suddetta ipotesi di confisca è comunque sottoposta alla disciplina generale di cui all’art. 240 cod. pen., il cui terzo comma prevede che non sono confiscabili beni che appartengano a soggetti estranei al reato e dei quali il reo non abbia la disponibilità diretta o pe interposta persona.
Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME è articolato in cinque motivi.
5.1. Violazione della legge penale processuale, in relazione all’art. 521 cod. proc. pen., essendo stato violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza.
L’ipotesi accusatoria poggiava su plurime dazioni a titolo di prestito per un valore complessivo di 160.000 euro e, correlativamente, su tre elementi fattuali corrispondenti a tre diverse modalità di usura tra loro concorrenti, ciascuna delle quali necessitava di una apposita verifica processuale: la corresponsione di assegni, la cessione di un’autovettura Porsche Carrera e la vendita di un immobile a un prezzo inferiore di quello di mercato.
Il ricorrente ha impostato la propria difesa sulla base della imputazione così formulata e nel corso del dibattimento è stato provato che detta autovettura era di proprietà non della persona offesa bensì dello stesso COGNOME.
Tale difformità del fatto ha mutato sostanzialmente l’originaria imputazione, che non è stata modificata dal pubblico ministero, e ciononostante, pure a fronte della diversità del fatto, la sentenza di appello ha considerato una “inesattezza” il dato fattuale relativo alla titolarità dell’automobile e ha restituito un quadr accusatorio completamente diverso da quello prospettato nel capo d’imputazione, nel quale gli elementi indicati non si limitavano a una mera descrizione del fatto ma concorrevano a identificare la connotazione illecita della condotta.
5.2. Violazione della legge penale sostanziale, in relazione all’art. 644 cod. pen., nella parte in cui la sentenza ha operato una arbitraria monetizzazione dei rapporti economici intercorsi tra COGNOME e COGNOME
Stante la ipotizzata natura mista del rapporto usurario, la Corte ha erroneamente esteso all’usura in concreto i criteri utilizzati per valutare l’usura legale, considerando i rapporti economici controversi in maniera unitaria,
cosicché la loro natura usuraria è stata ritenuta considerando la complessiva operazione di prestito.
In particolare, la cessione dell’immobile è stata valutata nel calcolo complessivo del superamento della soglia legale individuata, senza operare alcuna distinzione rispetto alle altre operazioni, nel tasso unico del 44,86%.
5.3. Vizio della motivazione, mancante, contraddittoria e/o manifestamente illogica, nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto sussistente l sproporzione sinallagmatica nei rapporti economici intercorsi tra COGNOME e COGNOME
Nella sentenza manca ogni riferimento ai rapporti economici di natura professionale intercorsi fra i due, pur essendo stato ampiamente dimostrato, anche nel corso dell’esame della persona offesa, che COGNOME e la società dallo stesso amministrata si erano avvalsi dell’attività di consulenza legale svolta dall’avv. COGNOME circostanza riconosciuta dal Tribunale di Messina. Anche il perito nominato dal primo giudice non ha ricompreso nelle operazioni di calcolo della sproporzione sinallagmatica un cospicuo numero di prestazioni economicamente valutabili.
5.4. Violazione della legge penale processuale, in relazione all’art. 125 cod. proc. pen., nella parte in cui il dispositivo risulta difforme dalla motivazione su punto della determinazione della pena.
Nel caso di specie occorre dare prevalenza alla parte motiva, in quanto la sentenza “svolge un ragionamento puntuale sui fatti contestati al ricorrente nel contesto del procedimento penale unitariamente considerato e nel confronto con i fatti ascritti agli altri imputati”.
5.5. Violazione della legge penale sostanziale, in relazione all’art. 62-bis cod. pen., e motivazione mancante, contraddittoria e/o manifestamente illogica, sul punto del diniego delle attenuanti generiche, contrastante anche con le valutazioni espresse dalla Corte di appello per giustificare la riduzione della pena inflitta dal primo giudice.
5.6. In data 13 novembre 2023 sono stati presentati motivi nuovi con i quali la difesa ha ripreso e sviluppato le argomentazioni svolte nel secondo e nel terzo motivo di ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono inammissibili perché proposti con motivi generici, non consentiti o manifestamente infondati.
2. Va premesso che la sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, quando – come nel caso di specie – le due decisioni di merito concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni e, a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate e ampiamente chiarite nella sentenza di primo grado (Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, COGNOME, Rv. 191229; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, COGNOME, Rv. 252615).
Pertanto, il giudice di secondo grado, in presenza di una “doppia conforme”, nella motivazione della sentenza, non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente ogni risultanza processuale, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale, egli spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente i fatti decisivi. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le argomentazioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 6, n. 34532 del 22/06/2021, COGNOME, Rv. 281935; Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, COGNOME, Rv. 277593; Sez. 3, n. 8065 del 21/09/2018, dep. 2019, C., Rv. 275853; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, COGNOME, Rv. 260841; da ultimo cfr. Sez. 5, n. 21638 del 03/02/2023, COGNOME, non mass.).
Inoltre, la presenza di una criticità su una delle molteplici valutazioni contenute nel provvedimento impugnato, laddove le restanti offrano ampia rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo, non può comportare l’annullamento della decisione per vizio di motivazione, potendo lo stesso essere rilevante solo quando, per effetto di tale critica, all’esito di una verifica su completezza e globalità del giudizio operato in sede di merito, risulti disarticolato uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l’impianto della decisione (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M., Rv. 271227; Sez. 6, n. 3724 del 25/11/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 267723; Sez. 2, n. 37709 del 26/09/2012, COGNOME, Rv. 253445; da ultimo v. Sez. 2, n. 22045 del 06/04/2023, Costa, non mass.).
Questi principi, rilevanti ai fini della valutazione di tutti i ricorsi, non s stati adeguatamente considerati dalle difese degli imputati.
Nel ricorso di Miraudo l’unico motivo di doglianza – come si è detto riguarda la lamentata assenza di riscontri alle dichiarazioni rese da NOME COGNOME.
Va premesso che il Tribunale – come sostenuto dal ricorrente – ha effettivamente affermato (pag. 7) che COGNOME fu esaminato ai sensi dell’art. 210 cod. proc. pen. “quale imputato in procedimento connesso”, poiché egli aveva reso le dichiarazioni riguardanti i fatti di cui si tratta dopo che la societ della quale era amministratore (la RAGIONE_SOCIALE) era stata coinvolta in una indagine antiriciclaggio della Guardia di Finanza di Messina.
Dal verbale dell’udienza del 28 febbraio 2018, tuttavia, risulta che COGNOME una volta scelto di rispondere, prestò giuramento e fu indicato quale “testimone assistito” dal difensore che lo rappresentava nella veste di parte civile.
Pur considerato che anche ai soggetti che assumono l’ufficio di testimone ai sensi dell’art. 197-bis cod. proc. pen. si applica la disposizione di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., si deve rilevare che la sentenza della Corte di appello, premesso che il dichiarante era stato “attinto”, prima delle denunce, “da pregresse indagini su un giro di riciclaggio coinvolgenti le società ad esso facenti capo”, ha con fondamento rimarcato la “mancanza in atti di alcuna emergenza riportante una qualità di indagato o di imputato del COGNOME per tali evidenziati fatti” (pag. 12), la quale soltanto avrebbe giustificato l’attribuzione allo stesso d una veste diversa da quella di testimone “puro”.
Ciononostante, la Corte territoriale, confermato il giudizio sulla credibilità della parte civile, già espresso dal Tribunale sulla base di una serie di incensurabili valutazioni, non illogiche o contraddittorie, ha evidenziato la presenza di una serie di riscontri esterni idonei ad avvalorare l’attendibilità delle accuse di COGNOME, costituiti da prove dichiarative, intercettazioni, accertamenti bancari e acquisizione documentali.
I giudici di merito, con valutazioni conformi, si sono attenuti al principio di diritto, secondo il quale «i riscontri dei quali necessita la narrazione possono essere costituiti da qualsiasi elemento o dato probatorio, sia rappresentativo che logico, a condizione che sia indipendente e, quindi, anche da altre chiamate in correità, purché la conoscenza del fatto da provare sia autonoma e non appresa dalla fonte che occorre riscontrare, ed a condizione che abbia valenza individualizzante, dovendo cioè riguardare non soltanto il fatto-reato, ma anche la riferibilità dello stesso all’imputato, mentre non è richiesto che i riscont abbiano lo spessore di una prova “autosufficiente” perché, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata di correità» (così Sez. 2, n. 35923 del 11/07/2019, Campo, Rv. 276744; in senso esattamente conforme cfr., ad es., Sez. 6, n. 45733 del 11/07/2018, P., Rv. 274151, nonché Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, COGNOME, Rv. 260607; da ultimo v. Sez. 2, n. 33568 del 23/06/2023, Garcia, non mass.)
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Avuto specifico riguardo alla posizione di COGNOME, il ricorso risulta anche generico là dove, sostenendo la “circolarità” di alcuni riscontri, non si è confrontato con una serie di altri e diversi elementi di prova richiamati nella sentenza impugnata (pag. 12), ritenuti idonei a confermare l’attendibilità delle dichiarazioni di COGNOME.
La Corte di appello, infatti, ha ricordato la vicenda dell’accertata consegna dell’autovettura Porsche Carrera dalla parte civile all’imputato, per la vendita della quale egli ricevette poi 34.000 euro da un acquirente, e soprattutto il dato documentale costituito dagli assegni tratti sul conto corrente di COGNOME, per un importo complessivo di 75.890 euro, versati a Miraudo o alla moglie fra il 2008 e il 2011, in assenza di alcun titolo giustificativo diverso da quello riconducibile ai rapporti usurari descritti dalla parte civile. Già il Tribunale aveva rimarcato detto elemento, affermando che “la condotta in contestazione non può certamente ritenersi non provata sol perché manca la prova documentale e diretta del passaggio del denaro oggetto del prestito degli imputati al COGNOME; ciò perché, come riferito dalla persona offesa, la dazione del denaro ricevuto in prestito era avvenuto con forma non tracciabile, vale a dire in contanti o tramite la consegna di assegni non riconducibili agli stessi” (pag. 25).
Sulla base di questa logica valutazione risulta irrilevante il riferimento della difesa al calcolo effettuato dal perito dott. COGNOME per completezza, là dove egli ha tenuto conto dei soli pagamenti documentati.
La sentenza impugnata, poi, aderendo all’analitica ricostruzione del primo giudice (pag. 10), ha ribadito anche la rilevanza della scrittura privata del 23 marzo 2009, riguardante “la vendita del 2,5% delle azioni della società RAGIONE_SOCIALE e l’attribuzione con emblematico patto leonino (di per sé oltremodo foriero di conseguenze ex art. 2265 c.c.) di una quota annuale di utili societari pari ad euro 17.000,00 in capo all’imputato”.
Sul punto il ricorrente si è limitato a sostenere che la interpretazione del documento discenderebbe dalle sole dichiarazioni della persona offesa, ma non ha offerto alcuna versione alternativa, con la stessa contrastante, per spiegare le ragioni per le quali egli avrebbe effettivamente conferito la somma di 85.000 euro nella società amministrata da COGNOME.
In proposito va ribadito che nell’ordinamento processuale penale non è previsto un onere probatorio a carico dell’imputato ma è pur sempre prospettabile un onere di allegazione, in virtù del quale egli è tenuto a fornire le indicazioni e gli elementi necessari all’accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore (Sez. 6, n. 50542 del 12/11/2019, Erario, Rv. 277682; Sez. 6, n. 28008 del 19/06/2019, Arena, Rv. 276381; Sez. 4, n. 12099 del 12/12/2018, dep. 2019, Fiumefreddo,
Rv. 275284; Sez. 5, n. 32937 del 19/05/2014, Stanciu, Rv. 261657; Sez. 2, n. 20171 del 07/02/2013, Weng, Rv. 255916).
In particolare, «ove l’imputato deduca eccezioni o argomenti difensivi, spetta a lui provare o allegare, sulla base di concreti ed oggettivi elementi fattuali, le suddette eccezioni perché è l’imputato che, in considerazione del principio della c.d. “vicinanza della prova”, può acquisire o quantomeno fornire, tramite l’allegazione, tutti gli elementi per provare il fondamento della tesi difensiva» (così Sez. 2, n. 7484 del 21/01/2014, COGNOME, Rv. 259245; in senso conforme v., di recente, Sez. 2, n. 6734 del 30/01/2020, Bruzzese, Rv. 278373).
Anche i motivi proposti nel ricorso di NOME COGNOME sono privi di fondamento.
4.1. In ordine alle censure sulla credibilità di COGNOME e sulla inattendibilit delle sue dichiarazioni si richiama quanto argomentato nel precedente paragrafo.
Si aggiunga che i giudici di merito, avuto specifico riguardo alla posizione di La Corte, hanno valutato una serie di conversazioni intercettate, richiamate nella sentenza di appello (pagg. 15-16) e più diffusamente in quella di primo grado (pagg. 20-21), considerate un significativo riscontro dell’attività usuraria svolta dall’imputato, denunciata da COGNOME e dalla moglie NOME COGNOME
La teste ha anche riferito delle minacce di morte rivolte nel marzo del 2012 da NOME COGNOME al fine di ottenere il pagamento degli interessi, per onorare il quale i coniugi erano già stati costretti a vendere beni e gioielli; lo stato prostrazione di COGNOME, in ragione di tali minacce e della situazione nella quale si trovava, era talmente grave che egli ipotizzò di togliersi la vita, pur dopo la presentazione della denuncia, come riferito dal maresciallo COGNOME (pag. 22 della sentenza del Tribunale).
L’assoluzione dell’imputato dal reato di cui al capo bl), riguardante un secondo prestito usurario, mascherato da una compravendita di un’autovettura, è stata dal Tribunale pronunciata in presenza di una prova ritenuta insufficiente, alla luce di due testimonianze contrastanti con quelle di COGNOME la cui credibilità, tuttavia, non è stata messa in dubbio dallo stesso giudice di primo grado sulla base del principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo il quale «la frazionabilità della valutazione del narrato è legittima sempre che non sussista un’interferenza fattuale e logica tra la parte di esso ritenuta inattendibile e le rimanenti parti e che l’inattendibilità non sia talment macroscopica, per accertato contrasto con altre sicure risultanze di prova, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante» (così Sez. 6, n. 3015 del 20/12/2010, dep. 2011, COGNOME, Rv. 249200; in senso conforme v., ad es., Sez. 4, n. 21886 del 19/04/2018, COGNOME, Rv. 272752; Sez. 5, n. 46471 del
19/10/2015, COGNOME Rv. 265874; Sez. 6, n. 20037 del 19/03/2014, L., Rv. 260160; da ultimo cfr. Sez. F, n. 35122 del 17/08/2023, COGNOME, non mass.).
4.2. I giudici di merito, quali riscontri alle dichiarazioni accusatorie COGNOME nei confronti di La Corte, hanno valorizzato, oltre alle risultanze delle operazioni di intercettazioni, le sommarie informazioni rese da NOME COGNOME nonché l’accertata negoziazione di sedici assegni emessi dalla parte civile, per complessivi 94.926 euro, alla fine incassati da terzi con i quali la stessa non aveva alcun rapporto, a differenza dell’imputato (sentenza del Tribunale, pagg. 18-19, 25-26, e sentenza di appello, pagg. 14-15).
La prima circostanza (assenza di alcun rapporto fra COGNOME e i terzi prenditori degli assegni) non è stata contestata dal ricorrente, che ha invece dedotto genericamente, in violazione del principio di autosufficienza – sul quale si tornerà oltre – che alcuni testi avrebbero dichiarato di non avere conosciuto La Corte; la difesa, però, non ha contrastato la ricostruzione del Tribunale (pag. 19), confermata nella sentenza di appello, là dove ha richiamato le dichiarazioni di numerosi altri testi, alcuni dei quali hanno affermato di avere ricevuto i titol dall’imputato, in pagamento di forniture varie o per la vendita di veicoli, mentre altri, “soggetti vicini al La Corte”, hanno ricordato di essersi “resi disponibili scambiare l’assegno corrispondendo al La Corte l’equivalente importo in denaro contante”.
Più in generale, avuto anche riguardo alle s.i.t. di COGNOME, GLYPH pur avendo formalmente espresso censure riconducibili alle categorie del vizio di motivazione, il ricorrente in realtà non ha lamentato una motivazione contraddittoria o manifestamente illogica, ma una decisione erronea: a questa Corte, però, è preclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova (v., ad es., Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, COGNOME, Rv. 283370; Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747; Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217).
Non è ravvisabile, dunque, alcun travisamento della prova, che sussiste solo in presenza di una palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della singola dichiarazione e quello che il giudice ne abbia inopinatamente tratto; va escluso, pertanto, che integri il suddetto difetto un presunto errore nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima (Sez. U, n. 33583 del 26/03/2015, COGNOME, Rv. 264481, non mass. sul punto; Sez. 1, n. 51171 del 11/06/2018, COGNOME Rv. 274478; Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017,
dep. 2018, COGNOME, Rv. 272406; Sez. 4, n. 1219 del 14/09/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 271702; Sez. 5, n. 9338 del 12/12/2012, dep. 2013, Maggio, Rv. 255087). Detto vizio, inoltre, può avere rilievo solo quando l’errore sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale (Sez. 6, n. 21015 del 17/05/2021, COGNOME, Rv. 281665; Sez. 6, n. 8610 del 05/02/2020, P., Rv. 278457; Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, COGNOME, Rv. 258774).
In ordine alle intercettazioni, va ribadito che l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti che conversano, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, non può essere sindacata dalla Corte di cassazione se non nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite. In questa sede, dunque, è possibile prospettare una interpretazione del significato di una intercettazione diversa da quella proposta dal giudice di merito solo in presenza del travisamento della prova, ovvero nel caso in cui il contenuto sia stato indicato in modo difforme da quello reale e la difformità risulti decisiva e incontestabile (Sez. U, n. 22471 del 26/2/2015, Sebbar, Rv. 263715; Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, COGNOME, Rv. 282337; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, COGNOME, Rv. 268389; Sez. 3, n. 35593 del 17/05/2016, COGNOME, Rv. 267650; Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Corso, Rv. 258164), circostanza non ravvisabile nella fattispecie.
È consolidato anche il principio secondo cui gli elementi di prova raccolti nel corso delle intercettazioni di conversazioni alle quali non abbia partecipato l’imputato costituiscono fonte di prova diretta, soggetta al generale criterio valutativo del libero convincimento razionalmente motivato, senza che sia necessario reperire dati di riscontro esterno (Sez. 6, n. 5224 del 02/10/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278611; Sez. 5, n. 40061 del 12/07/2019, COGNOME, Rv. 278314; Sez. 5, n. 4572 del 17/07/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 265747; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, COGNOME, Rv. 260842; da ultimo v. Sez. 3, 42211 del 04/05/2023, Pugliese, non mass.).
4.3. È privo di fondamento anche il terzo motivo con il quale la difesa ha lamentato la mancanza di motivazione sulla natura usuraria degli interessi corrisposti.
La Corte di appello, aderendo alla ricostruzione del primo giudice, ha rimarcato le “granitiche evidenze della sussistenza di un prestito usurario (per 80.000 euro, a fronte di una pattuizione di restituzione di 100.000 euro in sei mesi, dal maggio all’ottobre del 2010…)”, richiamando poi il contenuto di una
conversazione del 23 febbraio 2012 fra la parte civile e l’imputato, là dove quest’ultimo apertamente “ammette di aver corrisposto 100.000,00 euro complessivi al COGNOME e di ricevere pagamenti per interessi dallo stesso”.
Estrapolando dal contesto questa sia pure imprecisa ultima affermazione, il ricorrente ha genericamente dedotto che il prestito di cui si tratta sarebbe ammontato a 100.000 euro, circostanza appena prima smentita dalla stessa Corte e dal Tribunale, alla cui motivazione il giudice di appello ha aderito.
Nella conversazione riportata in sentenza, infatti, si legge che La Corte parlò di quella somma che COGNOME gli aveva chiesto (“questi 100.000 euro che tu mi hai chiesto…”) e non di denaro effettivamente corrisposto.
Il perito, con valutazioni non contrastate dal ricorrente, ha quantificato il tasso usurario nella misura del 72,09% facendo però riferimento ad un prestito non di 80.000 euro ma di 73.000 euro, quale quello indicato in imputazione, e alla restituzione non di 100.000 euro ma di 94.926 euro, pari alla somma degli assegni incassati da terzi.
La valutazione dei giudici di merito, con riferimento a questo secondo valore, è stata prudenziale e in favor rei, al pari di quella relativa all’ammontare del prestito, quantificato in 80.000 euro (secondo quanto dichiarato dalla parte civile) e non in 73.000 euro, come contestato nel capo d’accusa.
Risulta evidente, dunque, che il versamento di interessi per euro 14.926 (somma della quale è stata disposta la confisca) in cinque mesi, a fronte di un prestito di 80.000 euro, sia ampiamente superiore al tasso-soglia, sia pure in percentuale più ridotta rispetto a quella indicata dal perito, come ritenuto dai giudici di merito.
Nella fattispecie, dunque, è stato rispettato il principio affermato da questa Corte secondo il quale, nella usura mediante dazione, che configura una ipotesi di reato a condotta frazionata, è «necessario che, nei limiti di quanto consentito dalle evidenze processuali, siano esattamente determinati il tempo e la durata del prestito, nonché la data dei singoli pagamenti effettuati dall’usurato, in modo da individuare il trimestre di riferimento. D’altronde è sufficiente che in un solo trimestre tale soglia sia stata superata perché possa dirsi consumato il reato di usura» (Sez. 2, n. 26771 del 25/03/2021, COGNOME, Rv. 281551; in precedenza, nel medesimo senso, v. Sez. 2, n. 39334 del 12/07/2016, COGNOME, Rv. 268375, nonché Sez. 5, n. 8363 del 16/01/2013, COGNOME, Rv. 254715).
La difesa ha censurato la sentenza impugnata per l’omesso riferimento ad un altro prestito di 15.000 euro senza interessi che la parte civile avrebbe ammesso di avere ricevuto dal ricorrente.
Tuttavia, a fronte della spiegazione della parte civile circa il fatto che s trattasse di un rapporto diverso, ultroneo rispetto a quello in oggetto, ritenuta
attendibile dal Tribunale (pagg. 25-26), nell’atto di appello si era richiamata la circostanza non già per considerare nel calcolo della somma prestata i 15.000 euro ma solo ai fini “di una valutazione più ponderata della credibilità del COGNOME poiché questi ha deciso quali somme fare rientrare nei presunti rapporti usurari e quali no” (pag. 18).
La Corte di merito, quindi, non era stata sollecitata a una diversa quantificazione del tasso di interesse alla luce di quell’ulteriore prestito, cosicché l’omessa motivazione sul punto non è censurabile.
Peraltro, con il ricorso si è semplicemente ribadito che di detto ulteriore prestito COGNOME aveva parlato, supportando la deduzione con la produzione dello stralcio della sua deposizione, costituito da due sole pagine, nella quale risulta confermata la circostanza che già il Tribunale aveva considerato.
Risulta dunque impossibile verificare un eventuale travisamento della prova (o un vizio motivazionale sulla ritenuta attendibilità del teste), in assenza della produzione integrale del testo della deposizione, comprensiva della parte nella quale quella ulteriore dazione di denaro era stata indicata come del tutto avulsa dal prestito effettuato nel 2010, restituito fra il maggio e l’ottobre.
Il ricorrente è incorso nella violazione del principio di autosufficienza, secondo il quale è inammissibile il ricorso per cassazione che deduca il vizio motivazionale e, richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione, così da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze (Sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017, COGNOME, Rv. 270071; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, COGNOME, Rv. 265053; Sez. 3, n. 43322 del 02/07/2014, COGNOME, Rv. 260994; Sez. 2, n. 26725 del 01/03/2013, Natale, Rv. 256723).
Il principio va aggiornato dopo l’entrata in vigore dell’art. 165-bis, comma 2, disp. att. cod. proc. pen., secondo il quale copia degli atti «specificamente indicati da chi ha proposto l’impugnazione ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) del codice» è inserita a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato in separato fascicolo da allegare al ricorso. Sebbene la materiale allegazione con la formazione di un separato fascicolo sia devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, resta in capo al ricorrente l’onere di indicare gli atti da inserire nel fascicolo, che ne consenta la pronta individuazione da parte della cancelleria, alla quale non può essere delegato il compito di identificazione degli atti attraverso la lettura l’interpretazione del ricorso. Pertanto, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 165-bis, comma 2, disp. att. cod. proc. pen., è necessario il rispetto del principio di autosufficienza del ricorso, che si traduce nell’onere di una puntuale indicazione degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria
l’allegazione delegata alla cancelleria (Sez. 5, n. 5897 del 03/12/2020, dep. 2021, Cossu, Rv. 280419; Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019, COGNOME, Rv. 276432). Nel caso di specie il ricorrente neppure ha dedotto di avere adempiuto detto onere.
4.4. In relazione al motivo inerente alla confisca, infine, manca l’interesse del ricorrente, che deduce che il denaro sequestrato e confiscato era di proprietà del padre, il quale soltanto, dunque, avrebbe in astratto diritto alla restituzione, che egli avrebbe potuto chiedere al giudice della cognizione, prima della irrevocabilità della pronuncia, proponendo appello, in caso di diniego, al tribunale del riesame. Essendo rimasto estraneo al processo, egli potrà eventualmente agire in sede esecutiva per far valere il suo preteso diritto (Sez. U, n. 48126 del 20/07/2017, COGNOME, Rv. 270938).
Anche il ricorso presentato nell’interesse di COGNOME è inammissibile.
5.1. È manifestamente infondato il motivo in rito, già disatteso da entrambi i giudici di merito, circa la violazione dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen., quanto alla indicazione nel capo d’accusa della cessione dell’autovettura RAGIONE_SOCIALE da COGNOME al ricorrente.
Va ribadito sul punto che la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza è configurabile solo in presenza di una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad una incertezza sull’oggetto della contestazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa. Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205617; Sez. 3, n. 7146 del 04/02/2021, Ogbeifun, Rv. 281477; Sez. 2, n. 6560 del 08/10/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280654; Sez. 4, n. 4622 del 15/12/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 271948; Sez. 4, n. 33878 del 03/05/2017, COGNOME, Rv. 271607).
Già il Tribunale aveva correttamente osservato per un verso “come l’insussistenza di tale porzione della vicenda fattuale, afferente alla controprestazione del debitore, si risolva in un elemento a favore dell’imputato posto che altrimenti la consegna del bene in questione nella descrizione del fatto, in aggiunta alla restituzione dell’importo pagato dagli assegni incassati
(
dall’imputato e dalla di lui moglie e alla cessione dell’immobile in Sant’Agata Militello, aggraverebbe l’entità del profitto illecito conseguito dall’imputato -, pe altro verso la circostanza dell’avvenuta consegna dell’autovettura dal COGNOME al COGNOME è elemento oggetto di denuncia della persona offesa, circostanza emersa negli atti investigativi e ampiamente scandagliata in sede di istruttoria dibattimentale svoltasi nel pieno contraddittorio tra le parti” (pag. 27).
5.2. In ordine al secondo e al terzo motivo di ricorso, che possono essere congiuntamente trattati, va premesso che sono tardivi e quindi inammissibili i motivi nuovi presentati il 13 novembre 2013, senza il rispetto del termine di quindici giorni stabilito dall’art. 585, comma 4, cod. proc. pen., al quale si applica la previsione di cui all’art. 172, comma 5, cod. proc. pen., secondo cui, «quando è stabilito soltanto il momento finale, le unità di tempo stabilite per il termine si computano intere e libere» (da ultimo v. Sez. 3, n. 30333 del 23/04/2021, Altea, Rv. 281726).
Nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto sussistente il superamento del tasso-soglia nei prestiti effettuati da COGNOME a COGNOME, non sussiste alcun vizio motivazionale, peraltro denunciato cumulativamente dal ricorrente, in contrasto con il principio ribadito di recente dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo il quale «i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione. Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risulta priva della necessaria specificità» (Sez. U, n. 24591 del 16/07/2020, COGNOME non mass. sul punto).
La difesa, in particolare, ha dedotto che la Corte di appello “ha ritenuto erroneamente sussistente la sproporzione sinallagmatica nei rapporti economici intercorsi tra COGNOME e COGNOME” senza considerare “minimamente” l’accertata attività professionale svolta dal primo quale avvocato.
La censura è priva di ogni fondamento perché la sentenza impugnata, riprendendo e sviluppando le argomentazioni del Tribunale, ha puntualmente e ampiamente esposto (a pagg. 19-21) le molteplici ragioni per le quali le dazioni di denaro di cui si tratta non risultano in alcun modo giustificabili con i pagamento di prestazioni professionali del legale, a partire dal rilievo che nessuno degli importi indicati nelle notule e fatturazioni riferibili a pratiche curat dall’imputato nell’interesse di COGNOME della società allo stesso facente capo o della moglie coincideva “con alcuno di quelli afferenti gli assegni emessi in favore di esso imputato o della propria moglie NOME da parte del COGNOME, per un complessivo importo di 127.700,00 euro”.
Il ricorso sul punto è del tutto generico perché omette di confrontarsi con l’ampia motivazione della sentenza, deducendone erroneamente la mancanza.
Non è fondata neppure la censura con la quale la difesa, richiamando un principio espresso da questa Corte in una ben diversa fattispecie, ha contestato, peraltro genericamente, la presunta commistione tra usura legale e usura reale, dovendosi altresì considerare che la previsione del terzo comma dell’art. 644 cod. pen. ha la funzione di estendere la punibilità di condotte illecite, indicando le condizioni in presenza delle quali gli interessi sono considerati usurari anche se inferiori al limite legale.
Dalla ricostruzione del fatto, in larga parte supportata da dati documentali, è emerso che, a fronte di un debito di 160.000 euro, tra il marzo 2009 e il luglio 2011, COGNOME corrispose, in assegni, la somma di 127.700 euro, risultando quindi il debito residuo, per il capitale, pari a 32.300 euro.
Le parti si accordarono per la cessione dell’immobile in Sant’Agata Militello: il prezzo fu indicato in rogito in 83.000 euro ma il valore effettivo convenuto tra COGNOME e COGNOME fu di 220.000 euro, ritenuto congruo dal perito.
Pur recependo la più bassa valutazione del consulente dell’imputato, che ha stimato in 197.000 euro detto valore, risulta evidente che, di fatto, per saldare il debito residuo di 32.300 euro, la parte civile avrebbe corrisposto al creditore interessi per 164.700 euro, con una manifesta sproporzione e un evidente superamento del tasso-soglia, a proposito del quale si richiama quanto osservato trattando del ricorso precedente (al § 4.3).
5.3. È incensurabile anche la decisione della Corte di appello di non riconoscere all’imputato le attenuanti generiche, in assenza di rilevanti circostanze di segno positivo (Sez. 3, n. 24128 del 18/03/2021, COGNOME, Rv. 281590; Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, COGNOME, Rv. 270986; Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, COGNOME, Rv. 260610).
Non sussiste alcuna contraddizione rispetto alla scelta della Corte di merito di diminuire la pena inflitta in primo grado, in considerazione della durata e della entità dei prestiti usurari: le statuizioni relative alla determinazione della pena e al riconoscimento o meno delle attenuanti generiche non sono in un rapporto di necessaria interdipendenza, considerato che, pur richiamandosi ai criteri ex art. 133 cod. pen., esse si fondano su presupposti diversi (v., ad es., Sez. 4, n. 36352 del 15/09/2021, M., Rv. 281888; Sez. 3, n. 2268 del 15/11/2017, dep. 2018, S., Rv. 272022; Sez. 5, n. 12049 del 16/12/2009, dep. 2010, COGNOME, Rv. 246887).
5.4. Privo di fondamento, infine, è il motivo con il quale la difesa chiede sia data prevalenza alla pena detentiva indicata in motivazione (due anni di
reclusione) rispetto a quella risultante dal dispositivo (due anni e quattro mesi di reclusione).
Secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, in caso di contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza, la regola della prevalenza del dispositivo, in quanto immediata espressione della volontà decisoria del giudice, non è assoluta, ma va contemperata, tenendo conto del caso specifico, con la valutazione degli elementi tratti dalla motivazione, che conserva la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni della decisione e che, pertanto, ben può contenere elementi certi e logici che facciano ritenere errato il dispositivo o parte di esso (cfr., ad es., Sez. 3, n. 3969 del 25/09/2018, B., Rv. 275690; Sez. 6, n. 24157 del 01/03/2018, COGNOME, Rv. 273269; Sez. 2, n. 23343 del 01/03/2016, Ariano, Rv. 267082; Sez. 4, n. 43419 del 29/09/2015, COGNOME, Rv. 264909; Sez. F, n. 47576 del 09/09/2014, COGNOME, Rv. 261402).
Questo orientamento muove dall’esigenza di risolvere quei casi in cui la divergenza dipende da un evidente errore materiale, obiettivamente riconoscibile, contenuto nel dispositivo e, sul presupposto che in questa evenienza il contrasto è solo apparente, si ritiene legittimo il ricorso alla motivazione per chiarire la effettiva portata della decisione al fine di individuare l’errore e di eliminarne gli effetti.
Da ultimo questa Corte ha affermato che, nella ipotesi in cui la discrasia tra dispositivo e motivazione della sentenza dipenda da un errore materiale relativo all’indicazione della pena nel dispositivo e dall’esame della motivazione sia chiaramente ricostruibile il procedimento seguito dal giudice per pervenire alla sua determinazione, la motivazione prevale sul dispositivo, con conseguente possibilità di rettificare l’errore secondo la procedura prevista dall’art. 619 cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 35424 del 13/07/2022, COGNOME, Rv. 283516).
Nel caso di specie, tuttavia, dagli atti risulta che il dispositivo letto udienza è esattamente conforme a quello riportato in calce alla sentenza, là dove, in parziale riforma della decisione di primo grado, la Corte ha rideterminato la pena detentiva in “anni due e mesi quattro di reclusione”, senza effettuare alcun calcolo intermedio, cosicché deve trovare applicazione il principio secondo il quale l’atto che estrinseca la volontà del giudice è solo il dispositivo, che non può subire modifiche, integrazioni o sostituzioni con la motivazione, salva l’ipotesi in cui dispositivo e motivazione siano formati e pubblicati contestualmente in un unico documento (Sez. 4, n. 48766 del 24/10/2019, COGNOME, Rv. 277874; Sez. 2, n. 938 del 23/09/2015, dep. 2016, Pop, Rv. 265734; Sez. 3, n. 40542 del 18/06/2014, COGNOME, Rv. 260653).
Proprio in ragione del principio ora richiamato, occorre invece procedere alla correzione dell’errore materiale contenuto nel dispositivo della sentenza trascritto in calce alla motivazione per quanto concerne la pena inflitta a Miraudo, ridotta rispetto a quella del primo giudice per effetto della sopravvenuta prescrizione per il reato ascrittogli al capo a).
Dal dispositivo letto in udienza risulta che la Corte di merito ha rideterminato la pena in “anni tre di reclusione e C 7.000 euro di multa” (come peraltro riportato in motivazione a pag. 17), mentre nel dispositivo trascritto nella sentenza depositata, in calce alla motivazione, la pena risulta indicata in “anni due e mesi quattro di reclusione e C 5.000 euro di multa”.
Alla correzione provvederà lo stesso giudice che ha emesso la sentenza impugnata, come previsto dall’art. 130, comma 1, del codice di rito.
All’inammissibilità delle impugnazioni proposte segue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila ciascuno, così equitativamente fissata.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili COGNOME e COGNOME NOMECOGNOME che liquida, per ciascuna di esse, in complessivi euro 4.000,00 oltre accessori di legge.
Visto l’art. 130 c.p.p, dispone trasmettersi gli atti alla Corte di appello d Messina per la correzione dell’errore materiale contenuto al punto 3. del dispositivo della sentenza.
Così deciso il 28/11/2023.