Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 2488 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 2488 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 21/11/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nata a PALMI il 06/04/1976 NOME COGNOME NOME nato a SINOPOLI il 22/11/1971 NOME nato a PALMI il 08/06/1973 COGNOME nato a PALMI il 28/04/1991 avverso la sentenza del 23/01/2024 della CORTE d’APPELLO di REGGIO CALABRIA.
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
letta la memoria del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;
ricorso trattato con contraddittorio scritto ai sensi dell’art. 23 co.8 d.l. 137/2020 e del successivo art. 8 d.l. 198/2022.
RITENUTO IN FATTO
Con l’impugnato provvedimento la Corte d’appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza pronunciata in data 24 Marzo 2023 dal Tribunale di Palmi che condannava NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME alle pene di giustizia per i reati di truffa aggravata e di sostituzione di persona. In particolare, secondo la prospettazione accusatoria, i quattro imputati avevano partecipato ad una truffa per la fornitura, da parte della società RAGIONE_SOCIALE di pneumatici che non erano mai stati pagati. Nel fare
ciò, i coimputati avevano sostituito illegittimamente la propria persona e si erano attribuiti falso nome.
Con ricorso unitario, gli imputati hanno formulato i seguenti tre motivi.
2.1 Con il primo motivo si lamenta violazione di legge ai sensi dell’art. 606, lettera c), cod. proc. pen. per inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità con riferimento all’art. 63, comma 2, cod. proc. pen.
Secondo la tesi difensiva, le dichiarazioni autoaccusatorie rese dall’imputata NOME COGNOME sotto forma di sommarie informazioni testimoniali ed utilizzate dai giudicanti per affermare la colpevolezza sua e dei coimputati sono inutilizzabili. Nel momento in cui la COGNOME rilasciava le dette dichiarazioni, polizia giudiziaria era già a conoscenza del fatto che costei avesse firmato gli assegni tratti dal suo conto corrente e costituenti prova del reato. Conseguentemente, gli inquirenti si trovavano sin da subito di fronte alla condizione di applicare la previsione di cui al comma 2 dell’art. 63 cod. proc. pen.. Per tale ragione le dichiarazioni, non essendo state adottate le cautele richieste dalla legge, non possono essere utilizzate né nei confronti della dichiarante, né nei confronti degli altri imputati.
2.2 Con il secondo motivo di ricorso si deducono la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione (art. 606, lett. e, cod. proc. pen.).
Secondo la tesi difensiva, la contraddittorietà della decisione risiede nel fatto che condotte sostanzialmente sovrapponibili siano state giudicate in maniera opposta. In particolare, NOME COGNOME, madre di NOME COGNOME e sorella di NOME COGNOME, titolare della scheda telefonica utilizzata per la truffa e residente al medesimo indirizzo di tutti gli altri imputati, non è stat nemmeno indagata mentre NOME COGNOME sol perché intestataria degli assegni utilizzati per la truffa e residente anch’ella al medesimo indirizzo è stata giudicata responsabile oltre ogni ragionevole dubbio.
Quanto alla manifesta illogicità, essa consiste nella indebita valorizzazione, quale elemento probatorio per affermare la responsabilità degli imputati, dell’illogica associazione della residenza degli imputati quale luogo di consegna della refurtiva. Ancor più evidente è il vizio argomentativo secondo cui per prassi il corriere che consegni la mercanzia (nel caso di specie, gli pneumatici) riceva in pagamento l’assegno, dato che il corriere non è mai stato sentito e, d’altra parte, non v’è alcun riscontro che alla consegna fossero presenti i due NOME, piuttosto che una terza persona.
2.3 Con il terzo motivo, si deduce mancanza di motivazione sulla responsabilità degli imputati ex art. 606, lett. e), nonché 125, comma 3, cod. proc. pen..
Il giudice del gravame, si sostiene nel ricorso, si è limitato a richiamarsi alla motivazione di primo grado, senza effettuare un reale sforzo motivazionale, svilendo ogni deduzione difensiva formulata in grado d’appello.
Ciò è in particolare evidente in relazione alla condotta di NOME COGNOME che non ha alcun collegamento direttamente riconducibile alle condotte criminose contestate ed è semplicemente responsabile per essere figlio di NOME COGNOME
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile, poiché fondato su motivi generici, non consentiti e, almeno in parte, manifestamente infondati.
Il primo motivo reca una questione processuale, attinente all’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da NOME COGNOME quale persona informata sui fatti, quando erano già presenti elementi indizianti a suo carico, senza le formalità richieste dall’art. 63, comma 2, cod. proc. pen..
Ebbene, il Collegio sottolinea la genericità della doglianza nella parte in cui nel motivo non se ne evidenzia la rilevanza ai fini della decisione. Occorre infatti ribadire che, secondo i principi elaborati da questa Corte, dai quali non v’è ragione di distanziarsi, costituisce onere della parte che eccepisca l’inutilizzabilità di atti, indicare, pena la genericità del motivo, l’incidenza dell’atto contestato su complessivo compendio indiziario già valutato, sì da potersene inferire la decisività in riferimento al provvedimento impugnato (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, COGNOME, Rv. 243416; Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, COGNOME, Rv. 254108; Sez. 6, n. 1219 de/ 12/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278123 01). Il rilievo a mente del quale la mancata interruzione dell’esame testimoniale, per consentire l’assistenza di un difensore e l’espletamento delle formalità dettate dall’ari. 64 comma 3, cod. proc. pen., avrebbe comportato l’inutilizzabilità delle dichiarazioni di NOME COGNOME risulta generico poiché non si chiarisce affatto quale risultato concreto l’eccezione comporterebbe. Infatti, la COGNOME non ha mai negato la autoria delle sottoscrizioni apposte sui titoli di credito, confutandone l’autenticità, né ha contestato che i titoli siano stati utilizzati p portare in esecuzione, nella prospettiva accusatoria, le truffe ai danni del fornitore degli pneumatici.
Il quadro probatorio a carico della donna, pertanto, non è affatto basato sulle ammissioni rese nelle sommarie informazioni testimoniali, come ritenuto nel ricorso, poiché la partecipazione alla truffa le è ascritta per la sottoscrizione degl assegni in sé , “non spiegando il motivo per il quale … la COGNOME (tutto
maiuscolo nell’originale, n.d.r.) si sarebbe dovuta prestare a firmare assegni tratti sul suo conto corrente, pur sapendo dell’assenza di provvista” (pg. 8 della sentenza d’appello).
Analogamente, il motivo avrebbe dovuto specificare la rilevanza dell’eccezione nei confronti dei coimputati, essendo incontestato che l’utilizzo dei titoli, da chiunque essi fossero stati ‘riempiti’, cioè completati dei dettag necessari, non fosse da ascriversi a NOME COGNOME quanto piuttosto all’entuourage familiare, essendo state le trattative condotte da un uomo e destinate a beneficiare le attività intestate e gestite dagli ‘uomini di famiglia’.
L’eccezione, che non si è confrontata con tali aspetti, è pertanto generica e tale da determinare, in parte qua, l’inammissibilità del ricorso.
3. In relazione agli ulteriori motivi di ricorso, occorre innanzitutto sottolineare che la sentenza di appello costituisce una c.d. “doppia conforme” della decisione di primo grado in relazione tanto alla affermazione di responsabilità degli imputati (ciò di cui trattano i due motivi residui), quanto in relazione alle circostanze, con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente, costituendo un unico corpo decisionale, essendo stato rispettato sia il parametro del richiamo da parte della sentenza d’appello a quella del Tribunale sia l’ulteriore parametro costituito dal fatto che entrambe le decisioni adottano i medesimi criteri nella valutazione delle prove (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595).
A fronte delle modalità di redazione dei due motivi, che evocano non consentite censure di fatto, rischiando così di confondere il piano della valutazione del merito con il giudizio di legittimità, è bene riaffermare quali siano i limiti entro il quale quest’ultimo è consentito innanzi a questa Corte, nei termini strettamente necessari ai fini della presente decisione.
La rilevabilità del vizio di motivazione soggiace alla verifica del rispetto delle seguenti regole:
il vizio deve essere dedotto in modo specifico in riferimento alla sua natura, non essendo possibile dedurre il vizio di motivazione in forma alternativa o cumulativa, come avviene nel presente caso (“contraddittorietà o manifesta illogicità” si legge a pg. 3 del ricorso); infatti, non può rientrare fra i compiti giudice della legittimità la selezione del possibile vizio genericamente denunciato, pena la violazione dell’art. 581, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME non massimata sul punto); la deduzione alternativa di vizi, invece assolutamente differenti, è di per sé indice di genericità del motivo di ricorso e, in definitiva, ‘segno’ della natura di merito della doglianza che ad essi
solo strumentalmente tenta di agganciarsi (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965 – 01);
– il vizio di motivazione deve presentare il carattere della essenzialità, nel senso che la parte deducente deve dare conto delle conseguenze del vizio denunciato rispetto alla complessiva tenuta logico-argomentativa della decisione. Infatti, sono inammissibili tutte le doglianze che “attacchino” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenzino ragioni in fatt per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibili dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965); la deduzione della mera carenza del ragionamento giudiziale o della motivazione in cui esso è riflesso è del tutto insufficiente ed indice della erronea prospettiva sotto cui viene esercitata la critica di legittimità nei confronti del provvedimento impugnato. L’unico standard in grado di elevare il giudizio sulla motivazione a questione di legittimità, è quello della manifesta illogicità, cioè quella discontinuità della conseguenzialità del ragionamento, della relazione ‘causa-effetto’ o ‘premessa-conseguenza’, che sia di gravità tale da essere immediatamente (ictu ocu/i) ed incontestabilmente rilevabile (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, COGNOME, Rv. 226074).
In conclusione, al giudice di legittimità resta preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di meri perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Suprema Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito rispettino sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. Il sindacato di legittimità non ha per oggetto la revisione del giudizio di merito, bensì la verifica della struttura logica del provvedimento e non può quindi estendersi all’esame ed alla valutazione degli elementi di fatto acquisiti al processo, riservati alla competenza del giudice di merito, rispetto alla quale la Suprema Corte non ha alcun potere di sostituzione al fine della ricerca di una diversa ricostruzione dei fatti in vista una decisione alternativa. Né la Suprema Corte può trarre valutazioni autonome dalle prove o dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel provvedimento impugnato. Invero, solo l’argomentazione critica che si fonda sugli elementi di prova e sulle fonti
indiziarie contenuta nel provvedimento impugnato può essere sottoposto al controllo del giudice di legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenza alle regole della logica, oltre che del diritto, e all’esigenza della completezza espositiva (Sez. 6, n. 40609 del 01/10/2008, COGNOME, Rv. 241214).
3.1 Sulla base di questo inquadramento concettuale, che costituisce patrimonio ermeneutico condiviso della Corte, il Collegio rileva che, al cospetto di una motivazione del tutto congrua e priva di vizi di manifesta illogicità, che specificamente elenca (a pg. 8) gli elementi qualificanti della vicenda, appuntando a ciascuno la ragione della propria responsabilità partecipativa nell’ambito di una vicenda che ha visti coinvolti nello schema truffaldino diversi componenti della compagine familiare, il secondo motivo di appello si segnala per la sua genericità, in quanto solo apparentemente si presta a criticare la sentenza di secondo grado, limitandosi invece a riproporre le stesse censure sollevate in precedenza e motivatamente disattese (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009 Arnone Rv. 243838 – 01; Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013 COGNOME Rv. 255568 – 01; Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425 – 01).
3.2 Infine, manifestamente infondato è il terzo ed ultimo motivo di ricorso, che deduce l’apparenza della motivazione, a fronte di una motivazione sufficientemente articolata, sviluppata su due pagine, che fornisce un inquadramento complessivo della vicenda per poi concentrarsi sinteticamente su ciascuna posizione.
Si tratta di motivazione tutt’altro che apparente, incompleta e irragionevole dovendosi intendere per tale solo quella che «non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui si è fondata la decisione, mancando di specifici momenti esplicativi anche in relazione alle critiche pertinenti dedotte dalle parti» (Sez. 1, n. 4787 del 10/11/1993, Rv. 196361 -01), come, per esempio, nel caso di utilizzo di timbri o moduli a stampa (Sez. 1, n. 1831 del 22/04/1994, P.M. in proc. COGNOME, Rv. 197465-01; Sez. 1, n. 43433 dell’8/11/2005, Costa, Rv. 233270-01; Sez. 3, n. 20843 del 28/04/2011, S., Rv. 250482-01) o di ricorso a clausole di stile (Sez. 6, n. 7441 del 13/03/1992, P.c. in proc. COGNOME, Rv. 190883-01; Sez. 6, n. 25631 del 24/05/2012, P.M. in proc. COGNOME, Rv. 254161 – 01) e, più in generale, quando la motivazione dissimuli la totale mancanza di un vero e proprio esame critico degli elementi di fatto e di diritto su cui si fonda la decisione, o sia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidonea a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U., n. 25932 del 29/05/2008, lvanov, Rv. 239692 – 01; nello stesso senso anche Sez. 4, n. 43480 del 30/09/2014, COGNOME, Rv. 260314
a
All’inammissibilità dei ricorsi consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 21 novembre 2024 Il Consi iere relato GLYPH La Presidente