Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 23213 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 23213 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 12/03/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: NOME nato a PALERMO il 05/01/1970 NOME nato a SANTA NOME COGNOME VETERE il 10/10/1956
avverso la sentenza del 10/10/2024 della CORTE di APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo emettersi declaratoria di inammissibilità dei ricorsi;
sentito l’Avv. COGNOME per Mercadante, che ha concluso riportandosi ai motivi di ricorso e ai motivi aggiunti, chiedendo l’annullamento con o senza rinvio della sentenza impugnata;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa in data 10 ottobre 2024 la Corte d’Appello di Milano confermava la sentenza emessa il 2 ottobre 2023 dal Tribunale di Milano con la quale gli imputati NOME NOME e NOME NOME erano stati dichiarati
colpevoli del reato di truffa aggravata continuata in concorso e condannati alle pene di legge.
Ai due imputati, il COGNOME in qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE e il COGNOME in qualità di commercialista e intermediario nei contratti di accollo intervenuti, da una parte, fra la predetta società e la RAGIONE_SOCIALE, entrambe società accollanti, e, dall’altra, la RAGIONE_SOCIALE Abbiatense, società accollata, era stato contestato di avere indotto in errore il presidente e legale rappresentante della cooperativa in merito alla bontà dei crediti tributari delle accollanti – in realtà poi rivelatisi inesistenti utilizzati al fine di estinguere per compensazione i debiti fiscali della cooperativa, previo trasferimento dei medesimi debiti fiscali, mediante appositi contratti di accollo, in capo alle due società accollanti, il tutto dietro pagamento, da parte della cooperativa e in favore queste ultime, di un corrispettivo in denaro pari al 50% dei debiti tributari trasferiti.
Avverso detta sentenza proponevano ricorso per cassazione, con distinti atti, entrambi gli imputati, per il tramite dei rispettivi difensori, chiedendone l’annullamento.
La difesa di COGNOME COGNOME articolava quattro motivi di doglianza.
Con il primo motivo chiedeva dichiararsi la nullità della sentenza impugnata per inosservanza del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
Assumeva che l’imputazione non conteneva la descrizione della condotta addebitata al Nicosia e integrante gli artifizi o raggiri richiesti per perfezionamento del reato di truffa, essendo stato il ricorrente dichiarato colpevole per il mero fatto di aver ricoperto, per soli sedici giorni, la qualità di legale rappresentante di una delle due società che si erano accollate il debito tributario della cooperativa.
Evidenziava che nessun rapporto era emerso nel processo fra il Nicosia e COGNOME NOME, presidente e legale rappresentante della società cooperativa danneggiata e costituitasi parte civile, e che l’unico elemento concreto utilizzato dai giudici di merito a fondamento dell’espresso giudizio di responsabilità del ricorrente era costituito dall’avere quest’ultimo incassato parte delle somme versate dalla cooperativa alla società RAGIONE_SOCIALE a titolo corrispettivo per la cessione del proprio debito fiscale, condotta che in realtà si presentava del tutto distonica rispetto agli elementi costitutivi del contestato reato di truffa e che nella sostanza andava ad integrare un fatto diverso rispetto a quello descritto
nell’imputazione, rispetto al quale, pertanto, l’imputato non aveva potuto esercitare il proprio diritto di difesa.
Con il secondo motivo deduceva mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, vizi che risultavano dal raffronto fra il contenuto della sentenza impugnata e quello della sentenza con la quale il coimputato separatamente giudicato, COGNOME COGNOME, presidente del collegio sindacale e commercialista della società cooperativa danneggiata, era stato assolto dal medesimo reato di truffa per carenza dell’elemento soggettivo, essendo stata ritenuta configurabile, al più, un’ipotesi di colpa del COGNOME, per non avere lo stesso svolto con diligenza il proprio incarico, considerato che i crediti tributari delle due società accollanti, utilizzati per la compensazione e successivamente rivelatisi inesistenti in forza degli accertamenti svolti dall’ente impositore, erano stati certificati da professionisti del settore, i dottori COGNOME e COGNOME
Osservava la difesa che, a fronte delle medesime premesse in fatto, i giudici delle due sentenze – quella qui impugnata, di condanna del Nicosia, e quella di assoluzione del COGNOME che pure, a differenza del Nicosia, era un professionista del settore – avevano offerto valutazioni di segno opposto in punto di sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di truffa, discrasia che risultava ancora più evidente considerando che il Nicosia aveva sottoscritto il contratto di accollo relativo alla società RAGIONE_SOCIALE in data 5 luglio 2016, e dunque solo tre giorni dopo esser stato nominato legale rappresentante della detta società, dovendosi ragionevolmente ritenere, pertanto, che il ricorrente non avesse avuto neppure il tempo materiale di prendere cognizione in maniera adeguata delle scritture contabili della società.
Concludeva sul punto la difesa affermando che tali rilievi rendevano evidenti i dedotti vizi di contraddittorietà e illogicità della motivazione del provvedimento impugnato.
Con il terzo motivo deduceva erronea applicazione della legge penale nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, assumendo che al riguardo la Corte territoriale si era affidata a mere clausole di stile.
Con il quarto motivo deduceva i medesimi vizi oggetto del terzo motivo, con riguardo alla statuizione con la quale il concesso beneficio della sospensione condizionale della pena era stato subordinato al pagamento di una provvisionale di euro 50.000,00, assumendo che incongruamente la Corte d’Appello aveva fatto riferimento alla pendenza di un procedimento penale a carico del Nicosia, e inoltre
che la medesima Corte aveva omesso di valutare le condizioni economiche del ricorrente e, in conseguenza, la capacità di quest’ultimo di sopportare l’onere del pagamento risarcitorio, considerato che la commisurazione della misura della provvisionale doveva essere effettuata alla luce dei principi di proporzionalità e ragionevolezza.
La difesa di NOME NOME articolava tre motivi di doglianza.
Con il primo motivo deduceva mancanza di motivazione in relazione al primo motivo di appello formulato dall’imputato, con il quale era stata assunta la carenza dell’elemento oggettivo del contestato reato di truffa, nonché erronea applicazione dell’art. 640 cod. pen., in relazione alla ritenuta sussistenza della condotta del detto reato.
Assumeva, in particolare, che la Corte territoriale non aveva argomentato riguardo alla sussistenza degli artifizi e raggiri che il COGNOME avrebbe dovuto porre in essere per carpire la fiducia della vittima.
Deduceva che non era stato il COGNOME a proporsi alla società cooperativa danneggiata quale professionista intermediario in relazione ai due contratti di accollo finalizzati all’estinzione mediante compensazione dei debiti tributari della detta società, bensì lo stesso ricorrente era stato coinvolto dal presidente del collegio sindacale della cooperativa, COGNOME, e che in occasione di un incontro con quest’ultimo il COGNOME si era limitato ad illustrare il meccanismo sotteso all’istituto dell’accollo e le concrete modalità di compensazione dei debiti dell’accollata con i crediti delle società accollanti, nelle cui compagini il COGNOME non aveva mai ricoperto alcun incarico, essendo stato, il suo ruolo, limitato alla singola operazione di accollo descritta nell’imputazione.
Concludeva sul punto affermando che nel caso di specie la frode era stata commessa a monte, nel contesto della falsa dichiarazione attestante la sussistenza di crediti IVA delle due società accollanti, e non a valle, dal Mercadante, nel corso della procedura di compensazione.
Con il secondo motivo deduceva mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione, nonché travisamento della prova, in relazione al ritenuto contrasto fra quanto statuito in sentenza, da un lato, e il contenuto delle dichiarazioni testimoniali rese al dibattimento e dei documenti acquisiti, dall’altro, e ancora errata applicazione dell’art. 640 cod. pen. in relazione alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di truffa.
Assumeva, in particolare, che i giudici del merito non si erano confrontati con la tesi alternativa a quella accusatoria, sostenuta dalla difesa e ricavabile dal
materiale probatorio acquisito, tale da ingenerare un dubbio ragionevole in ordine alla responsabilità del COGNOME, tesi secondo la quale la frode era stata perpetrata a monte dalle società accollanti, che avevano prodotto una falsa dichiarazione IVA corredata dai prescritti visti di conformità rilasciati da professionisti accreditati.
Evidenziava, quanto al dedotto travisamento della prova, che la Corte d’Appello aveva dato conto del fatto che il teste COGNOME aveva affermato che il COGNOME aveva manifestato una conoscenza approfondita delle società proposte come accollanti e si era impegnato a gestire personalmente l’operazione di compensazione, dichiarazioni che in realtà il testimone non aveva reso in tali termini.
Assumeva che il COGNOME non aveva mai avuto alcun legame con le società accollanti, essendo stato un mero intermediario in relazione a una singola operazione, e che pertanto non aveva mai avuto consapevolezza del fatto che i crediti tributari delle medesime accollanti, da opporre in compensazione con debito ceduto dalla cooperativa, fossero in realtà inesistenti, circostanza che portava a escludere, in capo al ricorrente, l’elemento soggettivo del reato di truffa.
11. Con il terzo motivo deduceva mancanza della motivazione in relazione alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, nonché mancata assunzione di una prova decisiva, precisando che la difesa del COGNOME aveva chiesto alla Corte milanese, previa rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, l’acquisizione di una perizia, a firma del dr. COGNOME avente ad oggetto i crediti IVA delle società accollanti, richiesta che la stessa Corte, con la sentenza impugnata, aveva del tutto ignorato.
Assumeva che tale prova doveva essere considerata decisiva poiché la detta perizia era il documento sulla base del quale il COGNOME aveva ritenuto l’idoneità della detta operazione di compensazione.
12. Il 21 febbraio 2025 la difesa del COGNOME depositava motivi nuovi con i quali ribadiva le argomentazioni già dedotte in punto di carenza dell’elemento oggettivo e di quello oggettivo del reato di truffa, nonché di vizio della motivazione in relazione al contenuto della sentenza che, in altro procedimento, aveva assolto dal medesimo reato il coimputato COGNOME Maurizio; il 7 marzo 2025 la difesa di COGNOME depositava note di udienza con le quali deduceva che il reato era estinto per intervenuta prescrizione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse del Nicosia è inammissibile in quanto aspecifico, poiché non si confronta con le argomentazioni rese dal giudice di appello.
Va evidenziato in premessa come le doglianze rassegnate con il motivo in trattazione reiterino, più o meno pedissequamente, censure già dedotte in appello; le stesse, inoltre, in più di una parte, palesano elementi di genericità (spesso in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute nella sentenza impugnata e/o a risultanze probatorie in ipotesi non valutate o mal valutate) rivelando la loro manifesta infondatezza, in considerazione dei rilievi con i quali la Corte territoriale – con argomentazioni giuridicamente corrette, nonché esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede – ha motivato le contestate statuizioni. D’altro canto, questa Suprema Corte, con orientamento (Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009, P.C. in proc. COGNOME, Rv. 243636) che il Collegio condivide e ribadisce, ha ritenuto che, in presenza di una c.d. “doppia conforme”, ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l’affermazione di responsabilità), il vizio di travisamento della prova possa essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato sia stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado. Invero, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del “devolutum” con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice”). Nel caso di specie, al contrario, la Corte di appello ha riesaminato e valorizzato lo stesso compendio probatorio già sottoposto al vaglio del Tribunale e, dopo avere preso atto delle censure degli appellanti, è giunta alla medesima conclusione in termini di sussistenza della responsabilità degli imputati che, in concreto, nella sostanziale reiterazione delle censure, Corte di Cassazione – copia non ufficiale
finiscono per riproporre – in chiave innocentista – la loro diversa “lettura” delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti degli elementi probatori valorizzati.
In particolare, la Corte d’Appello ha evidenziato che la truffa era stata contestata al Nicosia a titolo concorsuale e che era pure stato contestato lo specifico ruolo che l’imputato aveva avuto nel raggiro, circostanze “perfettamente note all’appellante, emergenti dagli atti di indagine e dall’istruttoria dibattimentale, sulle quali la difesa ha potuto spiegare appieno tutte le sue prerogative” (v. pag. 6 della sentenza impugnata).
Ha GLYPH quindi GLYPH opportunamente GLYPH richiamato, GLYPH in GLYPH tema, Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051 – 01, secondo cui, in tema di GLYPH correlazione GLYPH tra GLYPH imputazione GLYPH contestata GLYPH e GLYPH sentenza, GLYPH per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione. (Fattispecie relativa a contestazione del delitto di bancarotta post-fallimentare qualificato dalla S.C. come bancarotta prefallimentare).
La Corte territoriale ha anche evidenziato che il Nicosia aveva percepito personalmente, senza mai restituirle, parte delle somme versate dalla cooperativa quale corrispettivo della compensazione fiscale, considerando tale elemento non quale condotta eventualmente da addebitare al ricorrente in alternativa a quella di truffa descritta nell’imputazione, bensì semplicemente quale elemento di prova rilevante con riferimento alla condotta di concorso nel reato di truffa contestata al Nicosia.
Con tali argomentazioni il ricorso non si confronta.
Il secondo motivo è manifestamente infondato e pertanto inammissibile.
Il vizio di motivazione deve risultare dal testo della sentenza impugnata ovvero dal raffronto della stessa con altri atti del procedimento specificamente
indicati, e non dal raffronto con un atto (nella specie una sentenza) reso in un diverso procedimento.
La Corte d’Appello ha, peraltro, motivato in maniera adeguata la statuizione di responsabilità del Nicosia, richiamando congruamente gli elementi ritenuti rilevanti in proposito, quali il fatto che il ricorrente, in qualità di amministrato di una delle due società accollanti, aveva l’obbligo e il potere di verificare la correttezza delle scritture contabili, considerando anche che la falsità dei crediti utilizzati per la compensazione era emersa all’ente impositore in ragione dell’esistenza di un debito IVA già oggetto di accertamento definitivo, nonché in ragione della mancata presentazione del modello Unico e del modello Irap, a fronte di un credito Ires e Irap dedotto dalla società (v. pag. 6 della sentenza impugnata), tutte circostanze ben conoscibili dall’amministratore con un esame delle scritture contabili; ciò a fronte del rilievo difensivo secondo il quale il Nicosia avrebbe e verificato la correttezza dei contratti di accollo, affermazione che ad avviso della Corte d’Appello in realtà rafforza la tesi della consapevolezza in capo al ricorrente della frode perpetrata; la Corte territoriale richiama anche l’ulteriore elemento costituito dalla condotta del Nicosia, che si è appropriato personalmente di parte del corrispettivo versato dalla cooperativa in relazione all’operazione di accollo e compensazione dei debiti tributari, e conclusivamente trae non illogiche conseguenze da tali elementi, puntualmente rassegnati.
Anche il terzo motivo è manifestamente infondato e pertanto inammissibile.
Ed invero, la Corte d’Appello ha reso una motivazione immune da vizi in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, evidenziando l’assenza di elementi – quali moti di resipiscenza o intenti riparatori – da valutarsi positivamente per l’imputato, nonché la gravità del fatto.
Deve peraltro osservarsi che il ricorrente, in sede di giudizio di appello, ha chiesto l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche senza addurre alcuna argomentazione a supporto.
Deve, pertanto, farsi applicazione del principio secondo il quale, in tema di determinazione del trattamento sanzionatorio, nel caso in cui la richiesta dell’imputato di riconoscimento delle attenuanti generiche non specifica le circostanze di fatto che fondano l’istanza, l’onere di motivazione del diniego dell’attenuante è soddisfatto con il mero richiamo da parte del giudice alla assenza di elementi positivi che possono giustificare la
concessione del beneficio (cfr. Sez. 3, n. 54179 del 17/07/2018, Cardia, Rv. 275440 – 01).
È inammissibile anche il quarto motivo, avente ad oggetto la statuizione relativa alla subordinazione del beneficio della sospensione condizionale della pena al pagamento della provvisionale di euro 50.000,00, considerato che la doglianza non è stata dedotta con l’atto di appello, con conseguente interruzione della catena devolutiva (cfr., in tema, Sez. 2, n. 26721 del 26/04/2023, COGNOME, Rv. 284768 – 02, secondo cui non possono essere sollevate davanti al giudice di legittimità questioni sulle quali il giudice di appello non si si pronunciato, perché non devolute alla sua cognizione; in particolare la Corte, in una fattispecie relativa a recidiva erroneamente applicata dai giudici di merito, per essersi i reati oggetto delle precedenti sentenze estinti ai sensi dell’art. 445 cod. proc. pen., ha ritenuto che non può dedursi per la prima volta con il ricorso per cassazione la mancanza dei presupposti per la contestazione della recidiva, quando, in fase di appello, sia stato proposto un motivo incentrato unicamente sulla valutazione dei precedenti penali e sulla loro valenza quali indici di maggiore pericolosità).
Il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse del COGNOME, con il quale si deduce mancanza di motivazione e violazione dell’art. 640 cod. pen. in relazione alla ritenuta sussistenza degli artifizi e raggiri integranti l’elemento oggettivo del reato di truffa, è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
Deve, invero, osservarsi che la sentenza impugnata contiene una puntuale descrizione degli artifizi e raggiri posti in essere dal COGNOME e precisa congruamente che costui era stato non solo il mediatore ma anche il promotore dell’affare, in particolare provvedendo a individuare le due società accollanti, oltre che, e soprattutto, come precisato dal teste COGNOME (v. pag. 7 della sentenza impugnata), anche ulteriori società in relazione ad altre operazioni similari – in tal modo mostrando di essere stato il dominus dell’operazione truffaldina, e non un mero intermediario -, e inoltre si era occupato in prima persona dell’operazione di compensazione dei debiti della cooperativa con i crediti, rivelatisi inesistenti, delle due società da egli stesso individuate, tutte circostanze evidenziate nella sentenza impugnata e dalle quali la Corte d’Appello trae conseguenze del tutto logiche in punto di sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato di truffa.
Il secondo motivo, con il quale si deduce vizio di motivazione e travisamento della prova, è del pari inammissibile.
In tema di motivi di ricorso per cassazione, a seguito della modifica apportata all’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen. dall’art. 8, comma primo, della legge n. 46 del 2006, il legislatore ha esteso l’ambito della deducibilità del vizio di motivazione anche ad altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame, così introducendo il travisamento della prova quale ulteriore criterio di valutazione della contradditorietà estrinseca della motivazione il cui esame nel giudizio di legittimità deve riguardare uno o più specifici atti del giudizio, non il fatto nella sua interezza (Sez. 3, n. 38341 del 31/01/2018, Ndoja, Rv. 273911).
L’errore nel quale cade il ricorrente è quello di estraniarsi completamente dal fatto così come descritto nella sentenza impugnata e di proporne uno completamente diverso, attingendo a piene mani al materiale istruttorio che, solo a parole, eccepisce come travisato.
Si è detto, che la valutazione sulla natura dolosa del comportamento posto a base della statuizione di responsabilità può essere scrutinata in sede di legittimità, negli angusti limiti imposti dall’art. 606 cod. proc. pen.
Occorre sul punto richiamare l’insegnamento costante della Corte secondo il quale: a) l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile “ictu ocu/i”, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, COGNOME, Rv. 214794); b) la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicché dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205621), sicché una volta che il giudice abbia coordinato
logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano a una diversa lettura o interpretazione, munite di eguale crisma di logicità (Sez. U, n. 30 del 27/09/1995, COGNOME, Rv. 202903); c) il travisamento della prova è configurabile solo quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia; il relativo vizio ha natura decisiva solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, COGNOME, Rv. 258774; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499).
Il travisamento della prova, è necessario ribadirlo, consiste in un errore percettivo (e non valutativo) della prova stessa tale da minare alle fondamenta il ragionamento del giudice ed il sillogismo che ad esso presiede. In particolare, consiste nell’affermare come esistenti fatti certamente non esistenti ovvero come inesistenti fatti certamente esistenti. Il travisamento della prova rende la motivazione insanabilmente contraddittoria con le premesse fattuali del ragionamento così come illustrate nel provvedimento impugnato, una diversità tale da non reggere all’urto del contro-giudizio logico sulla tenuta del sillogismo. Il travisamento è perciò decisivo quando la frattura logica tra la premessa fattuale del ragionamento e la conclusione che ne viene tratta è irreparabile. Come ribadito da Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, non mass. sul punto, il travisamento della prova sussiste quando emerge che la sua lettura sia affetta da errore “revocatorio”, per omissione, invenzione o falsificazione. In questo caso, difatti, la difformità cade sul significante (sul documento) e non sul significato (sul documentato).
Sul punto si rendono necessarie le seguenti ulteriori precisazioni.
Il “travisamento del fatto” (e non della prova) era tradizionalmente inteso quale vizio logico che aveva ad oggetto la ricostruzione dei fatti insanabilmente in contrasto con la realtà indiscussa od almeno manifesta nel processo (Sez. 2, n. 1195 del 01/07/1965, dep. 1967, Wobbe, Rv. 103172), quando cioè la pronuncia fosse emanata sul presupposto dell’esistenza o inesistenza di fatti, che invece dagli atti risultino, di certo, inesistenti o esistenti, con esclusione del momento valutativo della prova (Sez. 1, n. 86 del 25/01/1966, COGNOME, Rv.101207). Il nuovo codice di rito ha voluto mantenere «il sindacato sul piano della legittimità, evitando gli eccessi (…) che hanno talvolta dato luogo a invasioni da parte del giudice di legittimità dell’area in giudizio riservata al giudice
di merito» (Relazione al progetto del codice di procedura penale). L’iniziale formulazione dell’art. 606, lett. e), era perciò chiaramente finalizzata a evitare che il giudizio di legittimità si trasformasse, di fatto, in un’ulteriore grado d giudizio di merito, vietando qualsiasi incursione nel materiale raccolto nelle precedenti fasi di merito ed imponendo come oggetto di valutazione della logicità, congruità e coerenza della sentenza esclusivamente il testo della motivazione. Coerentemente, la giurisprudenza di legittimità aveva affermato il principio per il quale il travisamento del fatto intanto poteva essere oggetto di valutazione e di sindacato in sede di legittimità, in quanto risultasse inquadrabile nelle ipotesi tassativamente previste dall’art. 606, lett. e), cod. proc. pen.; l’accertamento di esso richiedeva, pertanto, la dimostrazione, da parte del ricorrente, dell’avvenuta rappresentazione, al giudice della precedente fase di impugnazione, degli elementi dai quali quest’ultimo avrebbe dovuto rilevare il detto travisamento, sicché la Corte di cassazione potesse, a sua volta, desumere dal testo del provvedimento impugnato se e come quegli elementi fossero stati valutati (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME e altri, Rv. 207945; nello stesso senso, Sez. 4, n. 31064 del 02/07/2002, P.O. in proc. Min. Tesoro, Rv. 222217). L’art. 8, comma 1, legge n. 46 del 2006, ha esteso l’ambito della deducibilità del vizio di motivazione anche ad “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”. Il legislatore ha così introdotto il “travisamento della prova” (e non del fatto) quale ulteriore criterio di giudizio della contraddittorietà estrinseca della motivazione ma ciò non muta, alla luce delle considerazioni che precedono, la natura dell’indagine di legittimità il cui oggetto resta la motivazione del provvedimento impugnato, l’esame della cui illogicità non può mai trasmodare in un inammissibile e rinnovato esame dell’intero compendio probatorio già utilizzato dal giudice di merito per giungere alle sue conclusioni. Il travisamento, insomma, deve riguardate uno o più specifici atti del processo, non il fatto nella sua interezza. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Ne consegue che: a) il vizio di motivazione non può essere utilizzato per spingere l’indagine di legittimità oltre il testo del provvedimento impugnato, nemmeno quando ciò sia strumentale a una diversa ricomposizione del quadro probatorio che, secondo gli auspici del ricorrente, possa condurre il fatto fuori dalla fattispecie incriminatrice applicata; b) l’esame può avere ad oggetto direttamente la prova solo quando se ne denunci il travisamento, purché l’atto processuale che la incorpora sia allegato al ricorso (o ne sia integralmente trascritto il contenuto) e possa scardinare la logica del provvedimento creando
una insanabile frattura tra il giudizio e le sue basi fattuali; c) la natura manifesta della illogicità della motivazione del provvedimento impugnato costituisce un limite al sindacato di legittimità che impedisce alla Corte di cassazione di sostituire la propria logica a quella del giudice di merito e di avallare, dunque, ricostruzioni alternative del medesimo fatto, ancorché altrettanto ragionevoli.
Non è dunque consentito, in sede di legittimità, proporre un’interlocuzione diretta con la Suprema Corte in ordine al contenuto delle prove già ampiamente scrutinate in sede di merito sollecitandone l’esame e proponendole quale criterio di valutazione della illogicità manifesta della motivazione; in questo modo si sollecita la Corte di cassazione a sovrapporre la propria valutazione a quella dei Giudici di merito laddove, come detto, ciò non è consentito, nemmeno quando venga eccepito il travisamento della prova. Il travisamento non costituisce il mezzo per valutare nel merito la prova, bensì lo strumento – come detto – per saggiare la tenuta della motivazione alla luce della sua coerenza logica con i fatti sulla base dei quali si fonda il ragionamento.
E’ agevole allora notare, dal confronto tra i motivi di ricorso e la motivazione della sentenza impugnata, che il ricorrente eccepisce il travisamento del fatto perché attinge a piene mani all’intero compendio probatorio onde dimostrare, in base ad una sua diversa valutazione, sollecitata mediante l’eccepito vizio di motivazione, che egli aveva tenuto un comportamento radicalmente diverso da quello descritto nel provvedimento impugnato. La necessità di sostenere l’eccezione di manifesta illogicità della motivazione offrendo alla Corte di cassazione un fatto diverso da quello descritto denota la debolezza dell’argomentazione difensiva che implicitamente riconosce che il fatto posto dal giudice della riparazione a fondamento della impugnata decisione esclude la natura manifestamente illogica delle conclusioni alle quali è pervenuta la Corte di appello. Si aggiunga, a chiusura della illustrazione delle ragioni della inammissibilità del motivo in trattazione, che non sono stati nemmeno allegati gli atti in tesi travisati.
In conclusione: a) la Corte di appello ha ritenuto la responsabilità del ricorrente in ragione della valutazione delle prove assunte; b) la motivazione non è, sul punto, manifestamente illogica; c) il ricorrente propone un fatto diverso da quello descritto, estraneo al testo del provvedimento impugnato, affermando che la frode sarebbe stata perpetrata non a valle dal Mercadante, bensì a monte dalle società accollanti, che avrebbero prodotto una falsa dichiarazione IVA corredata dai prescritti visti di conformità rilasciati da professionisti accreditati.
Peraltro il motivo presenta anche profili di genericità, essendo dedotto il travisamento della prova in ragione del ritenuto contrasto fra la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di truffa e il contenuto delle dichiarazioni testimoniali rese al dibattimento e dei documenti acquisiti senza l’indicazione delle prove che si assumono travisate e degli esatti termini di tale contrasto (la difesa ha, in particolare, richiamato le dichiarazioni del teste COGNOME aventi ad oggetto i rapporti fra il COGNOME e le società accollanti, affermando in maniera del tutto generica e apodittica che le stesse sarebbero state riportate non negli esatti termini nei quali erano state rese).
A fronte di ciò la Corte d’Appello ha riportato il contenuto delle prove testimoniali poste a base della decisione, richiamando ampi stralci della trascrizione delle deposizioni e traendo da tali elementi congrue conseguenze, in particolare ritenendo che il COGNOME fosse il dominus dell’operazione truffaldina, e non, come sostenuto dalla difesa, un mero intermediario occasionale contattato da altri per occuparsi dell’affare.
È inammissibile anche il terzo motivo, dovendosi evidenziare che Corte d’Appello, a pag. 9 della sentenza impugnata, ha dato atto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale avanzata dalla difesa del Nicosia, ritenendola inammissibile in quanto avanzata in maniera ipotetica e avente ad oggetto l’acquisizione di documenti già presenti nel fascicolo processuale. In realtà, ad onta dell’imprecisione del riferimento, deve ritenersi che tale giudizio di inammissibilità riguardi anche la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale avanzata dalla difesa del COGNOME, poiché questa presentava le medesime caratteristiche di quella avanzata nell’interesse del Nicosia in quanto, pur indicando specifici atti, ne chiedeva l’acquisizione qualora non fossero già presenti nel fascicolo, richiesta all’evidenza anch’essa formulata in via meramente ipotetica, che risulta aver avuto riguardo ad atti già presenti nel fascicolo processuale, con richiesta quindi non riconducibile alla rinnovazione ex art. 603 cod. proc. pen..
Quanto, infine, alla dedotta prescrizione del reato, si deve premettere che la determinazione del termine di prescrizione del reato va effettuata secondo il calendario comune con decorrenza dal giorno successivo al verificarsi del fatto e senza tenere conto dei giorni effettivi di cui è composto l’anno o il mese (v., in tal senso, Sez. 5, n. 21947 del 06/05/2010, COGNOME, Rv. 247413 – 01).
Si deve altresì premettere che il decorso del termine di prescrizione inizia, per i reati consumati, dal giorno in cui si è esaurita la condotta illecita e, quindi, i
computo incomincia con le ore zero del giorno successivo a quello in cui si è manifestata compiutamente la previsione criminosa e termina alle ore ventiquattro del giorno finale calcolato secondo il calendario comune (cfr., Sez. 6, n. 4698 del 16/03/1998, COGNOME, Rv. 211066; Sez. 3, n. 23259 del 29/04/2015, COGNOME, Rv. 263650).
Evidenzia il Collegio come, nella fattispecie, a fronte di una condotta consumata il 12 luglio 2017, applicando – per il reato ritenuto – il termine ordinario di prescrizione (comprensivo della durata massima per gli intervenuti eventi interruttivi) pari ad anni sette e mesi sei, a cui si aggiungono i sessantuno giorni complessivi (sessanta giorni, più la durata dell’impedimento, giusta la previsione dell’art. 159, comma primo, n. 3 cod. pen., nel testo introdotto dall’art. 6 della I. n. 251 del 2005: Sez. U, n. 4909 del 18/12/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 262913) per il differimento disposto (rinvio udienza del 26 giugno 2023 al 18 settembre 2023 per legittimo impedimento di uno dei difensori), è possibile pervenire alla data “finale” di compimento della prescrizione alla data del 14 marzo 2025, successiva alla definizione del giudizio di appello (la sentenza impugnata è datata 10 ottobre 2024).
L’inammissibilità del ricorso per cassazione, che non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione, preclude la possibilità di rilevare e dichiarare la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso. (Sez. U, n.32 del 22/11/2000, D. L., RV. 217266; n.33542 del 27/06/2001, COGNOME, RV 219531; n.23428 del 22/03/2005, COGNOME, RV. 231164; n.12602 del 17/12/2015, dep. 2016, COGNOME, RV. 266818).
Di qui la manifesta infondatezza del motivo in trattazione.
Alla stregua di tali rilievi i ricorsi devono, dunque, essere dichiarati inammissibili; i ricorrenti devono, pertanto, essere condannati, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento. In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, deve, altresì, disporsi che i ricorrenti versino, ciascuno, la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spe processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della cassa dell
ammende.
Così deciso il 12/03/2025