Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 46031 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 46031 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 07/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME nato a RAVENNA il 03/03/1971
avverso l’ordinanza del 23/05/2024 del TRIBUNALE RIESAME di RAVENNA
visti gli atti e letto il ricorso dell’Avv. NOME COGNOME udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del P.G. NOME COGNOME (inammissibilità)
Ricorso trattato con contraddittorio scritto ai sensi dell’art. 23, comma 8, D.L. n.137/2020 e successivo art. 8 D.L. 198/2022, conv. con modif. I. n. 14/2023.
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
NOME LucaCOGNOME a mezzo del difensore di fiducia, ricorre per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale di Ravenna del 21/05/2024, con cui è stata rigettata la richiesta di riesame proposta nei confronti del provvedimento di convalida parziale del sequestro preventivo effettuato dalla G.d.F. su disposizione del pubblico ministero e relativo a diverse società, compendi aziendali e liquidità ivi specificate.
Il provvedimento di cautela reale risulta disposto, ai sensi dell’art. 321, comnna 1 e 2, cod. proc. pen., ovvero quale sequestro impeditivo per quanto relativo alle aziende utilizzate dal ricorrente e gli altri indagati per commettere i delitti in contestazione e percepirne gli indebiti profitti (associazione per delinquere, truffa, riciclaggio ed emissione di fatture per operazioni inesistenti) e quale sequestro finalizzato alla confisca dei proventi illeciti in questione.
La difesa del ricorrente affida le sue censure ad un unico motivo, con cui deduce “la contraddittorietà della motivazione in ordine alla sussistenza dei requisiti del decreto di convalida del GIP oggetto di riesame”.
In particolare, le cesure attengono sia alla sussistenza del fumus delicti, che si sostiene fondato su una mera condivisione di quanto “postulato” dal pubblico ministero in ordine all’esistenza del reato, sia sull’erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 321 cod. proc. pen., sia del periculum in mora con riguardo al presupposto d’urgenza costituito dalla reiterazione del reato, da escludersi a fronte del fatto che la prima perquisizione disposta dagli inquirenti risaliva ad oltre un anno addietro.
Con requisitoria del 17 ottobre 2024, il Pubblico ministero – nella persona del sostituto P.G. NOME COGNOME – ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Tanto premesso, il ricorso è inammissibile.
La prima censura in ordine al fumus delicti è del tutto generica non confrontandosi il ricorrente con la diffusa motivazione resa sul punto dal Tribunale del riesame, a prescindere dall’ulteriore decisivo rilievo che in sede di ricorso per cassazione avverso provvedimenti emessi in materia reale non è consentito, a norma dell’art. 325, comma 1, cod. proc. pen., dedurre vizi di motivazione.
Dalla lettura dell’ordinanza impugnata risulta che il Tribunale del riesame ha dato diffusamente conto della valenza degli elementi di prova che sono state posti a fondamento del fumus delicti (informative della G.d.F., intercettazioni telefoniche, esito delle perquisizioni e dei sequestri effettuati presso le società e gli indagati, contenuto della documentazione sequestrata, denunzie-querele delle
persone offese, ecc.) – tanto che l’assunto accusatorio relativo alla sussistenza di un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei diversi reati fine costituiva l’oggetto di una precedente ordinanza di custodia cautelare coercitiva emessa, anche nei confronti del ricorrente, dal Gip del Tribunale di Ravenna del 4/12/2013, successivamente confermata dal Tribunale del riesame e in relazione alla quale si è formato il giudicato cautelare – evidenziando le condotte illecite riferibili a ciascun indagato e, specificamente al ricorrente, additato di essere il promotore e dominus del sodalizio criminoso, la cui operatività fa leva sulla società da costui legalmente rappresentata, sui cui conti correnti finivano per confluire attraverso un sofisticato meccanismo che prevedeva l’opera di terze società compiacenti che emettevano fatture per operazioni inesistenti – gli illeciti versamenti che le persone offese dei reati di truffa avevano effettuato nella convinzione di partecipare a procedure volte ad ottenere finanziamenti europei (v. pagg. 3-7 con riguardo al meccanismo fraudolento e al primario ruolo assunto dalla società del ricorrente; vedi pagg. 7 e 9 con riguardo al diretto e consapevole coinvolgimento del ricorrente).
La seconda censura in punto di periculum in mora è inammissibile sotto diversi profili.
Anzitutto per carenza di interesse, in quanto il ricorrente censura soltanto la valenza impeditiva del sequestro preventivo, mentre il vincolo reale risulta disposto, per come precisato dall’ordinanza impugnata, anche ai sensi dell’art. 321, comma 2, cod. proc. pen. ai fini di confisca dei proventi illeciti dei reati contestati. Tanto basterebbe a ritenere esaurito, in questa sede, il relativo tema, in quanto dall’eventuale accoglimento del motivo spiegato in ordine al periculum non sortirebbero effetti favorevoli al ricorrente.
Riguardo, poi, alla valenza impeditiva del sequestro, la doglianza risulta reiterativa di quella proposta in sede di riesame e, comunque, volta a censurare la motivazione del provvedimento a fronte di impugnazione consentita soltanto per violazione di legge.
Né può ritenersi che l’ordinanza impugnata sia corredata da motivazione mancante o apparente, avendo il Tribunale del riesame, per un verso, indicato le ragioni, dovute ad esigenze investigative, a cui si deve l’emissione del provvedimento cautelare in epoca successiva alle prime perquisizioni e, per altro, gli elementi da cui ha ricavato la persistenza del pericolo di aggravamento e/o reiterazione dei reati connessi alla disponibilità del compendio sequestrato, da ravvisarsi anche in epoca successiva all’arresto dell’indagato, stante la particolare gravità dei reati per cui si procede, a carattere organizzato e diffuso, nonché per
il ruolo centrale svolto dal ricorrente, il quale è indicato come “non affatto nuovo alla consumazione di reati consimili” (v. pag. 9 e 10).
All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa per le ammende, così determinata in ragione dei profili di inammissibilità rilevati (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Motivazione semplificata.
Così deciso, il 7 novembre 2024.