Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 22342 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 22342 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 29/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME nato a BARI il 16/10/1960
avverso la sentenza del 27/09/2024 della CORTE APPELLO di POTENZA
lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME la quale visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME ha chiesto dichiararsi il ricorso inammissibile.
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Ritenuto in fatto
Con sentenza del 27 settembre 2024, la Corte d’appello di Potenza ha confermato, per quanto rileva in questa sede, la decisione di primo grado, che ha ritenuto NOME COGNOME responsabile del concorso nel delitto di cui agli artt. 56, 624 e 625, primo comma, nn. 2, 5 e ult. c., cod. pen., condannandolo alla pena ritenuta di giustizia.
Avverso la sentenza, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del proprio difensore, Avv. NOME COGNOME affidando le proprie censure ai motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, si duole di violazione di legge e vizio di motivazione, per avere la Corte d’appello omesso di replicare alle censure relative 1) alla mancanza, nell’atto di querela, dell’istanza di punizione e 2) alla dedotta prescrizione del reato. Si contesta, inoltre, l’utilizzo delle intercettazioni acquisite, che non consentivano di affermare la responsabilità dell’imputato per l’ascritto delitto.
2.2. Col secondo motivo, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione, per avere la Corte d’appello omesso di replicare alle censure relative 1) alla recidiva, senza il cui riconoscimento il reato sarebbe risultato prescritto e 2) alla denegata massima estensione delle circostanze attenuanti generiche.
Sono pervenute le conclusioni del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME la quale ha chiesto dichiararsi il ricorso inammissibile, in quanto aspecifico.
Considerato in diritto
Il ricorso è inammissibile, per le ragioni di seguito indicate.
Il primo motivo è inammissibile, in primo luogo perché pone questioni non dedotte in appello. Ciò vale per il profilo della responsabilità per l’ascritto delitto e per l’utilizzo delle intercettazioni: come risulta anche dalla sintesi (incontestata, su tale aspetto) dei motivi d’appello, il ricorrente non aveva mosso alcuna censura nel merito alla sentenza di primo grado, limitandosi a invocare, in quella sede, un trattamento sanzionatorio più mite (contestando, in particolare, la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e la ritenuta recidiva, con conseguente rideterminazione del trattamento sanzionatorio nei minimi edittali). La questione dedotta col presente ricorso, invece, involge profili di merito e, dunque, attinenti all’uso della discrezionalità del giudice e non può essere dedotta
per la prima volta nel giudizio di legittimità, stante il combinato disposto degli artt. 606, comma 3, e 609, comma 2, cod. proc. pen.
L’inammissibilità del motivo coinvolge anche la doglianza relativa all’asserita mancanza di condizione di procedibilità: diversamente da quanto ritenuto in ricorso, la volontà punitiva emerge a chiare lettere dal verbale di denuncia orale, presentata dalla persona offesa in data 26 agosto 2016, in cui la stessa chiedeva “espressamente la punizione del colpevole per i reati ravvisabili nella presente denuncia” (tra le altre, v. Sez. 5, n. 18267 del 29/01/2019, COGNOME, Rv. 275912 – 01: «la sollecitazione rivolta all’autorità giudiziaria di “voler prendere provvedimenti al più presto” contenuta nell’integrazione di una precedente denuncia, costituendo manifestazione della volontà di punizione dell’autore del reato, conferisce all’atto valore di querela»). In quella sede, la persona offesa preannunciava, inoltre, l’intenzione di “costituirsi parte civile per il risarcimento del danno subito” (cfr., a tal riguardo, Sez. 2, n. 5193 del 05/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 277801 – 01: «in tema di reati perseguibili a querela, la sussistenza della volontà di punizione da parte della persona offesa non richiede formule particolari e, pertanto, può essere riconosciuta dal giudice anche in atti che non contengono la sua esplicita manifestazione, i quali, ove emergano situazioni di incertezza, vanno, comunque, interpretati alla luce del “favor querelae”; ne consegue che la dichiarazione con la quale la persona offesa, all’atto della denuncia, si costituisce o si riserva di costituirsi parte civile deve essere qualificata come valida manifestazione del diritto di querela»).
Neppure appariva dedotta, in appello, la richiesta di dichiarare prescritto il reato contestato, almeno non nei termini in cui il ricorrente pone la questione in questa sede. Dalla sintesi, corretta, dei motivi d’appello, risulta infatti che le eccezioni sollevate riguardavano unicamente il trattamento sanzionatorio, secondo quanto già esposto. In disparte ciò, si osserva che la ritenuta recidiva specifica e reiterata non avrebbe consentito al giudice di merito di pronunciare l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione (v. in fra, sub 3).
Il secondo motivo è, del pari, inammissibile, in quanto aspecifico ed elusivo di un confronto, critico ed effettivo, con la motivazione (sulla mancanza di specificità del motivo per mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, v., ex plurimis, Sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, COGNOME, Rv. 260608 – 01).
Nel motivare il diniego delle invocate circostanze, infatti, la Corte d’appello ha compiutamente replicato alle eccezioni difensive, chiarendo, per un verso, i motivi per cui si era ritenuto di non poter valorizzare appieno la condotta collaborativa dell’imputato in sede processuale (quest’ultimo, pur ammettendo la
propria responsabilità, come indicato dal giudice di primo grado, non aveva consentito l’identificazione dei complici, dichiarando di non conoscerli in quanto “d’origine albanese”) e, per altro verso, rimarcando l’assenza di condotte riparatorie, oltre alla ritenuta gravità del fatto.
Pertanto, non trova riscontro la doglianza difensiva tesa a stigmatizzare la decisione impugnata per aver evidenziato unicamente l’esistenza di numerosi precedenti penali, profilo, quest’ultimo, che costituisce, invero, soltanto uno degli aspetti valutati dalla Corte d’appello (sul principio secondo cui, nel render ragione del diniego della concessione delle attenuanti generiche, è sufficiente che il giudice di merito faccia riferimento agli elementi ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione, v. Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, COGNOME, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244).
Fatto salvo quanto appena indicato circa l’adeguatezza della motivazione sul diniego delle circostanze di cui all’art. 62 bis cod. pen., si evidenzia l’assoluta genericità della doglianza in tema di recidiva, che, in sede d’appello, si era richiesto, in termini egualmente aspecifici e immotivati, di escludere (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 268822-01: «l’appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato»).
Il ricorrente non può, quindi, dolersi del fatto che la Corte distrettuale non abbia espresso dettagliate ragioni in merito alla ritenuta recidiva specifica e reiterata (che risulta, comunque, dal casellario giudiziale, con condanne per furto aggravato nel 2000, 2001 e 2009; dopo il tempo dell’ascritto delitto, risultano, inoltre, condanne per furto aggravato nel 2019). In ogni caso, si osserva che il termine prescrizionale del reato ascritto, considerate le sospensioni e la recidiva reiterata e specifica, è destinato a spirare oltre il 2030.
Per le ragioni illustrate, il Collegio dichiara il ricorso inammissibile. Alla pronuncia di inammissibilità consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuale e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 29/05/2025
Il consigliere estensore