Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 8088 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 8088 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 28/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a NAPOLI il 15/09/1953 avverso la sentenza del 04/12/2023 della CORTE di APPELLO di NAPOLI visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo emettersi declaratoria di inammissibilità del ricorso;
udito l’Avv. NOME COGNOME che ha concluso per le parti civili COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME COGNOME NOME, Associazione Confimpreseitalia Napoli Area metropolitana di Napoli e Fondazione San Giuseppe RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, che ha concluso riportandosi alle conclusioni scritte e alle note spese depositate in udienza.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa il 4 dicembre 2023 la Corte d’Appello di Napoli confermava la sentenza emessa in data 16 gennaio 2020 dal Tribunale di Napoli,
con la quale l’imputato era stato dichiarato colpevole dei reati di usura di cui ai capi A) e 3) dell’imputazione.
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, per iI tramite del suo difensore, chiedendone l’annullamento e articolando sei motivi di doglianza.
Con il primo motivo deduceva inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, mancata assunzione di una prova decisiva e vizio di motivazione in relazione agli artt. 604, 592, comma 2, 495, 511 e 515 cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 191 e 526 cod. proc. pen.
Assumeva, in particolare, che la documentazione fatta oggetto di sequestro ex art. 253 cod. proc. pen. in data 19 novembre 2014 era inutilizzabile poiché il sequestro medesimo era stato dichiarato inefficace con ordinanza resa nel gennaio 2015 dal Tribunale per il riesame, e, per altro verso, che le dichiarazioni rese dal testimone di polizia giudiziaria COGNOME non potevano essere utilizzate attraverso la lettura, ex art. 511 cod. proc. pen, senza procedere all’esame dello stesso davanti al Collegio in nuova composizione, stante l’opposizione formulata all’udienza del 19 febbraio 2019 dalla difesa all’utilizzabilità degli atti istruttor compiuti davanti al Collegio diversamente composto.
Osservava che entrambe le prove erano state utilizzate dal giudice del merito ai fini della decisione.
Con il secondo motivo deduceva inosservanza o erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione in relazione agli artt. 531 cod. proc. pen. e 157, 644 e 644-ter cod. pen.
Assumeva in particolare che i due reati per i quali era intervenuta statuizione di responsabilità erano ormai estinti per prescrizione, considerato che le condotte delittuose erano state commesse in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge 5 dicembre 2005 n. 251, che aveva innalzato i limiti edittali della pena prevista per il reato di usura e, nel contempo, aveva modificato l’art. 157 cod. pen. in tema di computo dei termini di prescrizione.
Precisava che il termine di prescrizione del reato di cui al capo A) doveva essere calcolato a far data dal mese di ottobre 2005, periodo dell’ultima
riscossione sia degli interessi che del capitale, a mente dell’art. 644-ter cod. pen., così che il detto termine, pari ad anni undici e mesi tre, era scaduto nel mese di gennaio 2017.
Quanto al termine di prescrizione del reato di cui al capo 3 la difesa, all’esito di analogo ragionamento, concludeva affermando che lo stesso era spirato nel mese di ottobre 2015.
Contestava, in particolare, il percorso motivazionale seguito al riguardo dalla Corte territoriale, che aveva individuato il momento consumativo del reato di cui al capo A) nella data in cui era stato perfezionato il contratto di cessione della rivendita di sigarette in favore dell’imputato (risalente al mese di giugno 2006, dunque a epoca successiva alla sopra richiamata legge n. 251/2005), e il momento consumativo del reato di cui al capo 3) nell’ultimo dei pagamenti effettuati dalla vittima all’imputato, risalente al mese di aprile 2007.
Con il terzo motivo la difesa deduceva inosservanza o erronea applicazione della legge penale, inosservanza di norme processuali e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 192, commi 1 e 2, e 546, comma 1, lett. e,) cod. proc. pen., in relazione all’art. 644 cod. pen.
Assumeva, in particolare e con riferimento ad entrambi i reati contestati, che la Corte territoriale era incorsa nel vizio di travisamento della prova in relazione al contenuto della documentazione prodotta dalle vittime dei reati e delle prove testimoniali assunte, deducendo che le dichiarazioni accusatorie delle parti offese non erano credibili ed erano prive di adeguati riscontri, con particolare riguardo al calcolo degli interessi e al loro presunto carattere usurario.
Con il quarto motivo deduceva vizio di motivazione ed erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in relazione all’art. 644, commi 1 e 5, nn. 2) e 4), cod. pen.
Assumeva al riguardo che la motivazione resa dalla Corte territoriale era illogica anche in punto di ritenuta sussistenza delle contestate aggravanti dell’avere agito chiedendo in garanzia proprietà immobiliari e in danno di chi svolgeva attività imprenditoriale, professionale o artigianale, poiché frutto di un travisamento della prova documentale, non risultando in particolare, ad avviso della difesa, che le vittime rivestissero la qualità di imprenditori o che avessero concesso in garanzia all’imputato proprietà immobiliari.
Con il quinto motivo la difesa deduceva vizio di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio e inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 132, 133, 62-bis e 81 cod. pen.
Assumeva, quanto alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, che la Corte territoriale aveva motivato in maniera insufficiente poiché aveva fatto esclusivo riferimento alla gravità dei fatti e alla personalità – ritenuta negativa – dell’imputato, senza considerare il corretto comportamento processuale di quest’ultimo, e, quanto alla dosimetria della pena, che la Corte d’Appello non aveva motivato in punto di discostamento dal minimo edittale.
Con il sesto e ultimo motivo deduceva violazione della legge penale, inosservanza di norme processuali e vizio di motivazione in relazione agli artt. 240 e 644, ultimo comma, cod. pen., e 12-sexies della legge n. 356/1992.
Assumeva, sul punto, che la confisca, disposta ex art. 240 cod. pen., della documentazione fatta oggetto di sequestro era illegittima in quanto, come sopra già evidenziato, il sequestro era stato annullato del Tribunale del riesame; e, ancora, che la confisca, disposta ex art. 644, ultimo comma, cod. pen., dell’azienda individuale intestata a COGNOME NOME, nipote del ricorrente, era illegittima in quanto non vi era prova del fatto che l’imputato avesse la disponibilità di fatto di tale azienda; e, infine, che la confisca, disposta ex art. 12sexies della legge n. 356/1992, era illegittima per mancanza di prova in ordine alla sussistenza dei presupposti della stessa, in particolare della sproporzione fra il valore dei beni confiscati e i redditi dell’imputato, nonché della mancata giustificazione della lecita provenienza dei medesimi beni.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo, quanto alla deduzione relativa alla inutilizzabilità della documentazione oggetto del sequestro successivamente dichiarato inefficace, è del tutto aspecifico, considerato che lo stesso reitera pedissequamente le doglianze dedotte con l’atto di appello senza confrontarsi con le osservazioni contenute al riguardo nella sentenza di secondo grado non sottoposte ad autonoma e argomentata confutazione.
Al riguardo, va evidenziato come costituisca ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte che vada considerato inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. Invero, la mancanza di specificità del motivo va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (cfr., ex muitis, Sez. 2, n. 29108 del 15/07/2011, COGNOME non mass.; Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, COGNOME, Rv. 255568; Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, COGNOME, Rv. 253849; Sez. 2, n. 19951 del 15/05/2008, COGNOME, Rv. 240109; Sez. 4, n. 34270 del 03/07/2007, COGNOME, Rv. 236945; Sez. 1, n. 39598 del 30/09/2004, COGNOME, Rv. 230634; Sez. 4, n. 15497 del 22/02/2002, COGNOME, Rv. 221693).
2.1. Fermo quanto precede, deve osservarsi che, secondo l’orientamento del Giudice di legittimità, già espresso da questa Sezione e condiviso da questo Collegio, l’annullamento del provvedimento di sequestro probatorio impedisce il mantenimento del vincolo sul bene, ma non l’utilizzabilità degli elementi acquisiti ai fini dell’emissione di un successivo decreto di sequestro preventivo, i quali non possono ritenersi prove illegittimamente acquisite ai sensi dell’art. 191 cod. proc. pen. (v., in tal senso, Sez. 2, n. 4887 del 20/01/2017, COGNOME, Rv. 268991 – 01; v. anche, in tema, Sez. 1, n. 7491 del 27/05/1994, COGNOME, Rv. 198371 – 01, secondo cui, atteso il testuale tenore dell’art. 191, comma 1, cod. proc. pen., il quale sancisce la inutilizzabilità delle prove “acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge”, deve ritenersi che detta inutilizzabilità possa derivare, in difetto di espressa, specifica previsione, soltanto dalla illegittimità in sè della prova stessa, desumibile dalla norma o dal complesso di norme che la disciplinano, e non invece soltanto dal fatto che la prova, in sè e per sè legittima, sia stata acquisita irritualmente. Né, in contrario, potrebbe farsi richiamo all’art. 526 cod. proc. pen., secondo il quale “il giudice non può utilizzare, ai fini della deliberazione, prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento. Non potendosi, infatti, prescindere, nella interpretazione di detta ultima norma, dall’esigenza del suo inserimento in un sistema coerente e armonico che vede
nettamente distinte le categorie della nullità e della inutilizzabilità – distinzione che verrebbe di fatto meno qualora ogni inosservanza formale, anche se non sanzionata da nullità ovvero sanzionata da nullità non più deducibile o comunque sanata venisse poi a rilevare come causa di inutilizzabilità – deve necessariamente ritenersi che per “prove diverse da quelle legittimamente acquisite” debbono intendersi non tutte le prove le cui formalità di acquisizione non siano state osservate, ma solo quelle che non si sarebbero potute acquisire proprio a cagione dell’esistenza di un espresso o implicito divieto).
2.2. Il ricorrente lamenta altresì l’erroneità della decisione della Corte territoriale che aveva rigettato l’eccezione difensiva di nullità della sentenza nella parte in cui aveva ritenuto come le dichiarazioni del teste (ufficiale di polizia giudiziaria) NOME COGNOME già teste d’accusa e successivamente rinunciato dal pubblico ministero – rese all’udienza dibattimentale del 24/10/2017 fossero utilizzabili previa lettura ex art. 511 cod. proc. pen., benchè la rinnovazione dell’esame del propalante avanti al Collegio diversamente composto non fosse mai stata svolta.
Alcune premesse in diritto si rendono doverose.
2.2.1. Come riconosciuto dalla Suprema Corte nel suo più alto consesso (sent. n. 41736 del 30/05/2019, COGNOME) “… la garanzia dell’immutabilità del giudice attribuisce alle parti il diritto, non di vedere inutilmente reiterati pedissequamente e senza alcun beneficio processuale, attività già svolte e provvedimenti già emessi, con immotivata dilazione dei tempi di definizione del processo cui la parte può in astratto avere di fatto un interesse che, tuttavia, l’ordinamento non legittima e non tutela, bensì di poter nuovamente esercitare, a seguito del mutamento della composizione del giudice, le facoltà previste dalle predette disposizioni, ad esempio chiedendo di presentare nuove richieste di prova, che andranno ordinariamente valutate …”, restando ferma “… l’utilizzabilità ai fini della decisione, anche delle dichiarazioni già assunte dinanzi al giudice diversamente composto, previa lettura ex art. 511 cod. proc. pen., dopo la ripetizione dell’esame dinanzi al giudice nella nuova composizione (se chiesta, ammessa e tuttora possibile), ovvero anche in difetto di essa (se non chiesta, non ammessa o non più possibile)”.
In tal senso, la sentenza COGNOME ricorda che già le Sezioni Unite COGNOME (sent. n. 2 del 15/01/1999) avevano rilevato che, secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 17 del 1994, e n. 99 del 1996), era da ritenersi del tutto legittima l’allegazione al fascicolo per il dibattimento dei verbali delle prove
acquisite nel corso dell’istruttoria dibattimentale, svoltasi dinanzi al giudice poi sostituito, dal momento che i verbali delle prove assunte nella pregressa fase dibattimentale “fanno già parte del contenuto del fascicolo per il dibattimento a disposizione del nuovo giudice” e che quella fase “pur soggetta a rinnovazione conserva comunque il carattere di attività legittimamente compiuta”: di talché “non è irragionevole, ne’ lesivo dei principi di oralità e immediatezza che la medesima, attraverso lo strumento della lettura (successivamente alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale) entri nel contraddittorio delle parti e venga recuperata ai fini della decisione”.
Invero, nel fascicolo per il dibattimento sono presenti anche i verbali di dichiarazioni rese dai soggetti in precedenza esaminati dinanzi al giudice in diversa composizione.
Il principio – osservano ancora le Sezioni unite COGNOME – è stato successivamente ribadito da Corte cost., n. 67 del 2007, che ha dichiarato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 511, 514 e 525, comma 2, cod. proc. pen., censurati, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 27, 101 e 111 Cost., nella parte in cui, secondo l’interpretazione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, non prevedono che, nel caso di mutamento totale o parziale dell’organo giudicante, le dichiarazioni assunte innanzi a giudice diverso siano utilizzabili per la decisione mediante lettura a prescindere dal consenso o dal dissenso delle parti, osservando, in particolare, che la disciplina censurata «non determina una lesione del principio di non dispersione dei mezzi di prova, in quanto in nessun caso la prova dichiarativa precedentemente assunta va dispersa, essendo sempre possibile acquisirla tramite lettura del relativo verbale», con l’unica differenza che, qualora l’esame del dichiarante sia possibile e sia stato richiesto dalla parte legittimata ed ammesso, la lettura dovrà seguire il nuovo esame, non sostituirlo. Da qui l’affermazione secondo cui “… i verbali di dichiarazioni rese dai testimoni in dibattimento dinanzi a giudice in composizione successivamente mutata, fanno legittimamente parte del fascicolo del dibattimento (dove non “confluiscono”, bensì “permangono”) …”.
Sulla base di queste considerazioni le Sezioni Unite COGNOME proseguono affermando che “… l’art. 511, comma 2, cod. proc. pen. consente la lettura (e la conseguente utilizzazione ai fini della decisione) dei verbali di dichiarazioni rese dinanzi a giudice diversamente composto (anche in difetto del consenso delle parti, sul punto ininfluente) se, per qualsiasi ragione, «l’esame non abbia luogo», in detta previsione dovendo ritenersi comprese, oltre al caso della prova divenuta
medio tempore irripetibile, le altre ipotesi in cui le stesse parti non abbiano richiesto la rinnovazione dell’esame, ovvero il giudice, valutando detta rinnovazione (richiesta della parte legittimata ex art. 468 cod. proc. pen.) manifestamente superflua, abbia deciso di non ammetterla”.
Ne consegue che i verbali di dichiarazioni rese dai testimoni in dibattimento dinanzi a giudice in composizione successivamente mutata, che legittimamente permangono nel fascicolo del dibattimento a seguito del predetto mutamento della composizione del giudice, possono essere utilizzati ai fini della decisione previa lettura ex art. 511 cod. proc. pen. anche nell’ipotesi in cui non vi sia stata rinnovazione dell’esame, perché l’incombente non è stato chiesto, non è stato ammesso o non è più possibile. E la sentenza COGNOME conclude che, in dette ultime ipotesi, non è necessario il consenso delle parti alla lettura ex art. 511, comma 2, cod. proc. pen. dagli atti assunti dal collegio in diversa composizione.
2.2.2. Fermo quanto precede, evidenzia il Collegio come, dalle verifiche risultanti dal doveroso accesso agli atti, è risultato che l’esame del teste COGNOME (indicato in lista dal solo pubblico ministero), ritualmente effettuato avanti al “primo” Collegio (quello poi mutato nella sua composizione originaria), fosse stato dallo stesso pubblico ministero successivamente rinunciato in presenza di nuova composizione dell’organo giudicante; che l’originaria ordinanza di ammissione delle prove fosse stata revocata dal nuovo collegio; che nessuna parte avesse chiesto la rinnovazione davanti al mutato organo giudicante dell’esame del predetto teste; che delle dichiarazioni precedentemente rese dal teste si fosse data lettura e le stesse fossero state utilizzate ai fini della decisione.
2.2.3. Ritiene il Collegio che, sulla base dei princìpi della sentenza COGNOME, l’art. 511, comma 2, cod. proc. pen. consente la lettura (e la conseguente utilizzazione ai fini della decisione) delle pregresse dichiarazioni del Golino, essendo irrilevante in tal senso la presenza del consenso delle parti, e ciò in ragione del fatto che non si era comunque proceduto al nuovo esame del succitato teste, incombente non espletato per la semplice (e ampiamente consentita) ragione che nessuna parte aveva formalmente richiesto di rinnovare detto incombente istruttorio i cui esiti conseguentemente “permanevano” legittimamente nel fascicolo del giudice. Né si può ritenere che detta conclusione debba essere messa quantomeno in dubbio in conseguenza della revoca dell’originaria ordinanza ammissiva dell’esame del Golino, atteso che – come riconosciuto dalla stessa difesa, all’udienza del 19/02/2019 si dava atto della modifica del collegio in uno dei suoi componenti, circostanza che imponeva al
nuovo collegio di procedere all’integrale rinnovazione del dibattimento con la ripetizione della sequenza procedimentale prevista dagli artt. 492, 493, 495 cod. proc. pen. e stante l’opposizione della difesa all’utilizzabilità dell’attività istruttoria compiuta innanzi al “primo” collegio, procedeva ex artt. 496 e segg. cod. proc. pen. all’esame dei testi già escussi che venivano quindi esaminati – l’assenza di nuove richieste di prova rendeva di fatto priva di effetti la revoca in parola, in potendo la medesima spiegare alcuna efficacia sulla presenza e sull’utilizzabilità degli esiti della pregressa assunta testimonianza, che sarebbe stata inutilizzabile ai fini della decisione – per quanto qui rileva – solo a seguito di nuova formale richiesta di esame orale del dichiarante.
2.3. In ogni caso il motivo in trattazione si profila inammissibile anche sotto il diverso profilo costituito dal fatto che dell’eccepita inutilizzabilità del dat probatorio non si è accompagnata da parte della difesa alla doverosa deduzione in ordine alla presunta (e, quindi, rimasta indimostrata) decisività – ai fini della “tenuta” dell’Accusa – delle dichiarazioni rese dal teste COGNOME, non essendosi proceduto alla relativa verifica attraverso i canoni della cd. “prova di resistenza” (cfr., fra le tante, Sez. 3, n. 39603 del 03/10/2024, Izzo, Rv. 287024 – 02, che tratta di una fattispecie in tema di acquisizione di elementi istruttori dopo la scadenza del termine di durata massima delle indagini preliminari).
Invero, la Corte di appello esplicita proprio il contrario, ossia riconosce che l’oggetto della deposizione del COGNOME ha riguardato elementi probatori già risultanti da documenti ritualmente acquisiti e da atti irripetibili di riferimento (si allude, in particolare, ai documenti afferenti gli accertamenti patrimoniali, alle dichiarazioni dei redditi, alle deleghe ad operare sui conti correnti bancari, agli assegni rinvenuti nel corso delle perquisizioni e alla scheda anagrafica tributaria del COGNOME) che la sentenza di primo grado aveva ampiamente riportato e considerato.
Parimenti inammissibile è il secondo motivo, con il quale il ricorrente svolge inammissibili considerazioni di merito finalizzate a retrodatare l’inizio del decorso del termine di prescrizione in relazione ai due reati contestati, per il primo dei quali, contestato al capo A), il termine di prescrizione prorogato, pari ad anni diciotto e mesi nove (decorrente, a tenore dell’imputazione, dal 10 dicembre 2006, e senza considerare 244 giorni di sospensione del corso della prescrizione) andrà a scadere in data 1 settembre 2025, e, per il secondo, contestato al capo 3) (decorrente, a tenore dell’imputazione, fino al 1° primo aprile 2007, e sempre
senza considerare i 244 giorni di sospensione) in data 1 gennaio 2026 (termini di prescrizione finale che, considerati i succitati periodi di sospensione, verranno a definitiva scadenza solo in data 15/04/2026 per il capo A e solo in data 15/08/2026 per il capo 3).
Anche il terzo motivo è inammissibile in quanto propone, per entrambi i reati, una inammissibile diversa lettura nel merito delle prove acquisite, documentali e per testimoni, tesa dimostrare che gli interessi pattuiti non avrebbero avuto carattere usurario.
Inoltre, il vizio di travisamento della prova risulta dedotto in maniera generica e sotto il profilo di una inammissibile diversa interpretazione delle prove assunte.
In tema si osserva che il ricorso per cassazione con cui si lamenta il vizio di motivazione per travisamento della prova, non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, quando non abbiano carattere di decisività, ma deve, invece: a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (in tal senso Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, F, Rv. 281085 – 01).
Deve, per altro verso, osservarsi, sul punto, che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, che questo Collegio condivide, nel caso di cosiddetta “doppia conforme” (è il caso qui in esame), il vizio del travisamento della prova, per utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio assenta mente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (v., fra le altre, Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, M., Rv. 283777 – 01).
Nel caso di specie il ricorrente non ha affatto dedotto che il dato probatorio asseritamente travisato – e peraltro non indicato in maniera specifica – sarebbe stato introdotto per la prima volta come oggetto di valutazione nella sentenza di appello.
Di qui l’inammissibilità del motivo in trattazione.
Anche il quarto motivo, ancora in tema di travisamento della prova e concernente in particolare le ritenute circostanze aggravanti, è del tutto aspecifico.
Nella fattispecie, il ricorrente omette sostanzialmente di confrontarsi con la motivazione della sentenza di appello che ha ritenuto la ricorrenza delle contestate aggravanti ad effetto speciale di cui all’art. 644, comma 5, cod. pen., e segnatamente “tanto quella di cui al n. 4 che attribuisce maggiore disvalore al fatto commesso in danno di chi svolge attività imprenditoriale, quale all’evidenza era NOME NOMECOGNOME titolare di tale esercizio commerciale e firmataria di parte degli assegni; tanto quella di cui al n. 2, che ricorre se il colpevole ha richiesto in garanzia partecipazioni o quote societarie o aziendali o proprietà immobiliari, come avvenuto nel caso di specie, in cui il COGNOME si assicurò la vendita (della) tabaccheria; sul punto va rammentato che nella scrittura privata del 12.1.2006 fu formalizzata la reale volontà dei contraenti, che era quella di addivenire a una cessione della gestione dell’attività per dieci anni, sì da consentire contestualmente a COGNOME NOME di recuperare il proprio credito grazie ai ricavi che l’attività garantiva e da lasciare intatta la prospettiva degli Iovino di riassumere la gestione ed anche la formale titolarità, una volta sollevatisi dalle difficoltà economiche che li pressavano. Appare rilevante sottolineare in merito che all’art. 7 di tale contratto era prevista una penale per il caso in cui alla scadenza del decennio il cessionario si rifiutasse di ritrasferire l’azienda al cedente, fissata in 500.000 euro …”. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Inammissibile, in quanto manifestamente infondato, è anche il quinto motivo, dovendosi ritenere che la Corte d’Appello abbia reso una motivazione immune da vizi sia in punto di diniego delle invocate circostanze attenuanti generiche, risultando del tutto congruo il richiamo alla gravità dei fatti e alla personalità negativa dell’imputato, sia in punto di dosimetria della pena, avendo la Corte territoriale osservato che la pena inflitta dal primo giudice non si discostava in maniera significativa dal minimo edittale e che l’aumento in parola,
a ragione delle ritenute circostanze aggravanti, era stato quantificato in misura di poco superiore al minimo di legge.
È, infine, inammissibile, in quanto manifestamente infondato, oltre che teso a una inammissibile rilettura nel merito delle prove assunte, anche il sesto motivo di ricorso, avendo, ancora una volta, la Corte d’appello reso una motivazione che appare immune da vizi con riguardo alle confische disposte dal giudice di primo grado e confermate in appello, avendo evidenziato, in particolare, che sulla confisca dei titoli di credito rinvenuti nella disponibilità del COGNOME non era in grado di incidere l’annullamento, per vizi formali, del provvedimento di sequestro, che la confisca dell’azienda esercente il commercio di tabacchi aveva trovato giustificazione nel fatto che la stessa costituiva il profitto del reato di usura per il quale l’imputato era stato condannato, in quanto costituente “l’oggetto dell’illecita pattuizione scaturente dai rapporti di matrice usuraria intercorsi nel tempo tra COGNOME NOME da un lato e NOME e NOME NOME dall’altro” (v. pag. 20 della sentenza impugnata), e ancora che la confisca delle rilevanti somme di denaro giacenti sui conti correnti, sui libretti nominativi e sulle carte prepagate nonché sull’autovettura Lancia Musa, beni tutti – intestati all’imputato, aveva trovato giustificazione in ragione della accertata sproporzione tra i redditi di quest’ultimo e le ingenti somme rinvenute nella sua disponibilità.
Alla stregua di tali rilievi, il ricorso deve, dunque, essere dichiarato inammissibile.
Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento. In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende. Il COGNOME deve, infine, essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili costituite, spese che la Corte liquida come in dispositivo.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili NOME e NOME NOME che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge per ciascuna; COGNOME NOME e COGNOME NOME che liquida in complessivi euro 4.791,86, oltre accessori di legge per ciascuna; RAGIONE_SOCIALE Metropolitana di Napoli e Fondazione San Giuseppe RAGIONE_SOCIALE che liquida in complessivi euro 3.000,00, oltre accessori di legge per ciascuna.
Così deciso il 28/11/2024.