Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 23511 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 23511 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a BAGHERIA il 13/07/1955
avverso la sentenza del 30/10/2024 della CORTE APPELLO di PALERMO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
lette le conclusioni scritte per l’udienza senza discussione orale, non richiesta, del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore gen. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di Appello di Palermo, pronunciando sul gravame nel merito proposto dall’odierno ricorrente NOME COGNOME con la sentenza in epigrafe ha confermato la sentenza con cui il Tribunale di Termini Imerese, in composizione monocratica, il 13 dicembre 2022, all’esito di giudizio ordinario, lo aveva condannato alla pena di anni 6 e mesi 2 di reclusione ed euro 27.000 di multa, con interdizione in perpetuo dai pubblici uffici in quanto riconosciutolo colpevole del reato di c agli artt. 110 cod. pen., 73 commi 1 e 6 d.P.R. 309/90 per l’illecita detenzione, trasporto e cessione di un quantitativo di cocaina per un valore di 44.000 euro, fatto commesso in Bagheria in data antecedente e prossima al mese di agosto 2015.
Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, NOME COGNOME deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 73, comma 1, d.P.R. 309/90 per vizio di motivazione e travisamento della prova.
Si evidenzia in ricorso che la Corte di Appello di Palermo ha ritenuto fondata la responsabilità penale di NOME COGNOME perché “non è stata offerta dall’appellante alcuna attendibile prova a discarico, né allegazioni idonee a corroborare una ricostruzione alternativa lecita della vicenda, come sopra già riportata, procedendosi, infatti all’analisi parcellizzata e frammentaria di talune singole risultanze p batorie raccolte, peraltro lette in contrasto con la loro effettiva valenza dimostr tiva” (il richiamo è a pag. 3 della sentenza impugnata).
Ebbene, il ricorrente sottolinea come l’onere probatorio della colpevolezza dell’imputato “oltre ogni ragionevole dubbio”, incombe sulla Pubblica Accusa, la cui attività investigativa dovrebbe fornire prove certe e incontrovertibili circa responsabilità penale del reo (pertanto l’aver eccepito all’imputato di non aver fornito alcuna attendibile prova a discarico e l’aver fondato su tale ragione la col pevolezza del Tutino risulterebbe contrario ai principi su cui si basa l’intero pro cesso penale).
Ci si duole, inoltre, che il giudice del gravame del merito abbia ritenuto non condivisibile il primo motivo di appello sulla base di un’impalcatura motivazionale non corretta e su una errata valutazione delle prove: in particolare del contenuto delle intercettazioni e delle dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia, COGNOME e COGNOME. In riferimento al contenuto delle intercettazioni, si legge in senten «In contrario mette conto rilevare che il ruolo del COGNOME, nei termini già sopr
detti, affiora con assoluta nitidezza nei passi dei numerosi dialoghi captati e ripor tati nell’impugnata sentenza» (pag. 5).
Al fine di avvalorare la propria affermazione -prosegue il ricorso- il giudice d appello richiama alcune pagine della sentenza di primo grado riportanti stralci delle intercettazioni, dalle quali però non si evincerebbe assolutamente alcun ruolo del COGNOME in riferimento alla condotta penale in contestazione, e segnatamente in riferimento alla cessione della cocaina. Le uniche informazioni ricavabili dalle in tercettazioni aventi come protagonisti quasi sempre il COGNOME ed il COGNOME, i vece, riguardano un presunto debito che un soggetto, talvolta denominato “NOME“, talvolta “NOME“, avrebbe contratto presumibilmente per una partita di droga che sembrerebbe essergli stata ceduta e per la quale, a fronte della distribuzione della stessa, non avrebbe restituito il denaro ottenuto.
Il ricorrente fa presente di usare volutamente il condizionale perché nulla in riferimento alla suddetta vicenda risulterebbe provato ed inoltre le risultanze di cu alle intercettazioni assumerebbero un significato ben diverso da quello fornito in sentenza. E sarebbe proprio su tale grande equivoco che si fonderebbe per il ricorrente il vizio motivazionale della sentenza ed il travisamento della prova per cui è ricorso: il giudice di appello ha ritenuto provata dall’affermazione della mera esistenza di un presunto debito a carico del COGNOME anche la cessione a quest’ultimo della sostanza stupefacente senza alcuna evidenza in tal senso.
Quanto sopra sarebbe di palese comprensione proprio dal testo delle intercettazioni richiamate nella sentenza di appello di cui il ricorrente riporta stralc ricorso alle pagg. 3-4.
Il ricorrente sottolinea che, pur avendo il giudice di appello motivato erroneamente in senso diverso, dalle intercettazioni riportate in sentenza si evince chiaramente l’esistenza di un unico debitore del NOME COGNOME, individuato nella persona di COGNOME il quale si era impegnato a restituire la somma di 10.500 euro per il residuo dello stupefacente a suo tempo fornitogli dal NOME COGNOME (il ricorrente richiama in tal senso l’intercettazione del 6 agosto 2023 riportata a pag. 16 della sentenza di primo grado). E la conferma di quanto sopra si ritroverebbe nella conversazione intercettata in data 10 agosto 2015 tra Militello e COGNOME. Inoltre, nella conversazione dell’Il agosto 2015, COGNOME viene indicato come l’unico soggetto ad avere acquistato lo stupefacente e viene criticato per il fatto di avere speso una consistente somma di denaro per recarsi in pellegrinaggio piuttosto che restituirla a NOME COGNOME.
Il COGNOME viene quindi indicato dal COGNOME nelle conversazioni con COGNOME come l’unico ad avere ottenuto denaro dallo stupefacente, ma il ricorrente si duole che a tale circostanza non viene data alcuna rilevanza nella motivazione del provvedimento impugnato, insistendo, piuttosto, il giudice di secondo grado sul ruolo
del COGNOME, pur nell’assenza di alcuna certezza sul fatto che la sostanza stupefacente fosse in qualche modo transitata nella disponibilità dell’odierno ricorrente e nell’assenza di riferimenti diretti nei confronti di quest’ultimo, se non nell’un trascrizione del 1 agosto 2015, intercorsa tra lo stesso e COGNOME COGNOME (pag. 12), comunque per nulla dimostrativa del concorso dell’imputato nel reato.
Ricorda il ricorrente che, secondo quanto si legge in sentenza, la convinzione circa la responsabilità penale del COGNOME si fonda: a. sulla circostanza che i due intercettati (COGNOME e COGNOME) facessero riferimento ad un soggetto di nome “NOME” o “NOME” senza alcuna certezza che sì tratti di NOME COGNOME; b. sulla circostanza, non riscontrata concretamente, che il COGNOME si trovava con ogni probabilità in compagnia di NOME COGNOME, soltanto perché questi si trovava in una zona frequentata dall’odierno ricorrente (in sentenza di appello, pag. 5: “che COGNOME e COGNOME, quando si incontravano con lui, si trovavano in zona ove questo usava stazionare”); c. sul riferimento ad un soggetto che al pari del COGNOME aveva la disponibilità di cavalli quasi che questa caratteristica possa essere riferita esclus vamente ad un unico soggetto e, infine, sull’assenza di altre interpretazioni alternative da parte del COGNOME nelle varie fasi processuali, di per sé comunque non indicativa di responsabilità penale dello stesso.
In riferimento alle dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia, il ricorr ritiene poi che le stesse conducano a conclusioni ben differenti da quelle cui è pervenuta la Corte.
Ritiene il giudice di appello che il COGNOME “più volte non mancava di precisare di aver direttamente appreso anche dal NOME COGNOME, sia della consegna da parte di questi del chilo di cocaina anche a NOME COGNOME che delle successive lamentele del NOME COGNOME in ordine alla mancata consegna da parte del COGNOME del ricavato della vendita della quota parte di 300 grammi curata dallo stesso COGNOME nonché dal COGNOME” (pag. 4).
Ci si duole, però, che la Corte territoriale non abbia preso in considerazione che lo stesso COGNOME, nel rispondere ad una domanda del pubblico ministero, ha dovuto ammettere che né il NOME COGNOME né il COGNOME, né altri gli avessero mai parlato di un coinvolgimento di NOME COGNOME nella cessione dello stupefacente. Tale circostanza egli l’avrebbe appresa direttamente da COGNOME durante una riunione alla presenza di COGNOME e dei “palermitani”. Ma COGNOME, che pure è stato apprezzato dal primo decidente per le sue dichiarazioni auto ed etero accusatorie, non ha mai confermato tale circostanza che, pertanto, rimane priva di riscontro esterno.
Oltre a quanto sopra sulle dichiarazioni del COGNOME, la Corte di Appello secondo il ricorrente sarebbe anche caduta in errore nel valutare le dichiarazioni di
COGNOME, in particolare non dando corretta rilevanza alla circostanza che, nonostante i tentativi di Militello di autoaccreditarsi come fonte autonoma, quanto da questi affermato è conosciuto esclusivamente de relato rispetto a quanto raccontato dal Di COGNOME. E tale circostanza, già contenuta negli atti delle indagini prelimi nari, è emersa in tutta la sua consistenza a pag. 34, quando il P.M. ebbe a contestare al COGNOME le dichiarazioni rese nel corso dell’interrogatorio del 20 otto 2016.
Conclusivamente quanto a tale primo motivo il ricorrente ritiene che il giudice di appello sia incorso in un rilevante vizio motivazionale nel valutare le risultanz processuali, con evidente travisamento della prova, stante la palese difformità tra il senso estrinseco della dichiarazione e quello tratto dal giudice.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. in relazione all’art. 73, comma 6, d.P.R. 309/90 per erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione
La Corte territoriale – ci si duole- ha ritenuto infondato il secondo motivo di appello perché “in tema di sostanze stupefacenti, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante del concorso di tre o più persone di cui all’art. 73 comma 6 d.P.R. 309/90 è necessario che la pluralità dei soggetti sia riferibile ad una sol tanto delle condotte previste per l’integrazione del reato (offerta, eventuale intermediazione, acquisto, detenzione o altro) non essendo sufficiente solo l’indistinta attribuzione della pluralità delle condotte ai concorrenti, a prescindere dallo · specifico ruolo di ciascuno di essi. E dunque nel caso di specie tale aggravante ricorre appieno, essendo stato contestato ed accertato lo specifico apporto offerto dallo stesso appellante, nonché da COGNOME Salvatore, COGNOME/o, COGNOME, COGNOME Pasquale e COGNOME Andrea” (pag. 6).
Da tale motivazione emergerebbe, tuttavia, il vizio in cui secondo il ricorrente sarebbe incorsa la Corte di Appello. Il giudice dell’impugnazione ha, infatti, considerato come rilevante l’apporto offerto da COGNOME e COGNOME, quando in realtà sarebbe di palese evidenza, alla luce delle risultanze processuali, che i due collaboratori non abbiano avuto alcun ruolo nel traffico della sostanza stupefacente, essendo intervenuti esclusivamente in fase successiva per il recupero delle somme di denaro che il COGNOME doveva al NOME COGNOME Salvatore.
Anche a volere ritenere che la pluralità dei soggetti sia riferibile ad una sol tanto delle condotte, tale circostanza non ricorre nel caso di specie ove abbiamo sempre e comunque singoli segmenti che non sono riconducibili ad unità.
Ragionando nel senso prospettato dalla Corte, l’aggravante in parola dovrebbe essere contestata in tutti i casi di spaccio, ritenendo come compartecipi i produttori, i trafficanti, i grossisti, i terminali territoriali e, infine, gli spacciatori.
Sarebbe evidente, pertanto, l’erronea applicazione della norma penale in cui è incorso il giudice di appello nell’applicazione della circostanza aggravante.
Chiede, pertanto, annullarsi la sentenza impugnata.
Il PG presso questa Corte ha reso le conclusioni scritte riportate in epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il proposto ricorso è inammissibile, in quanto il ricorrente, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si è nella sostanza limitato a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello, e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata, senza in alcun modo sottoporle ad autonoma e argomentata confutazione. Ed è ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Corte di legittimità come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici.
La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 comma 1, lett. c) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso Sez. 2, n. 29108 del 15/7/2011, Cannavacciuolo non mass.; conf. Sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, COGNOME, Rv. 255568; Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, COGNOME, Rv. 253849; Sez. 2, n. 19951 del 15/5/2008, COGNOME, Rv. 240109; Sez. 4, n. 34270 del 3/7/2007, COGNOME, Rv. 236945; sez. 1, n. 39598 del 30/9/2004, COGNOME, Rv. 230634; Sez. 4, n. 15497 del 22/2/2002, COGNOME, Rv. 221693). In tali casi il ricorso è inammissibile sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (Sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, COGNOME e altri, Rv. 260608). La pedissequa reiterazione dei motivi già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla Corte di merito, fa sì, infatti, c gli stessi debbano considerarsi non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Boutartour, Rv. 277710; Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, COGNOME, Rv. 231708).
Per contro, l’impianto argomentativo del provvedimento impugnato appare puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligi bile l’iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifest illogicità e perciò insindacabili in sede di legittimità.
2. In premessa, a fronte di un travisamento della prova dedotto con il primo motivo di ricorso che tale non si palesa, va ricordato che il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione anche qualora le sentenze dei due gradi di merito siano conformi, sia nell’ipotesi in cui il giudice d appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez.4, n.35963 del 03/12/2020, COGNOME, Rv. 28015501; Sez. 5, n.48050 del 2/07/2019, S., Rv. 27775801). Ma che è anche necessario che il ricorrente prospetti la decisività del travisamento nell’economia della motivazione (Sez.6, n.36512 del 16/10/2020, COGNOME, Rv.28011701). Il che nel caso che ci occupa non è avvenuto.
Costituisce, inoltre, ius receptum che, in presenza di una c.d. “doppia conforme”, ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l’affermazione di responsabilità), il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità nel caso in cui il ricorrente rappresen (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (cfr. Sez. 4, n. 19710/2009, Rv. 243636 secondo cui, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), introdotta dalla I. n. 46 del 200 è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c. d. doppia conforme, superarsi il limite del “devolutum” con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per risponde
alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice; conf. Sez. 2, n. 47035 del 3/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013 dep. 2014, COGNOME, Rv. 258432; Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013 dep. 2014, COGNOME ed altro, Rv. 258438; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 dep. 2017, COGNOME ed altro, Rv. 269217).
Nel caso dì specie, al contrario, la Corte di appello ha riesaminato e valorizzato lo stesso compendio probatorio già sottoposto al vaglio del tribunale e, dopo avere preso atto delle censure dell’appellante, è giunta alla medesima conclusione in termini di sussistenza della responsabilità dell’imputato che, in concreto, si limita a reiterare le doglianze già incensurabilmente disattese nel precedente grado e riproporre la propria diversa lettura delle risultanze probatorie acquisite, a cominciare dalle intercettazioni, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti degli elementi probatori valorizzati.
Nello specifico del primo motivo di ricorso, in punto di responsabilità, oltre che la riproposizione acritica di temi già motivatamente confutati nel precedente grado, se ne rileva la manifesta infondatezza.
Il ricorrente appunta la sua attenzione su pag. 3 della sentenza impugnata ove si legge che “non è stata offerta dall’appellante alcuna attendibile prova a discarico, né allegazioni idonee a corroborare una ricostruzione alternativa lecita della vicenda, come sopra già riportata, procedendosi, infatti all’analisi parcellizzata e frammentaria di talune singole risultanze probatorie raccolte, peraltro lette in contrasto con la loro effettiva valenza dimostrativa” (pag. 3 dell sentenza impugnata). E si duole che in tal modo si sarebbe invertito l’onere della prova per quanto concerne l’affermazione di responsabilità dell’imputato.
In realtà non è così. I giudici del merito non fondano l’affermazione di responsabilità sul fatto che l’imputato non abbia dedotto a suo discarico degli elementi, bensì, dopo aver dato conto delle prove a carico dell’odierno ricorrente e della ricostruzione dei fatti che da esse si ricava, evidenziano come non sia stata nemmeno indicata, se non provata, una ricostruzione alternativa degli stessi. Il che non significa affatto ribaltare l’onere della prova della colpevolezza dell’imputato che incombeva sulla pubblica accusa e che i giudici del merito concordemente hanno ritenuto adempiuto.
Ed invero, come si dà atto in sentenza, la ricostruzione della vicenda si ricava nitidamente dall’esame congiunto e sistematico dei risultati delle intercettazioni eseguite in fase di indagine, regolarmente autorizzate, dagli esiti dei servizi di osservazione, pedinamento e controllo, dalle acquisizioni delle videoregistrazioni e dalle propalazioni dei coimputati, poi divenuti collaboratori di giustizia, COGNOME
NOME e COGNOME NOME. E quanto, in particolare, alle intercettazioni è stato sottolineato come il tenore delle stesse, acquisite consensualmente al fascicolo del dibattimento cosi come risultanti dalle trascrizioni che ne ha effettuato la p.g., con la relativa incontestata identificazione dei dialoganti, appare chiaro ed in alcun modo equivoco, e risulti idoneo, unitamente alle propalazioni rese dai coimputati giudicati separatamente, COGNOME e COGNOME, a fare ritenere certo, senza alcun ragionevole dubbio, che la cessione contestata si sia effettivamente verificata.
Dunque, con motivazione logica e congrua, con la quale il ricorrente non si confronta, la Corte territoriale ha basato l’affermazione di responsabilità del COGNOME, in primis, sui contenuti delle conversazioni intercettate, dotati di elevata capacità dimostrativa in considerazione di molteplici argomentazioni, inerenti al contesto complessivo dei traffici di droga in cui operavano tutti i soggetti captati.
E sul punto la sentenza impugnata appare operare un buon governo della granitica giurisprudenza di questa Corte di legittimità in tema di valore probatorio delle conversazioni captate e della loro interpretazione.
Come ricorda anche la recente Sez. 4, n. 22040 del 16/05/2024, COGNOME non mass., sin dal 2015, Sez. U. n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715 hanno ribadito l’indirizzo consolidato secondo cui le dichiarazioni carpite nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata, con le quali un soggetto accusa se stesso e/o altri della commissione di reati, hanno piena valenza probatoria e non necessitano di ulteriori elementi di corroborazione ai sensi dell’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. Al riguardo, in precedenza era stata giudicata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 192, 195, 526 e 271 cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. e l’art. 6 CEDU, nella parte in cui non prevedono che le indicazioni di reità e correità, captate nel corso di conversazioni intercettate, debbano essere corroborate da altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità, come avviene per le chiamate in reità o correità rese dinanzi all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziari nella parte in cui non prevedono l’inutilizzabilità di tali dichiarazioni qualora il so getto, indicato quale fonte informativa nella conversazione intercettata, si avvalga poi della facoltà di non rispondere (Sez. 6, 20/2/2014 n. 25806, COGNOME, Rv. 259673).
La stessa decisione delle Sezioni Unite dapprima indicata ha affrontato il tema dell’interpretazione dei risultati delle captazioni, che è strettamente legato a quello del valore probatorio delle stesse. Secondo l’indirizzo consolidato, recepito dalla sentenza, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, rappresenta una questione di fatto rimessa all’apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio di legittimità, se la valu tazione risulta logica in base alle massime di esperienza utilizzate.
Non solo il significato attribuito al linguaggio criptico utilizzato dagli interl tori, ma anche la stessa natura convenzionale di esso, invero, costituisce una valutazione di merito insindacabile in cassazione. La censura di diritto può riguardare soltanto la logica della chiave interpretativa impiegata dal giudice di merito.
Una di tali chiavi di lettura può essere integrata dal frequente ricorrere di termini che non trovano una spiegazione coerente con il tema del discorso e che, invece, si spiegano nel contenuto ipotizzato nella formulazione dell’accusa oppure dalla connessione con determinati fatti commessi da persone che usano gli stessi termini in contesti analoghi (Sez. 5, 14/7/1997, n. 3643, Ingrosso, Rv. 209620).
Sebbene l’interpretazione delle conversazioni debba fondarsi sul tenore complessivo delle indagini, indispensabili pure per la corretta identificazione degli in terlocutori, essa può riposare anche su “massime di esperienza” (Sez.6, n. 15396 del 11/12/2007, dep. 2008, Sitzia, Rv. 239636; Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Corso, Rv. 258164).
Queste ultime sono costituite da generalizzazioni tratte con procedimento induttivo dalla esperienza comune, conformemente agli orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale in cui matura la decisione (Sez. 6, n. 36430 del 28/05/2014, Schembri, Rv. 260813; Sez. 2, n. 51818 del 06/12/2013, COGNOME, Rv. 258117). Al riguardo, trova applicazione il principio secondo cui il ricorso alle “massime d’esperienza” ed al criterio di verosimiglianza conferisce al dato preso in esame valore di prova solo se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile (Sez. 6, n. 49029 del 22/10/2014, Leone, Rv. 261220).
In questo caso, il controllo della Cassazione sui vizi di motivazione della sentenza impugnata, se non può estendersi al sindacato sulla scelta delle massime di esperienza, può però avere ad oggetto la verifica sul se la decisione abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sull’ id quod plerumque accidit ed insuscettibili di verifica empirica od anche ad una pretesa regola generale che risulta priva di una pur minima plausibilità (Sez. 1, n. 18118 del 11/02/2014, COGNOME, Rv. 261992; Sez. 6, n. 1686 del 27/11/2013, dep. 2014, Keller, Rv. 258135).
5. Il ricorrente contesta in maniera generica e frammentaria il contenuto e l’interpretazione delle intercettazioni, deducendo un asserito travisamento della prova che, come detto, nulla ha a che vedere con i principi ricordati sub 2. E, soprattutto, pare ignorare che, come già ricordato, in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fat rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, il quale si sottrae al sindacato di
legittimità se la valutazione operata risulti logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate e non inficiata da travisamenti (cfr. ex multis Sez. 2, n. 34381/2022 Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, COGNOME, Rv. 282337; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, COGNOME, Rv. 268389
La giurisprudenza di questa Corte di legittimità – e in particolare S.0 36747/2003, COGNOME, Rv. 225465- ha da tempo evidenziato che, essendo le intercettazioni quegli strumenti di ricerca della prova basati sulla captazione occulta e contestuale di una conversazione o comunicazione tra due o più soggetti che agiscano con l’intenzione di escludere altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuato da soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato, le stesse vanno valutate dal giudice di merito secondo il proprio libero apprezzamento tenendo conto delle modalità di acquisizione dei risultati e sempreché si dia conto in sede di motivazione del percorso logico utilizzato per addivenire ad un certo tipo di risultato. Ed è principio consolidato che le espressioni usate anche dagli interlocutori durante le intercettazioni costituiscono accertamento di fatto, riservato al giudice del merito e insindacabile in sede di legittimità se sostenuto da motivazione congrua e logica (così Sez. 5, n. 6350 del 22/12/1999, dep. 2000, COGNOME, rv. 216269, in cui la Corte nella specie ha ritenuto sufficiente l’indizio raccolto attraverso intercettazioni telefoniche che documentavano, in modo genuino e originario, fatti e dichiarazioni, all’insaputa degli interlocutori, costitutivi della probabile colpevolezza in ordine al reato di cui all’ 416 c.p.).
Le risultanze delle intercettazioni non possono essere equiparate alle dichiarazioni in senso proprio in quanto, pur avendo come quelle contenuto comunicativo, non si caratterizzano per la loro destinazione al procedimento. Ne deriva pacificamente che esse non sono soggette, anche se le conversazioni sono intervenute fra gli imputati, al regime di cui all’art. 192, co. 3, cod. proc. pen. quanto, proprio per le qualità specifiche caratterizzanti le intercettazioni, non s pongono quelle esigenze di valutazione improntate sul maggior rigore che invece caratterizzano le dichiarazioni provenienti da soggetti che, in quanto coinvolti nel reato, sono portatori di un proprio interesse allorché rendano le stesse
6. Con motivazione che sfugge alle generiche censure oggi riproposte i giudici del gravame del merito hanno dato conto di come sia rimasto provato che COGNOME Salvatore aveva incaricato COGNOME NOME e COGNOME NOME (collaboratori di giustizia) di recuperare la somma di danaro di 44.000 euro, dovutagli da COGNOME NOME a titolo di corrispettivo per l’acquisto di un chilogrammo di co-
caina; il COGNOME aveva a sua volta distribuito parte della droga all’odierno ricorrente COGNOME e a COGNOME NOME, incaricati della materiale rivendita. È stato anche specificato che NOME COGNOME si era rivolto a Militello e a Di Salvo per recuperare i propri soldi, in primis, dal COGNOME, in quanto quest’ultimo era “criminalmente vicino” al COGNOME, per avere come punto di riferimento la medesima consorteria mafiosa.
I collaboratori di giustizia – si ricorda in sentenza – hanno reso le seguenti dichiarazioni:
a) Il COGNOME ha ricordato di avere appreso della cessione dello stupefacente dal Drago COGNOME al COGNOME e poi da questi al COGNOME e al COGNOME direttamente dal Drago COGNOME. E ha aggiunto che il COGNOME, che non poteva recarvisi personalmente, gli aveva chiesto di andare ad un incontro con COGNOME presso il INDIRIZZO di Bagheria, per sollecitargli il pagamento di quanto dovuto. E che nell’occasione il COGNOME, detto “NOME“, gli aveva riferito di essersi impegnato a smerciarla, aveva confermato di avere un debito in relazione allo stesso, ma lo aveva rassicurato circa il rispetto dell’impegno assunto entro la fine di quel mese di agosto 2015.
b) Il COGNOME ha ricordato di conoscere NOME COGNOME quale “trafficante” di droga e ha sottolineato di averlo presentato lui a Di Salvo. Ha poi aggiunto di avere saputo direttamente da NOME COGNOME della cessione della cocaina e del debito di Tutino. E che, per quanto gli era stato riferito, 700 grammi erano stati restituiti allo stesso NOME COGNOME, mentre 200 grammi erano stati “gestiti” da COGNOME e 100 grammi da COGNOME. E di avere presenziato anch’egli all’incontro del Di Salvo con NOME al Bar INDIRIZZO di Bagheria.
La Corte territoriale ha risposto in modo esauriente a tutte le censure prospettate dalla difesa nei seguenti termini: a) il momento della cessione non era individuabile nelle intercettazioni, perché entrambi i propalanti avevano appreso dal Drago che essa era già stata effettuata precedentemente; b) in occasione dell’incontro al Bar Sant’Antonio, il Tutino si era impegnato personalmente a corrispondere il danaro dovuto, da girare successivamente ad un addetto alla riscossione per conto del Drago; c) il COGNOME aveva confermato di aver appreso direttamente dal NOME COGNOME (e, quindi, non solo dal COGNOME) della vendita e delle sue doglianze per l’omessa restituzione del ricavato e, d’altronde, anche lui aveva partecipato all’incontro al bar, finalizzato al sollecito di pagamento e alla determinazione delle modalità della corresponsione del danaro.
Come si ricorda in sentenza -tema con cui il ricorrente non si confronta- COGNOME nel corso dell’esame reso, in più occasioni non mancava di precisare la consegna materiale al COGNOME del chilo di cocaina da parte del COGNOME; e che all’appuntamento all’uopo fissato era stato personalmente il COGNOME ivi incontrato a dirgli
che a seguito della vendita dello stupefacente egli avrebbe consegnato il denaro ricavato, che poi lo stesso COGNOME avrebbe dovuto consegnarlo ad una persona di Palermo che materialmente lo riscuoteva per conto dei NOME COGNOME.
La Corte territoriale, poi, ha anche motivatamente confutato la censura secondo cui il collaborante COGNOME conosceva la vicenda solo per quanto riferitogli dal COGNOME, ciò in particolare in ordine alla circostanza della parziale retrocessione a COGNOME e COGNOME del chilo di cocaina originariamente consegnata a COGNOME.
Ciò sul rilievo che il COGNOME durante l’esame sostenuto, all’udienza del 9.12.2021, non mancava di precisare di aver direttamente appreso anche dal NOME COGNOME, sia della consegna da parte di questi del chilo di cocaina anche a NOME COGNOME, che delle successive lamentele del NOME COGNOME in ordine alla mancata consegna da parte del COGNOME del ricavato della vendita. D’altra parte il COGNOME ha pure ricordato che, accompagnandosi al COGNOME, nel tentativo di recuperare il denaro preteso dal Drago NOMECOGNOME aveva avuto modo di incontrare il COGNOME al INDIRIZZO di Bagheria proprio al fine di concordare i tempi di detta corresponsione di denaro e che il COGNOME in quell’occasione si era impegnato in tal senso.
La difesa ripropone una critica parcellizzata in ordine all’interpretazione del contenuto dei colloqui captati, senza valutarli in stretta connessione coi convergenti elementi emersi dalle concordi dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Essa non formula nessuna specifica critica sull’attendibilità dei propalanti e non prospetta una plausibile e non generica chiave di lettura alternativa dei dialoghi monitorati.
La Corte territoriale si è anche già confrontata criticamente, confutandola, con la prospettazione difensiva oggi riproposta secondo cui il giudice di primo grado non avrebbe adeguatamente valutato il contenuto delle conversazioni intercettate, una soltanto delle quali riguarderebbe il COGNOME, e cioè quella dell’1.8.2015, intercorsa tra lo stesso ed il COGNOME, sempre a dire dell’odierno ricorrente non dimostrativa del concorso contestato.
In contrario viene evidenziato in sentenza che il concorso del COGNOME affiora con assoluta nitidezza nei passi dei numerosi dialoghi captati e riportati nella sentenza di primo grado (di cui vengono richiamate le pagine 8, 21, 24, 32, 37 e 38) legittimamente richiamata per relationem.
Il ricorrente sostanzialmente reitera anche su tale punto le doglianze difensive già formulate con l’atto di appello circa l’insufficienza del materiale intercettivo dimostrare il coinvolgimento del COGNOME nonché circa l’impossibilità di identificare “NOME” con il COGNOME, il quale al massimo avrebbe collaborato con il COGNOME ai soli fini del recupero di un credito di altra natura nei confronti del COGNOME.
In sentenza si ricorda che la circostanza che il COGNOME fosse uno dei due soggetti cui il COGNOME aveva consegnato lo stupefacente acquistato dal COGNOME al fine di smerciarlo, con ciò evidenziando la piena compartecipazione dello stesso COGNOME all’affare in questione e la responsabilità allo stesso ascritta a titolo concorsuale nella vicenda qui contestata (sussistendo tra la sua condotta di ricezione dello stupefacente volta alla rivendita e quella della cessione originaria una connessione causale rispetto all’evento, con la consapevolezza del proprio contributo resa manifesta dalla ricezione di un quantitativo talmente considerevole di cocaina che lo stesso aveva peraltro rivenduto, trattenendo il prezzo che non aveva interamente restituito al NOME COGNOME. come avrebbe dovuto fare, per il tramite di COGNOME) traluce con assoluta nitidezza dalle collimanti dichiarazioni rese in tal senso da COGNOME e COGNOME, corroborate esternamente dalle numerose conversazioni in cui lo stesso viene più volte indicato come uno dei due soggetti in ultimo cessionari dello stupefacente e quindi come tali debitori del NOME COGNOME.
Ricordano i giudici palermitani che la circostanza che il soggetto menzionato quale ‘NOME” nelle conversazioni fosse proprio il COGNOME emerge non soltanto dalla circostanza che egli stesso si presentasse come “NOME“, ma anche dal fatto che COGNOME e COGNOME si incontravano con lui e, ancora, dai riferimenti ai cavall di cui il COGNOME aveva disponibilità, oltre che anche dall’espressa menzione del suo nome e cognome nell’intercettazione contrassegnata al progressivo n. 1079 di cui parla la sentenza di primo grado a pagina 41 della motivazione. E, ancora, dalla telefonata contrassegnate al progressivo n. 8590, intrisa di palpabile preoccupazione e intercorsa tra l’odierno ricorrente ed il COGNOME proprio mentre COGNOME e COGNOME lo stavano sostanzialmente braccando al fine di riscuotere il credito del Drago COGNOME.
Dunque, anche quanto all’identificazione del “NOME” nel Tutino, la difesa non si confronta adeguatamente coi plurimi e decisivi fattori sottolineati nella sentenza impugnata con particolare riferimento alla conversazione intercettata, contenente l’esplicita indicazione del nome e del cognome dell’odierno imputato.
Non va trascurato che, quando il provvedimento impugnato, come nel caso che ci occupa, abbia interpretato fatti comunicativi, anche l’individuazione del contesto in cui si è svolto il colloquio e dei riferimenti personali in esso contenut onde ricostruire il significato di un’affermazione e identificare le persone alle quali abbiano fatto riferimento i colloquianti, costituisce attività censurabile in sede d legittimità solo quando si sia fondata su criteri inaccettabili o abbia applicato ta criteri in modo scorretto (Sez. 1, n. 25939 del 29/04/2024, L., Rv. 286599). Il che non è avvenuto nella sentenza in esame.
Infine, in tema di prove il contenuto di intercettazioni telefoniche captate fra terzi, da cui emergano elementi di accusa nei confronti dell’indagato, può costituire fonte probatoria diretta della sua colpevolezza, senza necessità di riscontro ai sensi dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., fatto salvo l’obbligo del giudice di valutare il significato delle conversazioni intercettate secondo criteri di lineari logica (Sez. 3, n. 10683 del 07/11/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 286150 – 04), il che pure appare avvenuto.
Manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso. Relativo alla dedotta insussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 73, comma 6, d.P.R. n. 309 del 1990.
Ricorrono gli estremi della circostanza aggravante contestata, secondo la logica motivazione del provvedimento impugnato, in quanto partecipavano alla vicenda criminosa quanto meno il COGNOME (cedente della sostanza), il COGNOME (acquirente), il COGNOME e il COGNOME (incaricati della rivendita).
Come ricorda la sentenza impugnata la difesa aveva dedotto in sede di gravame del merito che, secondo la tesi dell’accusa, recepita anche nella sentenza di primo grado, si sarebbe in presenza di una pluralità di rapporti sinallagmatici tra i vari concorrenti: COGNOME acquirente dal “broker” e cedente a COGNOME; questi a sua volta l’avrebbe poi parzialmente ceduta al COGNOME ed al COGNOME, trattandosi dunque di segmenti che non sarebbero riconducibili ad unità, perché a ragionare diversamente l’aggravante in parola dovrebbe contestarsi in tutti i casi di spaccio, ritenendo come compartecipi i produttori, i trafficanti, i grossisti, i terminali territoriali e, infine, gli spacciatori.
Ebbene, la Corte palermitana ha già motivatamente confutato anche tale tesi sul rilievo che, secondo una consolidata e condivisibile giurisprudenza di legittimità, in tema di sostanze stupefacenti, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante del concorso di tre o più persone di cui all’art. 73, comma 6, d.P.R. 309/1990, è necessario che la pluralità dei soggetti sia riferibile ad una soltanto delle condotte previste per l’integrazione del reato (offerta, eventuale intermediazione, acquisto, detenzione o altre), non essendo sufficiente solo l’indistinta attribuzione della pluralità delle condotte ai concorrenti, a prescindere dallo specifico ruolo di ciascuno di essi (così Sez. 1, n. 37686 del 17/06/2022, Avila, Rv. 283511 – 01, conf. Sez. 6, n. 10269 del 21/11/2013, dep. 2014, Metani, Rv. 261719 01).
Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inannmissi-
bilità (Corte cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pa- gamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della san-
zione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle am-
mende.
Così deciso il 11/06/2025