Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 35217 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 35217 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 29/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a BATTIPAGLIA il DATA_NASCITA NOME nato a NAPOLI il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 07/07/2023 della CORTE APPELLO di SALERNO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udite le conclusioni del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME, che ha chiesto di dichiarare inammissibili i ricorsi; udite le conclusioni dell’AVV_NOTAIO, per COGNOME NOME, che ha chiesto di accogliere il ricorso; udite le conclusioni dell’AVV_NOTAIO, per COGNOME NOME, che ha chiesto di
accogliere il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La sentenza impugnata è stata pronunziata il 7 luglio 2023 dalla Corte di appello di Salerno, che ha confermato la sentenza del Tribunale di Salerno che aveva condannato COGNOME NOME per un episodio di estorsione tentata e un episodio di estorsione consumata e COGNOME NOME per la partecipazione ad associazione per delinquere di tipo camorristico.
Secondo l’ipotesi accusatoria, citenuta fondata dai giudici di merito, il COGNOME avrebbe partecipato a un’associazione di carattere mafioso (diretta e organizzata da COGNOME NOME) finalizzata alla commissione di più delitti contro il patrimonio, contro la persona e contro l’economia, operante in Bellizzi, Montecorvino Rovella, Battipaglia e zone limitrofe (capo 1).
Il COGNOME, invece, avrebbe – in concorso con altri soggetti e con metodo mafioso – minacciato COGNOME NOME ai fine di costringerlo a consegnare ai correi del denaro («si dovrebbe fare un pensiero a NOME»), conseguendo inizialmente la somma di euro 50,00, poi restituita alla persona offesa, che era stata ulteriormente minacciata, in quanto la precedente elargizione era stata ritenuta di entità irrisoria (capo 2).
Il COGNOME, inoltre, avreobe – in concorso con altri soggetti e con metodo mafioso – compiuto atti idonei diieui ti nodo (100 equivoco a costringere COGNOME NOME NOME corrispondere somme di denaro («dobbiamo portare un contributo ai nostri amici carcerati»), evento non verificatosi per cause indipendenti dalla volontà dei rei (capo 3).
Avverso la sentenza della Corte di appello, entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione a mezzo dei loro difensori.
Il ricorso di NOME si compone di un unico motivo, con il quale il ricorrente deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 416-bis cod. pen.
Il ricorrente contesta la rnotivazione della sentenza impugnata, sostenendo che non sarebbe stata raggiunta ia prova né deii’elemento soggettivo né dell’elemento oggettivo dei reato. L’imputalo non avreobe fornito un consapevole e stabile contributo all’associazione, ma si sarebbe limitato ad avere con essa contatti occasionali e limitati nel tempo, dovuti all’attività lavorativa da lui svolta. Egli si sarebbe limitato a svoigere un’attività di intermediazione nella fornitura dei videogiochi e di saltuario controllo degli apparecchi installati. Sarebbe stato, in ogni caso, all’oscuro delle modalità con le quali il clan imponeva l’istallazione degli apparecchi agli esercenti.
Il ricorrente evidenzia che: l’imputato non aveva commesso alcun reato-fine; era poco conosciuto dai collaboratori di giustizia; non aveva ricevuto alcun tipo di sostegno dal clan al momento del suo arresto.
Tra le condotte contestate all’imputato, l’unica di effettiva rilevanza sarebbe quella di avere contribuito alla vita dell’associazione, tramite la sua attività d brokeraggio. Il ricorrente, però, sostiene che l’istruttoria non avrebbe consentito di ricostruire l’effettiva somma che l’imputato avrebbe movimentato con la sua attività di intermediazione, essendo emerso solo che vi fosse un accordo tra il clan e l’imputato di spartizione delle somme introitate al 50%, ma non l’ammontare dei ricavi effettivamente conseguiti. Palese, pertanto, sarebbe la carenza di prova, con riferimento allo specifico contributo causale che l’imputato avrebbe fornito rispetto all’evento tipico.
Dalle conversazioni telefoniche intercettate, inoltre, non sarebbe emerso che l’imputato fosse effettivamente a conoscenza delle finalità del gruppo e che le condividesse.
Il ricorrente sostiene che la Corte di appello avrebbe travisato il significato della conversazione tra l’imputato e COGNOME NOME, intercettata il 10 aprile 2008, ritenendo erroneamente che, nel corso di essa, l’imputato avrebbe fatto riferimento a «un intervento risolutore del sodale» nei confronti di un esercente, rappresentativo dell’agire mafioso, quando, invece, il tono del dialogo dimostrerebbe che si trattava solo di un invito al COGNOME di passare da quell’esercente.
Dalle conversazioni, non sarebbe emerso che l’imputato fosse a conoscenza delle modalità con le quali il clan imponeva l’installazione dei video-poker agli esercenti. Significativa, inoltre, sarebbe anche l’affermazione del capitano COGNOME, che avrebbe affermato che l’imputato non poteva essere considerato un associato.
Il ricorso di NOME si compone di due motivi.
4.1. Con un primo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 192 e 533 cod. proc. pen.
Il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata, sostenendo che la Corte di appello avrebbe operato una «irragionevole selezione degli elementi di prova», valorizzando le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e trascurando completamente le dichiarazioni rese dalle persone offese, che non avevano riconosciuto l’imputato quale autore delle richieste estorsiva. La Corte di appello avrebbe giustificato la propria decisione «sulla globale interpretazione degli elementi acquisiti», utilizzando una formula priva di efficacia esplicativa, che non
consentirebbe di comprendere quali siano stati effettivamente gli elementi posti a fondamento del giudizio di responsabilità.
Le dichiarazioni dei collaboratori, peraltro, non sarebbero state adeguatamente valutate e sarebbero state ritenute attendibili, in violazione della regola probatoria di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., nonostante l’assenza di riscontri esterni.
Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sarebbero contraddittorie tra di loro e soprattutto si porrebbero in palese contrasto con le dichiarazioni rese dalle persone offese.
Il ricorrente, in particolare, contesta il giudizio di attendibilità relativo dichiarazioni rese da COGNOME NOME, rispetto alle quali la difesa aveva evidenziato non solo la mancanza di riscontri estrinseci ma anche la «scarsa tenuta logica del suo dichiarato», con specifico riferimento al dato temporale della frequentazione dell’imputato con gli altri associati e con riferimento alle inesattezze riferite in ordine all’auto dell’imputato. La Corte di appello avrebbe tentato di «armonizzare il contenuto dichiarativo del collaboratore alle altre acquisizioni probatorie», violando, però, le regole di giudizio poste dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen.
Il ricorrente sostiene che le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, in ordine alle presunte richieste estorsive, sarebbero completamente smentite dalle testimonianze delle persone offese, che non avevano riconosciuto nell’imputato la persona che avrebbe commesso i reati. Particolare rilievo assumerebbero le dichiarazioni rese dalla persona offesa COGNOME NOME, che, non solo non avrebbe riconosciuto l’imputato, ma, nel descrivere l’autore del reato, avrebbe fatto riferimento a un giovane di 25 anni, mentre, all’epoca del fatto, l’imputato ne aveva già 40.
La Corte di appello avrebbe disatteso le deduzioni difensive relative alle dichiarazioni rese dalle persone offese, senza fornire una giustificazione giuridicamente plausibile.
Palese, in ogni caso, sarebbe la violazione della regola di giudizio del ragionevole dubbio.
4.2. Con un secondo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 192 e 533 cod. proc. pen. e 7 n. 203 del 1991.
Il ricorrente contesta l’applicazione dell’aggravante oggi prevista dall’art. 416bis.1 cod. pen., sostenendo che la sentenza sarebbe priva di adeguata motivazione in ordine alle censure mosse dalla difesa in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi della circostanza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.
Il ricorso di NOME è inammissibile.
2.1. L’unico motivo di ricorso è inammissibile.
Con esso, il ricorrente ha articolato alcune censure che sono dirette a ottenere una non consentita rivalutazione delle fonti probatorie e un inammissibile sindacato sulla ricostruzione dei fatti operata dalla Corte di appello (cfr. Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944; Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, COGNOME). Egli, in realtà, non ha dedotto alcun effettivo travisamento della prova o una manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato, ma ha offerto al giudice di legittimità alcuni elementi frammentari molti dei quali basati su mere asserzioni – che tendono a sollecitare un’inammissibile rivalutazione dei fatti nella loro interezza (Sez. 3, n. 38431 del 31 gennaio 2018, COGNOME, Rv. 273911).
Va solo osservato che la Corte di appello, con motivazione adeguata, coerente e priva di vizi logici, ha ricostruito i fatti in conformità all’ipotesi accusato rispondendo anche alle censure mosse con l’atto di appello (cfr. pagine 4 e ss. della sentenza impugnata).
Il particolare, la Corte di appello ha riportato e rigorosamente analizzato le prove a carico dell’imputato, costituite dalle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, dalle testimonianze e dalle conversazioni intercettate.
Ha ritenuto che, da tali prove, emergesse in maniera univoca la partecipazione attiva, consapevole e volontaria dell’imputato al consorzio delinquenziale, con un ruolo ben definito e di primaria importanza per la vita sociale. L’imputato, in piena adesione al pactum sceleris, aveva reperito, nell’interesse del gruppo, i videopoker da installare all’interno degli esercizi commerciali individuati dall’associazione; si era occupato dell’installazione, della manutenzione e, quando necessario, della manomissione degli stessi; aveva fatto il giro delle attività commerciali, segnalando agli accoliti i gestori “inadempimenti” e chiedendo agli stessi un intervento risolutore; si era occupato della riscossione del denaro e della corresponsione dello stesso a COGNOME NOME; aveva fornito rassicurazioni al gruppo circa il buon andamento dell’attività illecita e, in particolare, al «compare COGNOME»; aveva frequentato gli accoliti nel periodo di cui al capo d’accusa, intrattenendo con gli stessi colloqui telefonici, mediante l’utilizzazione di «sim di comodo», aventi a oggetto gli affari criminosi ovvero incontrandosi di persona con loro; aveva dimostrato di volere trarre profitto dall’attività illecita di cu contestazione, avvalendosi «dell’aura criminale» promanante dal gruppo e dei metodi «poco convenzionali» utilizzati dagli associati nell’imporsi agli esercenti.
Va, poi, rilevato che, con riferimento alla conversazione tra il COGNOME e il COGNOME, intercettata il 10 aprile 2008, i giudici di merito non sono incorsi in alcun effettivo travisamento di prova.
Il vizio di “travisamento della prova” (o di contraddittorietà processuale come lo qualifica la dottrina più attenta) chiama in causa, in linea generale, le ipotesi di infedeltà della motivazione rispetto al processo e, dunque, le distorsioni del patrimonio conoscitivo valorizzato dalla motivazione rispetto a quello effettivamente acquisito nel giudizio.
Tre sono le figure di patologia della motivazione riconducibili al vizio in esame: la mancata valutazione di una prova decisiva (travisamento per omissione); l’utilizzazione di una prova sulla base di un’erronea ricostruzione del relativo “significante” (cd. travisamento delle risultanze probatorie); l’utilizzazione di una prova non acquisita al processo (cd. travisamento per invenzione).
I questi casi non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano (cfr. tra le altre Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, COGNOME, Rv. 238215).
Invero il vizio di “contraddittorietà processuale” vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell’esatta trasposizione nel ragionamento del giudice del dato probatorio nei termini di una “fotografia”, neutra e a-valutativa, del “significante”, ma non del “significato”, atteso il persistente divieto di rilettur e di re-interpretazione nel merito dell’elemento di prova (Sez. 1, n. 25117 del 14/07/2006, COGNOME, Rv. 234167; Sez. 5, n. 36764 del 24/05/2006, COGNOME, Rv. 234605).
Ebbene, nel caso in esame, il ricorrente non deduce alcuna delle patologie sopraesposte, ma in realtà chiede a questa Corte di reinterpretare il contenuto della conversazione, in considerazione del particolare «tono» del «dialogo».
Quanto, infine, all’affermazione del capitano COGNOME, che avrebbe affermato che l’imputato non poteva essere considerato un associato, va rilevato che la valutazione e la qualificazione giuridica della condotta degli imputati spetta al giudice e non certo a un teste di polizia giudiziaria.
Il ricorso di NOME è inammissibile.
3.1. Il primo motivo è inammissibile.
Anche tale motivo, infatti, è completamente versato in fatto. Con esso, il ricorrente ha articolato alcune censure che, pur essendo state da lui riferite alle categorie dei vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, non evidenziano alcuna effettiva violazione di legge né travisamenti di prova o vizi di manifesta logicità emergenti dal testo della sentenza, ma sono, invece, dirette a ottenere una non consentita rivalutazione delle fonti probatorie e un inammissibile sindacato sulla ricostruzione dei fatti operata dalla Corte di appello.
Quanto alla regola dell’«oltre ogni ragionevole dubbio» invocata dal ricorrente, in linea con la giurisprudenza di questa Corte, va ricordato che essa non può essere adoperata quale parametro di violazione di legge, perché in tal modo si finirebbe per censurare la motivazione al di là dei casi di cui all’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., richiedendo così al giudice di legittimità un’autonoma valutazione delle fonti di prova che esula dai suoi poteri (Sez. 3, n. 24574 del 12/03/2015, COGNOME, Rv. 264174). Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, il parametro di valutazione di cui all’art. 533 cod. proc. p ha ampi margini di operatività solo nella fase di merito, quando può essere proposta una ricostruzione alternativa, mentre in sede di legittimità tale regola rileva solo allorché la sua inosservanza si traduca in una manifesta illogicità della motivazione (Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017, COGNOME e altri, Rv. 270108).
Va, in ogni caso, osservato che la Corte di appello, con motivazione adeguata, coerente e priva di vizi logici, ha ricostruito i fatti in conformità all’ipot accusatoria, rispondendo anche alle censure mosse con l’atto di appello (cfr. pagine 8 e ss. della sentenza impugnata).
Il particolare, la Corte territoriale ha riportato e rigorosamente analizzato le prove a carico dell’imputato, costituite dalle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia e dai testi.
Va poi rilevato che risulta del tutto infondata la presunta violazione della regola di valutazione delle chiamate in correità, atteso che la Corte di appello ha riscontrato le dichiarazioni rese dai collaboratori COGNOME e COGNOME con quelle rese dagli altri collaboratori e dai testi nonché con gli accertamenti di polizia giudiziaria.
Ha evidenziato, poi, come le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia fossero concordanti tra di loro e coerenti con l’impostazione accusatoria.
Manifestamente infondate risultano le censure mosse con specifico riferimento alle dichiarazioni rese da COGNOME NOME, che sono state rigorosamente riportate ed analizzate dalla Corte di appello (cfr. in particolare le pagine 9, 11 e 12), che ha correttamente evidenziato come scarsamente significative fossero minime discrasie registrate nel suo narrare (come, a esempio, quelle relative alla specifica marca dell’auto posseduta dall’imputato), che risultavano invece comprensibili in considerazione del tempo trascorso tra il momento dei fatti e quello in cui le dichiarazioni venivano rese.
La Corte di appello ha anche valutato il mancato riconoscimento dell’imputato da parte delle persone offese, evidenziando che, se era vero che le vittime non avevano riconosciuto l’imputato, era altrettanto vero che non avevano escluso che il COGNOME potesse essere uno degli autori della richiesta estorsiva. Ha poi evidenziato che, con riferimento al mancato riconoscimento nell’immediatezza dei fatti, andava tenuto conto che gli album fotografici sottoposti in visione alle vittime
non recavano alcuna effige raffigurante l’imputato, come attestato dalla documentazione in atti e come spiegato dai testi di polizia giudiziaria. Si tratta di una motivazione adeguata, rispetto alla quale il ricorrente non ha evidenziato alcun effettivo travisamento di prova o determinante vizio logico.
3.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
La Corte di appello, invero, nel rispondere alle censure mosse con il gravame, ha ampiamento motivato in ordine alla sussistenza dell’aggravante.
In particolare, ha ritenuto, senza incorrere in alcun vizio logico, che la sussistenza dell’aggravante emergesse in maniera evidente dai seguenti elementi: la provenienza della richiesta di denaro da un gruppo di persone; l’esplicito riferimento ad un capo clan; la chiara allusione a “tangenti” già versate dal defunto padre della vittima in favore degli associati; l’offerta di protezione; il riferimento agli “amici carcerati” e cioè al sostentamento degli associati detenuti; il riferimento a persone in posizione sovraordinata, alle quali riferire l’eventuale rifiuto della vittima.
Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi per cassazione, consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende, che deve determinarsi in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso, il 29 maggio 2024.