Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 18641 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 18641 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 15/04/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME nato a TARANTO il 10/12/1982 COGNOME NOME nato a TARANTO il 25/06/1978
avverso la sentenza del 05/07/2024 della CORTE APPELLO di LECCE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 5 luglio 2024, la Corte di appello di Lecce, giudicando sull’appello proposto da NOME COGNOME, NOME COGNOMEe altri imputati che non hanno proposto ricorso), ha riformato in parte la sentenza pronunciata – all’esito di giudizio abbreviato – dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce.
Per quanto rileva in questa sede, la Corte di appello ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di cui al capo 33) della rubrica (violazioni degli artt. 110 co pen. e 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 risalenti al 27 luglio 2016) del quale COGNOME era stato ritenuto responsabile in primo grado; ha diversamente qualificato come violazione degli artt. 110 cod. pen. e 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90 il fatto contestato a COGNOME al capo 39); ha confermato l’affermazione della penale responsabilità di COGNOME quale partecipe dell’associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti di cui al capo 1), già diversamente qualificata come violazione dell’art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/90 dal Giudice di primo grado. Per l’effetto, la pena inflitta a COGNOME è stata rideterminata – ritenuta la continuazio tra i reati di cui ai capi 1) e 39) e operata la diminuzione di pena conseguente alla scelta del rito – in anni uno e mesi sei di reclusione.
La sentenza di primo grado è stata parzialmente riformata anche con riferimento alla posizione di NOME COGNOME. La Corte di appello ha confermato l’affermazione della penale responsabilità di RAGIONE_SOCIALE per il reato di cui al capo 50) della rubrica (l’unico del quale egli è imputato), ma ha diversamente qualificato il fatto come violazione degli artt. 110 cod. pen. e 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90. Per l’effetto, la pena inflitta a RAGIONE_SOCIALE è stata rideterminata nel misura di mesi otto di reclusione ed C 1.000,00 di multa.
Contro la sentenza della Corte di appello, hanno proposto ricorso, nell’interesse dei propri assistiti, i difensori di fiducia di NOME COGNOME e NOME COGNOME
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME consta di un unico motivo col quale il difensore deduce «mancanza di motivazione con riguardo alla qualificazione giuridica del fatto» sostenendo che la Corte di appello ha valutato corretta questa qualificazione giuridica «senza alcuna esposizione, per quanto concisa, dei motivi di fatto e di diritto» sui quali la decisione si fonda. Quanto a trattamento sanzionatorio, il difensore rileva testualmente: «nella motivazione della sentenza vi è sic et simpliciter, una sintetica esposizione del fatto-reato, senza idonea rappresentazione delle questioni di fatto e di diritto che hanno portato il giudice a ritenere congrua e idonea la pena».
Il ricorso proposto nell’interesse di Vito RAGIONE_SOCIALE consta di due motivi.
4.1. Col primo motivo, il difensore deduce violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. e vizi di motivazione quanto all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato. Secondo la difesa, la Corte di appello è giunta a questa conclusione sostenendo che, nel corso di un incontro avvenuto il 18 settembre 2016, Lo Prestite consegnò a NOME COGNOME una busta contenente sostanza stupefacente senza spiegare però da cosa potrebbe desumersi che quella busta conteneva stupefacenti. In tesi difensiva, a ciò deve aggiungersi che, dopo essersi incontrato con RAGIONE_SOCIALE, COGNOME fu ripreso da una telecamera mentre scendeva dalla propria auto tenendo in mano una busta bianca e (anche ammettendo che quella busta contenesse stupefacenti) sarebbe stato necessario spiegare perché dovrebbe essere stato proprio Lo Prestite a consegnarla a COGNOME e cosa consenta di escludere che la busta fosse nella macchina di COGNOME anche prima dell’incontro.
4.2. Col secondo motivo, il difensore deduce vizi di motivazione dolendosi che non sia stato ritenuto il vincolo della continuazione tra il fatto per cui si procede (in tesi accusatoria commesso il 18 settembre 2016) e altri fatti commessi nel gennaio del 2017, giudicati con sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Taranto del 12 maggio 2017 (irrevocabile il 13 luglio 2019). Il difensore osserva che, come emerge dall’informativa conclusiva sull’esito delle indagini predisposta dalla Questura di Taranto, nel periodo monitorato nell’ambito del presente procedimento, COGNOME custodiva sostanza stupefacente per COGNOME. Il difensore sottolinea che tra la fine del periodo monitorato (ottobre 2016) e il fatto oggetto di condanna definitiva (gennaio 2017) è trascorso un breve periodo di tempo dal quale può desumersi l’unicità del disegno criminoso.
Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi.
Il difensore di NOME COGNOME ha replicato con memoria del 31 marzo 2025, insistendo per l’accoglimento del ricorso proposto nell’interesse del proprio assistito.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi di ricorso non superano il vaglio di ammissibilità.
Quanto al ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME basta osservare che le doglianze formulate sono aspecifiche. La difesa si duole della
qualificazione giuridica del fatto, ma non indica a quale tra i reati oggetto di condanna tale doglianza si riferisca e non spiega perché tale qualificazione giuridica dovrebbe essere diversa da quella ritenuta in sentenza. Si duole poi della entità della pena inflitta senza spiegare per quali ragioni questa pena sarebbe eccessiva.
Basta dunque osservare:
che, secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti e attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale assolve al relativo obbligo di motivazione se dà conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. o richiama alla gravità del rea o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 271243; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, COGNOME, Rv. 256197);
che la pena media edittale non deve essere calcolata dimezzando il massimo edittale previsto per il reato, ma dividendo per due il numero di mesi o anni che separano il minimo dal massimo edittale ed aggiungendo il risultato così ottenuto al minimo (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Del Papa, Rv. 276288);
che, secondo la Corte di appello (pag. 15 della motivazione), COGNOME svolgeva nella associazione il ruolo di fornitore e questo ruolo è stato ritenuto indicativo «di uno stabile inserimento in più ampi contesti di narcotraffico»;
che la pena edittale prevista per il partecipe di una associazione ex art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/90 va da un minimo di un anno a un massimo di cinque anni di reclusione;
che la pena base per il reato di cui al capo 1) (qualificato il fatto come violazione dell’art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/90) è stata indicata in anni due di reclusione (dunque in una misura inferiore alla media edittale) e l’aumento per continuazione per il reato di cui al capo 39) (qualificato il fatto come violazione dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90) è stato determinato nella misura (in sé modesta) di mesi tre di reclusione giungendo così alla pena di anni due e mesi tre di reclusione, ridotta, per la scelta del rito abbreviato, alla pena finale di anni un e mesi sei di reclusione.
NOME COGNOME è stato ritenuto responsabile del reato di cui al capo 50) per aver consegnato sostanza stupefacente a NOME COGNOME che doveva consegnarla a NOME COGNOME e, tramite lui, ad NOME COGNOME incaricato della vendita al dettaglio. Non essendo stata accertata la quantità della sostanza, la
Corte di appello ha qualificato il fatto come violazione dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90.
Dalla lettura della sentenza impugnata e di quella di primo grado – che possono essere lette congiuntamente e costituiscono un unico complessivo corpo decisionale – risulta che si è giunti all’affermazione della penale responsabilità sulla base dell’esito di intercettazioni telefoniche e del contenuto di riprese eseguite da telecamere installate di fronte al portone delle abitazioni degli imputati.
I giudici di merito hanno ritenuto che le conversazioni telefoniche intercorse tra RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE fin dal mattino del 18 settembre 2016 per concordare un incontro fossero finalizzate alla consegna di stupefacente e, per questo, pur essendosi contattati più volte, i due non esplicitarono mai per quali ragioni dovevano vedersi. Hanno rilevato inoltre che, come le intercettazioni telefoniche documentano, l’incontro avvenne effettivamente intorno alle 19:00 e hanno sottolineato che, come emerge dai filmati, COGNOME si recò a quell’incontro in auto partendo da casa e, pochi minuti dopo, rientrò in auto nel cortile del palazzo sul quale affacciano la sua abitazione e quella di Pulito, scese dalla macchina tenendo in mano una busta bianca e andò direttamente a casa di Pulito. Le sentenze di primo e secondo grado riferiscono poi che, mentre COGNOME era a casa di Pulito, questi telefonò ad NOME COGNOME per convocarlo e COGNOME sopraggiunse dopo pochissimo, si trattenne in casa un minuto e mezzo ed uscì.
Secondo i giudici di merito, la busta bianca che COGNOME aveva in mano conteneva hashish ed era stata consegnata a COGNOME da Lo Prestite nell’incontro documentato dalle intercettazioni telefoniche. La sostanza era destinata alla vendita al dettaglio, della quale COGNOME aveva incaricato RAGIONE_SOCIALE. A sostegno di tali conclusioni la sentenza impugnata osserva che, come emerso dalle indagini, COGNOME e COGNOME custodivano la sostanza stupefacente in un nascondiglio posto all’interno del palazzo nel quale si trova l’abitazione di RAGIONE_SOCIALE. La sentenza riferisce che, in numerose occasioni (in specie, il 21 agosto 2016, il 4 settembre 2016, 1’11 settembre 2016 e il 9 ottobre 2016), dopo aver preso appuntamento con l’odierno ricorrente, COGNOME si incontrò con Pulito sotto casa di RAGIONE_SOCIALE. Riferisce, inoltre, che, in tutti questi casi, le immagini delle telecamere provano che i due uomini entravano nel portone e ne uscivano tenendo in mano buste, involucri o addirittura – come si legge a pag. 18 della sentenza impugnata «panetti di stupefacente». Dalla sentenza impugnata si apprende che il 18 settembre 2016 era domenica e anche il 21 agosto, il 4 settembre, 1’11 settembre e il 9 ottobre 2016 cadevano di domenica. Da ciò gli inquirenti hanno desunto che, alla domenica, COGNOME e COGNOME si approvvigionavano della sostanza, che era custodita nello stabile ove si trova l’abitazione di Lo Prestite. I giudici di appel hanno valutato questo quadro indiziario grave preciso e concordante nel senso
dell’affermazione della penale responsabilità di RAGIONE_SOCIALE per l’episodio del 18 settembre 2016. Hanno sottolineato a tal fine che, quel giorno, COGNOME non si recò nel palazzo in cui abitava RAGIONE_SOCIALE, ma gli chiese un incontro e questo incontro avvenne. Hanno osservato poi: che COGNOME andò da COGNOME solo dopo questo incontro; che l’incontro ebbe brevissima durata; che COGNOME vi si recò in macchina partendo dal cortile di casa e nel cortile tornò alla guida della stessa auto; che, al ritorno, COGNOME scese dalla macchina con una busta bianca in mano e si recò da COGNOME; che, subito dopo, COGNOME convocò a casa propria Intramite. Secondo i giudici di merito, l’insieme di questi elementi prova che il 18 settembre 2016 Lo Prestite consegnò hashish a COGNOME. La tesi sostenuta dalla difesa, secondo la quale la busta bianca avrebbe potuto essere in macchina già prima dell’incontro, infatti, non è compatibile con le emergenze investigative e ha carattere congetturale; come è congetturale l’affermazione secondo la quale la busta bianca poteva non contenere hashish. La sentenza impugnata rileva che questa ipotesi è incompatibile con l’esito delle indagini dalle quali risulta che COGNOME e COGNOME custodivano la sostanza stupefacente nello stabile in cui si trova l’abitazione di Lo Prestite.
Il ricorrente non si confronta con queste argomentazioni. Reitera, infatti, gli stessi motivi prospettati con l’atto di appello e lamenta, in maniera generica, una presunta carenza o illogicità della motivazione. Invoca, dunque, una inammissibile considerazione alternativa del compendio probatorio e una rivisitazione del potere discrezionale riservato al giudice di merito in punto di valutazione della prova senza confrontarsi in termini specifici con l’iter logico-giuridico seguito dai giudic di appello per affermare la responsabilità penale. Ne consegue l’aspecificità e, quindi, l’inammissibilità del motivo (tra le tante: Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, COGNOME, Rv. 276970; Sez. 3, n. 3953 del 26/10/2021, dep. 2022, COGNOME Rv. 282949).
4. Co! secondo motivo del ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME il difensore deduce violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. dolendosi che i giudici di primo e secondo grado non abbiano ritenuto il vincolo della continuazione tra i fatti giudicati con sentenza del Giudice per le indagini preliminari di Taranto del 12 maggio 2017 (irrevocabile il 13 luglio 2019) e il fatto per cui si procede.
Dalla sentenza di primo grado (pag. 13 della motivazione) si apprende che la sentenza irrevocabile ha ad oggetto la detenzione a fini di spaccio di 700 grammi di hashish, suddivisi in sette panetti, che furono rinvenuti presso l’abitazione di Lo Prestite il 27 gennaio 2017 a seguito di una perquisizione domiciliare. La difesa osserva che, nel presente procedimento, Lo Prestite è stato ritenuto responsabile
di aver ceduto un quantitativo imprecisato di hashish a NOME COGNOME, ma a queste conclusioni si è giunti sostenendo che COGNOME e COGNOME custodivano l’hashish da destinare alla vendita all’interno dello stabile ove si trova l’abitazione del ricorrente. Il difensore rileva che, secondo gli inquirenti, COGNOME fungeva da custode della sostanza e la Corte di appello ha condiviso tale ricostruzione. Sostiene, dunque, che la condotta accertata il 27 gennaio 2017 è analoga a quella per la quale si procede atteso che, in entrambi i casi, RAGIONE_SOCIALE ha custodito hashish.
Com’è noto, «l’identità del disegno criminoso, che caratterizza l’istituto disciplinato dall’art. 81, comma secondo, cod. pen., postula che l’agente si sia previamente rappresentato e abbia unitariamente deliberato una serie di condotte criminose» (Sez. 1, n. 15955 del 08/01/2016, Eloumari, Rv. 266615; Sez. 1, n. 1253 del 15/03/1994, COGNOME, Rv. 198919). Per riconoscere se tale situazione sia o meno sussistente, è necessario fare riferimento ad alcuni indicatori concreti «quali l’omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spaziotemporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita» (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, COGNOME, Rv. 270074). Questi indici devono essere valutati per verificare se i reati successivi al primo siano «frutto di una determinazione estemporanea» o di un disegno preesistente.
La Corte di appello ha ritenuto che, nel caso di specie, non vi fossero elementi concreti idonei a porre in relazione la detenzione del 27 gennaio 2017 con quella oggetto del presente procedimento e ha sottolineato che la difesa non aveva fornito argomenti in tal senso. Ha rilevato inoltre che, nel presente procedimento, RAGIONE_SOCIALE è accusato di aver ceduto hashish a COGNOME e nulla consente di affermare che una detenzione accertata più di quattro mesi dopo sia espressione di un disegno criminoso unitario, tanto più che RAGIONE_SOCIALE non è stato chiamato a rispondere della partecipazione alla associazione di cui al capo 1) (in tesi accusatoria promossa e organizzata da RAGIONE_SOCIALE e COGNOME).
Secondo la difesa, così argomentando la sentenza impugnata sarebbe caduta in contraddizione perché, da un lato, ha attribuito a RAGIONE_SOCIALE il ruolo di custode dell’hashish detenuto da COGNOME e COGNOME; dall’altro, ha escluso che la sostanza rinvenuta il 27 gennaio 2017 potesse essere detenuta per conto di terzi.
Si deve rilevare tuttavia: che, secondo la sentenza impugnata, COGNOME e COGNOME custodivano hashish nello stabile abitato da Lo Prestite, ma l’odierno ricorrente non è stato accusato di aver detenuto hashish in casa propria; che, infatti, egli è stato chiamato a rispondere di un’unica cessione realizzata il 18 settembre 2016 portando a COGNOME sostanza proveniente dal nascondiglio utilizzato dallo stesso COGNOME e da COGNOME. Secondo i giudici di merito, i fat
accertati dimostrano che RAGIONE_SOCIALE è «incline a condotte del tipo di quella contestata» (pag. 20 della sentenza impugnata) ed è inserito «in circuiti dediti al
narcotraffico» (pag. 14 della sentenza di primo grado), ma da ciò non può
desumersi che, quando commise il reato per cui oggi si procede, egli avesse già
programmato quello accertato a gennaio dell’anno seguente. La motivazione è
congrua, scevra da profili di contraddittorietà o manifesta illogicità e conforme ai principi di diritto che regolano la materia. Ne consegue che il motivo è
manifestamente infondato.
5. Poiché i ricorsi sono inammissibili, non deve essere dichiarata la prescrizione che sarebbe maturata dopo la sentenza d’appello.
La giurisprudenza di questa Corte di legittimità, infatti, ha più volte ribadito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione non consente il formarsi di un valido
rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen (così
Sez. U. n. 32 del 22/11/2000, COGNOME, Rv. 217266 relativamente ad un caso in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. U., n. 23428 del 2/3/2005, COGNOME, Rv. 231164, e Sez. U. n. 19601 del 28/2/2008, COGNOME, Rv. 239400; Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, COGNOME, Rv. 256463).
Alla dichiarazione di inammissibilità consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che í ricorrenti non versassero in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve essere disposto a carico di ciascuno di loro, a norma dell’art.616 cod. proc. pen., l’onere di versare la somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, così determinata in considerazione delle ragioni di inammissibilità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 15 aprile 2025