Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 22301 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 22301 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME, nato a Incisa Scapaccino il DATA_NASCITA COGNOME NOME, nato a Milano il DATA_NASCITA COGNOME NOME, nato a Torino il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 24/10/2023 della Corte di appello di Milano visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Presidente;
udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO generale NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio del provvedimento gravato limitatamente alle pene accessorie applicate a COGNOME NOME e COGNOME NOME e rigetto nel resto dei ricorsi; rigetto del ricorso di COGNOME NOME;
udito per l’imputato COGNOME l’AVV_NOTAIO che ha concluso riportandosi ai motivi scritti ed evidenziando la prescrizione dei reati.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 24/10/2023, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza emessa in data 03/02/2022 dal Tribunale di Milano (con la quale gli attuali ricorrenti- COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME– erano stati dichiarati responsabili del reato di cui all’art. 416, comma 1, cod.pen. e dei correlati reati fine), dichiarava non doversi procedere nei confronti degli attuali ricorrenti in ordine ai reati contestati ai capi a) e b) limitatamente alle dichiarazio presentate nel 2011 e nel 2012, d), f), g), h),i),v),w),x), ff), gg), hh), per ess gli stessi estinti per prescrizione e rideterminava le pene principali inflitte ag imputati, confermando nel resto.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, a mezzo dei difensori di fiducia, articolando i motivi di seguito enunciati.
COGNOME NOME propone due motivi di ricorso.
Con il primo motivo deduce omessa motivazione su specifiche doglianze mosse con l’atto di appello e violazione di legge in relazione agli artt. 127, 130, 522 cod.proc.pen., 2 d.lgs 74/2000.
Lamenta che la Corte di appello aveva ritenuto integrato il delitto di dichiarazione fraudolenta in relazione alla contestazione di cui al capo b), confermando la correzione di errore materiale effettuata dal Tribunale con l’indicazione “al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto”, così riconducendo il fatto nell’alveo della rilevanza penale, e ritenendo, poi, in re ipsa la prova della finalità evasiva in capo al legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE; in realtà, si trattava di errore essenziale e non materiale e, non avendo il pubblico ministero provveduto a modificare il capo di imputazione, si era determinata la nullità della sentenza per difetto di correlazione tra l’imputazione contestata e la condanna.
Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio.
Lamenta che la Corte di appello, nel rideterminare il trattamento sanzionatorio, aveva espresso una motivazione carente in ordine agli aumenti di pena a titolo di continuazione, non aveva individuato con precisione la violazione più grave ed aveva commesso un grossolano errore di calcolo.
Evidenzia, poi, che la Corte di appello non aveva rivalutato la durata delle pene accessorie e non rivalutato l’entità della confisca in relazione al principio di irretroattività dell’art. 578-bis cod.proc.pen.
NOME propone due motivi di ricorso.
Con il primo motivo deduce violazione dell’art. 10 d.lgs 74/2000, lamentando che la Corte aveva erroneamente ritenuto integrato il reato sulla base del mero mancato reperimento delle scritture contabili presso le sedi delle società di cui alle imputazioni, valorizzando una condotta omissiva nell’applicazione di una norma che presuppone, invece, un delitto commissivo.
Con il secondo motivo deduce violazione degli artt. 133 cod.pen. e 12 dlgs 74/2000, lamentando che la Corte di appello, pur dichiarando prescritti 11 dei 13 reati per i quali era intervenuta sentenza di condanna, non aveva rivalutato la durata delle pene accessorie.
COGNOME NOME propone due motivi.
Con il primo motivo deduce violazione degli artt. 8 e 16 cod.proc.pen.e vizio di motivazione.
Lamenta l’erronea individuazione della competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Milano in luogo di quella di Asti, nonostante emergesse che in Asti era stata costituita l’associazione criminosa di cui all’art 416 cod.pen. contestata al capo a) – reato più grave che attrae la competenza ai sensi dell’art. 16 cod.proc.pen.- concretandosi in tale luogo sia le condotte di partecipazione che di organizzazione; i Giudici merito avevano, invece, dato rilievo in maniera illogica ed in contrasto con il disposto dell’art. 8, comma 3, cod.proc. pen – che dispone che in materia di reati permanenti la competenza si radica nel luogo di inizio della consumazione- al luogo di operatività dell’associazione coincidente con quello di consumazione dei reati-fine.
Con il secondo motivo deduce violazione dell’art. 2 d.lgs 74/2000 e vizio di motivazione.
Argomenta che la Corte di appello aveva affermato la qualità del ricorrente di amministratore di fatto e confermata la condanna per la residua imputazione di cui al capo e) limitandosi a richiamare le statuizioni del primo giudice; in realtà, dalle dichiarazioni rese dal COGNOME, dalle conversazioni Skype e dalle dichiarazioni rese dal teste COGNOME, emergeva unicamente che il ricorrente era un dipendente della società RAGIONE_SOCIALE e stretto collaboratore del COGNOME; nessun elemento probatorio confortava, inoltre, l’affermazione che il ricorrente fosse amministratore della RAGIONE_SOCIALE, basata, invece, su mere congetture.
E’ stata chiesta dalla difesa la trattazione orale del ricorso. Il Pg ha depositato memoria ex art. 616 cod.proc.pen., nella quale ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio limitatamente alle pene accessorie applicate a COGNOME e COGNOME con rigetto nel resto e rigetto del ricorso di COGNOME NOME.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso di COGNOME NOME va dichiarato inammissibile.
1.1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La Corte di appello, nel disattendere la censura qui riproposta, ha evidenziato che la dicitura contenuta nel capo b) dell’ imputazione (“al fine di consentire a RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE l’evasione”) costituisce chiaramente un errore materiale, atteso che dalla stessa lettura del capo di imputazione emerge in maniera inequivoca che le fatture sono state annotate dalla società RAGIONE_SOCIALE ed è, quindi, tale società che ha presentato le dichiarazioni fiscali, con l’evidente conseguenza che la finalità di evasione è da intendersi riferita alla RAGIONE_SOCIALE, la società, della quale il COGNOME era amministratore unico; l’errore materiale, quindi, risultava di chiara evidenza, emergendo dalla complessiva lettura del capo di imputazione.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, si ha violazione del principio di correlazione tra contestazione e fatto ritenuto in sentenza solo quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito. La verifica dell’osservanza del principio di correlazione va, invero, condotta in funzione della salvaguardia del diritto di difesa dell’imputato cui il principio stesso è ispirato.
Ne consegue che la sua violazione è ravvisabile soltanto qualora la fattispecie concreta – che realizza l’ipotesi astratta prevista dal legislatore e che è esposta nel capo di imputazione- venga mutata nei suoi elementi essenziali in modo tale da determinare uno stravolgimento dell’originaria contestazione, onde emerga dagli atti che su di essa l’imputato non ha avuto modo di difendersi (cfr.sez.6 n.12156 del 5.3.2009; Sez.3, n.9916 de/ 12/11/2009, dep.11/03/2010, Rv.246226; Sez.6, n.6346 del 09/11/2012, dep.08/02/2013, Rv.254888; Sez.6, n.899 del 11/11/2014, dep.12/01/2015, Rv.261925).
Ed è stato osservato, inoltre, che ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione (Sez.6, n.47527 del 13/11/2013, Rv.NUMERO_DOCUMENTO).
Nel caso di specie non è riscontrabile alcuna sostanziale immutazione del fatto contestato o violazione del diritto di difesa, avendo il giudice di merito, con logiche argomentazioni, come tali non censurabili in questa sede, evidenziato che la indicazione della finalità evasiva di cui al capo b) dell’imputazione era frutto di un evidente errore materiale e che l’esatta individuazione della riferibilità di tale finalità alla società amministrata dal COGNOME era chiaramente desumibile dal fatto descritto, sicchè l’errore era di immediata percezione e non aveva inciso sulla effettiva esplicazione del diritto di difesa.
Quanto alla doglianza relativa alla valutazione dell’elemento soggettivo del reato, la Corte di appello ha richiamato le argomentazioni del primo giudice che ne ha tratto correttamente prova dalle stesse modalità della condotta (sistema della interposizione di società fittizie), dimostrative della circostanza che l’omessa dichiarazione fosse preordinata proprio all’evasione dell’imposta. Va ricordato che questa Corte ha affermato, in tema di evasione dell’IVA mediante il meccanismo delle cd. frodi carosello, che, nelle operazioni di importazione di beni, sfrutta la neutralizzazione dell’IVA all’acquisto mediante l’interposizione di società cartiere, aventi il solo scopo di emettere fatture – con l’esposizione di un’imposta in realtà non versata – destinate ad essere utilizzate nella catena delle cessioni per creare crediti d’imposta inesistenti, una volta appurata l’oggettiva sussistenza della frode attraverso la ricostruzione dei passaggi in cui, in concreto, detto meccanismo si estrinseca, è insita nella stessa gestione di fatto delle società coinvolte, e conseguentemente nella regia e supervisione delle operazioni commerciali dalle stesse poste in essere, la piena consapevolezza, in capo ai soggetti agenti, del sistema fraudolento complessivo, la cui prova principe è costituita dall’esiguità del prezzo di acquisto della merce rispetto a quello corrente (Sez.3, n. 18924 del 20/01/2017, Rv.269903 – 01). 1.2. Il secondo motivo di ricorso ha ad oggetto censure generiche, inammissibili ovvero manifestamente infondate. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Inammissibile è la doglianza avente ad oggetto la carenza motivazionale relativa all’entità degli aumenti di pena disposti a titolo di continuazione tra i reat ed all’individuazione del reato più grave, in quanto la censura non è stata posta con specifico motivo di appello (cfr p 28 della sentenza impugnata che contiene l’esposizione del motivo di appello relativo al trattamento sanzionatorio)
Deve richiamarsi il condivisibile orientamento di questa Corte, secondo cui, è inammissibile, per difetto di specificità, perché con esso si deduce una violazione di legge che si sarebbe verificata nel giudizio di primo grado, senza procedere alla specifica contestazione del riepilogo dei motivi di appello contenuto nella sentenza impugnata; contestazione necessaria qualora questa abbia omesso di indicare come nel caso di specie – che l’atto di impugnazione proposto avverso la decisione
del primo giudice aveva anch’esso già denunciato la medesima violazione di legge (Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017, Rv. 270627 – 01; Sez. 2, 5 novembre 2013, n. 9028, Rv. 259066).
Inammissibile è anche la censura relativa all’errore di calcolo in cui sarebbe incorso il Tribunale nella determinazione della pena, essendo stato il trattamento sanzionatorio rideterminato dal Giudice di appello.
Del tutta generica e priva di concretezza è, poi, la doglianza relativa alla confisca.
Il motivo, caratterizzandosi per assoluta genericità, integra la violazione dell’art. 581 lett. d) cod.proc.pen., che nel dettare, in generale, quindi anche per il ricorso per cassazione, le regole cui bisogna attenersi nel proporre l’impugnazione, stabilisce che nel relativo atto scritto debbano essere enunciati, tra gli altri, “I motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”; violazione che, ai sensi dell’art. 591 comma 1, lett. c) cod.proc.pen., determina, per l’appunto, l’inammissibilità dell’impugnazione stessa (cfr. Sez. 6, 30.10.2008, n. 47414, Rv. 242129; Sez. 6, 21.12.2000, n. 8596, Rv. 219087).
Manifestamente infondata è, infine, la censura relativa alle pene accessorie.
Il ricorrente si duole del fatto che la Corte di appello, pur rideterminando la pena principale ha confermato l’entità delle pene accessorie determinata in primo grado, senza operare una rivalutazione e rideterminazione delle stesse.
Va ricordato che la durata delle pene accessorie per le quali è previsto un limite minimo e massimo, deve essere determinata in concreto, con adeguata motivazione, sulla base dei criteri stabiliti dall’art. 133 cod. pen., dovendo escludersi la necessaria correlazione con quella della pena principale (Cfr, Sez.3, n. 41061 del 20/06/2019, Rv. 277972 – 01, in fattispecie in tema di pene accessorie di cui all’art. 12 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74).
Inoltre, è stato condivisibilmente affermato che, in tema di pene accessorie, nel caso in cui la durata di queste sia determinata in misura superiore alla media edittale, è necessaria una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi ed oggettivi elencati dall’art. 133 cod. pen., valutati ed apprezzati tenendo conto della funzione rieducativa, retributiva e preventiva della pena (Sez.5, n. 11329 del 09/12/2019, dep. 03/04/2020, Rv.278788 – 01; Sez.5, n. 1947 del 03/11/2020, dep.18/01/2021, Rv. 280668 – 01).
Ciò posto, nella specie, la Corte di appello, ha disatteso i motivi di appello relativi al trattamento sanzionatorio e rideterminato la pena principale in considerazione dell’intervenuta prescrizione di alcuni dei delitti contestati, condividendo e confermando nel resto le statuizioni del primo giudice attinenti al trattamento sanzionatorio.
Esclusa la necessaria correlazione delle pene accessorie con quella della pena principale, il richiamo e la conferma delle determinazioni del primo giudice relative al trattamento sanzionatorio (le sentenze di primo grado e di appello si integrano reciprocamente, Cfr Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Rv. 257595) costituisce adeguata motivazione in ordine alla durata delle pene accessorie, risultando anche immutata la valutazione di disvalore penale delle condotte contestate.
La durata delle pene accessorie determinata in primo grado (l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tribunale è stata determinata in anni tre, pari alla media edittale, l’incapacità di contrattare con la Pa è stata determinata in anni due, pari alla media edittale, l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e imprese è stata determinata in anni due, in misura di poco superiore alla media edittale) e confermata dalla Corte di appello, risulta, infatti, adeguatamente giustificata in relazione ai criteri di cui all’art. cod.pen. In particolare, il Tribunale aveva richiamato i parametri di cui all’art. 133 cod.pen. ed evidenziato, nella complessiva motivazione, il ruolo del COGNOME quale promotore e organizzatore dell’associazione criminosa, la lunga vita della medesima, l’elevato numero di operazioni illecite e l’elevata entità delle operazioni illecite.
Il ricorso di NOME va dichiarato inammissibile.
2.1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Secondo l’ampiamente prevalente giurisprudenza di legittimità, con riguardo ai reati associativi la competenza per territorio si determina in relazione al luogo in cui ha sede la base ove si svolgono -6i~ programmazione, ideazione e direzione delle attività criminose facenti capo al sodalizio (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 41012 del 20/06/2018, C., Rv. 274083-01; Sez. 6, n. 4118 del 10/01/2018, COGNOME, Rv. 272185-01; Sez. 3, n. 35578 del 21/04/2016, COGNOME, Rv. 267635-01), in esso identificandosi il luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, ex art. 8, comma 3, cod. proc. pen.
Nella specie, in linea con il suesposto principio di diritto, la Corte di appello ha correttamente disatteso l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata, confermando la valutazione del Tribunale, il quale aveva individuato in Milano la sede dell’autorità giurisdizionale competente, poiché nella circoscrizione territoriale del Tribunale di Milano avevano sede sia le società “cartiere” sia le società destinatarie delle reali prestazioni fornite dagli operatori comunitari (la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE su tutte), e dunque in Milano si era svolta la principale attività di programmazione, ideazione e direzione del gruppo criminoso; è stato dato corretto rilievo, pertanto, all’attività di organizzazione, e non a quella di esecuzione del programma associativo, rilevante ai fini del radicamento della competenza territoriale.
2.2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Va osservato che per delineare la figura dell’amministratore di fatto è necessario attingere ai criteri stabiliti dall’art. 2639 cod.civ,, che, pur essendo norma di più recente introduzione, dettata per i reati in materia di società e consorzi di cui al titolo XI del libro V del codice civile, ha di fatto codificato approdi giurisprudenziali che l’avevano preceduta (cfr. Sez. 1, n.18464 del 12/05/2006, Ponciroli, Rv. 234254). L’amministratore di fatto è, dunque, colui il quale, pur non formalmente investito della carica di amministratore della società, eserciti in modo continuativo e significativo í poteri tipici inerenti alla qualifica alla funzione. Va, inoltre, considerato che questa Corte ha affermato, in tema di reati tributari, che ai fini della attribuzione ad un soggetto della qualifica “amministratore di fatto” non occorre, comunque, l’esercizio di “tutti” i poteri tipici dell’organo di gestione, ma è necessaria una significativa e continua attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico od occasionale (Sez.3, n. 22108 del 19/12/2014, dep. 27/05/2015, Rv. 264009).
La Corte di appello, facendo buon governo del suesposto principio di diritto, ha confermato la valutazione del primo giudice, basata su specifici elementi di fatto dimostrativi della qualifica di amministratore di fatto delle società RAGIONE_SOCIALE da parte del COGNOME: secondo le risultanze istruttorie (conversazioni skype intrattenute con COGNOME NOME, accertamenti svolti dalla Gdf di Cuneo), nella frode fiscale era il RAGIONE_SOCIALE che indicava sia la società fornitrice sia quella cliente, mentre il COGNOME era il finanziatore, poiché anticipava il denaro per pagare la merce al reale fornitore, avendo dei castelletti in banca dove otteneva delle RI.BA a 60 giorni, presentando le proprie fatture per poi ricevere i pagamenti dal cliente finale CORAGIONE_SOCIALESER o RAGIONE_SOCIALE, appunto indicate da COGNOME; il COGNOME si occupava, quindi, in maniera continuativa delle forniture sottese all’attività della RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE, società destinatarie finali ed effettive della merce commercializzata dalla RAGIONE_SOCIALE, cooperando con il coimputato COGNOME, così ponendo in essere di fatto una significativa attività gestoria delle predette società.
Trattasi di apprezzamento di fatto, sorretto da motivazione congrua e priva di vizi logici e, dunque, insindacabile in sede di legittimità.
Il ricorso di NOME va dichiarato inammissibile.
3.1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La Corte di appello ha confermato l’affermazione di responsabilità per il reato di cui all’art. 10 d.lgs 74/2000, contestato al capo z) ed al capo aa) dell’imputazione, condividendo e richiamando le argomentazioni del primo giudice, il quale, in aderenza al tenore dell’imputazione ed alle risultanze istruttorie aveva evidenziando che le scritture contabili della RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE, relative al periodo 2012/2013, effettivamente istituite non erano state, poi, rinvenute
presso lo studio del commercialista COGNOME, sede delle due società (il COGNOME, esaminato come teste all’udienza dibattimentale del 2.3.2021, aveva riferito di essersi occupato della redazione della contabilità e dei bilanci della RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE su incarico di COGNOME e del suo collaboratore NOME COGNOME, cfr p. 11 della sentenza di primo grado).
La valutazione dei Giudici di merito risulta corretta in quanto conforme al principio di diritto, secondo cui il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili, di cui all’art. 10, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, presuppone l’istituzione della documentazione contabile e la produzione di un reddito e pertanto non contempla anche la condotta di omessa tenuta delle scritture contabili, sanzionata amministrativamente dall’art. 9, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 (Sez.3, n. 1441 del 12/07/2017, dep.15/01/2018, Rv.272034 – 01).
3.2. Manifestamente infondato è il secondo motivo di ricorso relativo alle pene accessorie.
Vanno richiamate le argomentazioni già esposte al paragrafo 1.2. con riferimento ad analoga censura proposta dal ricorrente COGNOME NOME, ribadendo l’esclusione della necessaria correlazione delle pene accessorie con quella della pena principale ed evidenziando l’immutata valutazione di disvalore penale delle condotte contestate nonchè la determinazione della durata delle pene accessorie in misura pari o di poco superiore alla media edittale; va aggiunto che il Tribunale, con riferimento alla posizione di COGNOME NOME aveva richiamato adeguatamente i parametri di cui all’art. 133 cod.pen., e, in particolare, nella complessiva motiva, considerato l’ampiezza temporale della partecipazione all’associazione per delinquere.
Essendo i ricorsi inammissibili e, in base al disposto dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.
Va dato atto che l’inammissibilità del ricorso per cassazione non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod.proc.pen., ivi compresa la prescrizione (Sez. U n. 21 del 11 novembre 1994, dep.11 febbraio 1995, COGNOME; Sez. U n. 11493 del 3 novembre 1998, COGNOME; Sez. U n. 23428 del 22 giugno 2005, COGNOME; Sez U n. 12602 del 17.12.2015, dep. 25.3.2016, COGNOME).
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento del spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa del ammende.
Così deciso il 07/05/2024