Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 25447 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 25447 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 17/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a ROMA il 07/02/1997
avverso l’ordinanza del 30/01/2025 del TRIB. LIBERTA’ di Roma Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME con le quali si chiede di dichiarare il ricorso inammissibile.
Ritenuto in fatto
GLYPH Con ordinanza del 30 gennaio 2025, il Tribunale del riesame di Roma ha accolto l’appello proposto dal RM. avverso l’ordinanza del GIP del medesimo Tribunale, che aveva rigettato, nei confronti di NOMECOGNOME la richiesta di applicazione della custodia cautelare in carcere, perché, in qualità di partecipe, collaborava stabilmente con NOME nelle attività di acquisizione quale referente su Roma per i fornitori calabresi e distributore all’ingrosso delle partite di narcotico oggetto del traffico, consegnandole ai vari clienti dell’organizzazione e ricevendo da NOME disposizioni circa il reperimento del denaro contante derivante dalle cessioni all’ingrosso e al dettaglio, in relazione ai delitti di cui seguenti capi della contestazione provvisoria:
GLYPH artt. 74, commi 1,2,3 e 5 d.P.R. n. 309/1990, 416 bis 1 cod.pen, perché si associava con NOME, promotore e organizzatore dell’associazione, COGNOME NOME, NOMECOGNOME NOME, COGNOME NOMECOGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, già giudicati separatamente e condannati in primo grado con sentenza di condanna in data 13 dicembre 2022 ;
artt. 110 cod.pen., 73 e 80 d.P.R. n. 309/1990, perché in concorso con NOME e NOME NOME, acquistava 20 kg. di sostanza stupefacente del tipo cocaina “NDO” da COGNOME NOME e NOME NOME, a Roma, il 20 maggio 2020;
artt. 110 cod. pen., 73 d.P.R. n. 309/1990, perché in concorso con NOME cedeva a COGNOME NOME un quantitativo non meglio specificato ma ingente di sostanza stupefacente del tipo cocaina destinato a ulteriori cessioni, commesso in Cisterna di Latina il 27 maggio 2020;
art. 110 cod. pen. e 73 d.P.R. n. 309 del 1990, perché in concorso con NOME COGNOME NOME e COGNOME NOME, cedeva nella zona di San Basilio 10 kg. di sostanza stupefacente del tipo cocaina, di cui 2 kg a COGNOME NOME, che la riceveva al fine di ulteriori cessioni, commesso a Roma il 27 maggio 2020;
15) art. 110 cod. pen. e 73 d.P.R. n. 309/1990, perché in concorso con NOME cedeva a NOME Alessandro 5 kg. di sostanza stupefacente del tipo cocaina destinato a ulteriori cessioni, commesso in Cisterna di Latina il 29 maggio 2020;
17) reato previsto dall’art. 110 cod. pen. e 73 d.P.R. n. 309/1990, perché in concorso con NOME cedeva a COGNOME Agostino 5 kg. di sostanza stupefacente del tipo cocaina destinato a ulteriori cessioni, commesso in Roma il 2 giugno 2020.
GLYPH Avverso tale ordinanza, ha proposto ricorso per cassazione, mediante il proprio difensore, NOME COGNOME deducendo i seguenti motivi, sintetizzati ex art. 173 disp. Att. cod.proc.pen:
GLYPH Con il primo motivo, deduce la violazione degli artt. 273 cod.proc.pen. e 74 d.P.R. N. 309/1990, in quanto il Tribunale non aveva individuato in modo specifico gli indizi della colpevolezza del Tei in ordine al reato di associazione a delinquere con la finalità dello spaccio di stupefacenti, mancando gli indizi sintomatici del sodalizio criminoso, essendo necessario accertare la consapevole adesione al programma associativo. Peraltro, la difesa contesta la stessa attribuzione del nickname NOME al Tei e l’esistenza del particolare vincolo associativo con il Demce;
GLYPH in ordine alle esigenze cautelari, con un secondo profilo, si deduce la violazione degli artt. 274, 275, comma 3, cod.proc.pen. e vizio di motivazione; in particolare, il ricorrente rileva che l’ordinanza non aveva fornito risposta alla questione sollevata dalla difesa e relativa all’assenza, nella richiesta cautelare formulata dal P.M., di indicazioni relative alle esigenze cautelari specificamente riferite alla persona del Tei, soprattutto con riferimento al fatto che le condotte addebitate erano concentrate in pochi giorni nel maggio 2020. Si deduce che l’ordinanza impugnata sia erronea anche laddove non ha considerato che il COGNOME era stato assolto nel procedimento in relazione al quale era stato arrestato il 9 giugno 2020, con ciò confermandosi che qualunque eventuale legame esistente con NOME era stato reciso a seguito dell’arresto del 9 giugno 2020.
GLYPH La Procura generale ha depositato conclusioni scritte nel senso dell’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso non supera il vaglio di ammissibilità.
In via preliminare, si osserva che il ricorso per cassazione, a firma dell’avvocata NOME COGNOME è costituito da documento analogico depositato a mezzo pec presso la cancelleria del giudice a quo, come consentito dal comma 9 dell’art. 1 d. m. 27 dicembre 2024 n. 206, che rinvia al deposito mediante posta elettronica certificata come disciplinato dall’articolo 87-bis del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150. Tuttavia, la pec è priva di firma digitale, e ciò rende l’impugnazione inammissibile.
La normativa transitoria applicabile prima dell’entrata in vigore del processo penale telematico è dettata dall’art. 87-bis decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, che ha ricalcato la disciplina emergenziale pandemica (art. 24, commi 6 bis e ss. decreto legislativo 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, non più vigenti), prevedendo al comma 3 che, quando il deposito di cui al comma 1 – mediante invio
dall’indirizzo di posta elettronica certificata – ha ad oggetto un’impugnazione, il documento informatico è sottoscritto digitalmente secondo le modalità indicate con provvedimento della DGSIA e contiene la specifica indicazione degli allegati, che sono trasmessi in copia informatica per immagine, sottoscritta digitalmente dal difensore per conformità all’originale. Il comma 4 prevede che l’atto di impugnazione sia trasmesso tramite posta elettronica certificata dall’indirizzo di posta elettronica certificata del difensore a quello dell’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato, ai sensi del comma 1, con le modalità e nel rispetto delle specifiche tecniche ivi indicate. Il comma 7 dello stesso articolo stabilisce che, fermo restando quanto previsto dall’art. 591 cod. proc. pen., nel caso di presentazione dell’atto a mezzo p.e.c., l’impugnazione è inammissibile, tra l’altro (e per quanto qui rileva), «quando l’atto di impugnazione non è sottoscritto digitalmente dal difensore». Il comma 8 dispone che, nei casi previsti dal comma 7, «il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato dichiara, anche d’ufficio, con ordinanza l’inammissibilità dell’impugnazione e dispone l’esecuzione del provvedimento impugnato». Queste disposizioni sono state richiamate e applicate in recenti pronunce di questa Corte, relative sia alla vigente disposizione di cui all’art. 87-bis del decreto legislativo n. 150 del 2022 (Sez. 2, n. 11593 dell’ 11/3/2025; Sez. 6, n. 15672 del 13/03/2024, COGNOME, Rv. 286302 – 01; Sez. 4, n. 48545 del 25/10/2023, Poscente, Rv. 285571 – 01) sia nel vigore della disciplina emergenziale per il contenimento della pandemia da COVID-19 (Sez. 3, n. 29322 del 20/06/2024, Li Shenghe, Rv. 286831 – 01).
Nel caso di specie, pertanto, il Tribunale del riesame di Roma avrebbe dovuto pronunciare una ordinanza di inammissibilità del ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME declaratoria che deve essere emessa in questa sede, in ragione di quanto disposto dall’art. 591, comma 4, cod. proc. pen., non essendo le cause di inammissibilità soggette a sanatoria (Sez. 3, n. 20356 del 02/12/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 281630 – 01; Sez. 3, n. 35715 del 17/09/2020, COGNOME, Rv. 280694 – 04; Sez. 2, n. 40816 del 10/07/2014, COGNOME, Rv. 260359 – 01).
Ad ogni modo, il ricorso è inammissibile anche per il contenuto dei suoi motivi. Il Tribunale ha dato atto che già nel corso delle indagini relative al procedimento n. 26389 del 2018, era emerso che NOME utilizzasse un telefono criptato per porre in essere l’attività di narcotraffico e che legittimamente il p.m. aveva chiesto di utilizzare la messaggistica indicata nella richiesta tramite gli ordini di indagine europea in atti, in quanto non vi era stata alcuna azione di impulso o di partecipazione dell’autorità giudiziaria italiana, in conformità con quanto stabilito dalle SS.UU. con le sentenze nn. 23755 e 23756 del 2024 sul
punto; quanto alla posizione del Tei, il Tribunale ha rilevato che nella relazione finale dei Carabinieri dell’i settembre 2022, era emerso che NOME, soprannominato Lallo, utilizzava il nickname Stickywaiter (su Encrochat) ed il codice alfanumerico CODICE_FISCALE, utilizzato su SkyECC, era venuto in rilievo nel corso dell’indagine denominata “Aquila azzurra”. Egli infatti era stato identificato quale frequentatore abituale dell’abitazione di Demce, sino al 9 giugno 2020, quando era stato arrestato nell’ambito dell’operazione Gerico 2, in esecuzione di ordinanza cautelare del GIP del Tribunale di Roma, per i delitti di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti nella piazza di spaccio di Roma, INDIRIZZO, denominata R8.
Al fine di meglio comprendere la vicenda, il Tribunale ha proceduto all’esame dei reati fine (capi 9, 10, 13,14,15, 16 e 17) e ha fatto riferimento ai contenuti della conversazione registrata il 15 luglio 2020 sulla chat di gruppo voluta da NOME COGNOME all’epoca latitante in Spagna, per discutere di ammanchi risultanti dalla consegna di due differenti carichi di cocaina effettuati il 28 maggio e il 4 giugno 2000 ( pag. 8 ordinanza impugnata). In tale sede NOME fece riferimento all’avvenuto arresto del Tei e alla necessità di parlare con lui per capire come provvedere al versamento del saldo finale del debito, pari a euro 155.000, relativo al carico di 72 kg. complessivi di cocaina tipo “NDO” (pag. 9 ordinanza impugnata); da tali contenuti il Tribunale ha tratto il convincimento della stabilità dei rapporti tra il gruppo romano e i fornitori calabresi e ha appurato il riscontro in ordine alle forniture effettuate dal Romeo e dal Condello il 28 maggio e il 4 giugno 2020, come del resto emergeva anche dalle intercettazioni ambientali avvenute presso l’abitazione di COGNOME all’epoca agli arresti domiciliari (si richiamano le pagg. da 41 a 58 della richiesta del P.M.) che vedeva i due coordinarsi, quanto all’arrivo, alla distribuzione e al prezzo, in relazione all’arriv imminente di 20 chili di sostanza stupefacente di buona qualità. Il Tribunale, alle pagine 17-21, ha ritenuto i gravi indizi di colpevolezza alla luce delle dettagliate risultanze emerse dalle intercorse captazioni nei confronti di COGNOME NOME. Inoltre, tali risultanze sono stare ritenute corroborate dai riscontri emersi dall’attività d’indagine relativa all’inchiesta Aquila azzurra e dalle dichiarazioni de collaboratore COGNOME NOME, assiduo frequentatore della casa di Demce. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
GLYPH La motivazione non presenta vizi logici rilevanti per il giudizio di legittimità e quindi le doglianze, così come rappresentate, non sono deducibili in questa sede. Si è affermato, infatti, che in tema di misure cautelari personali, il riscontro del vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, nel giudizio di legittimità, è limitato alla verifica, in relazione alla peculiare natura del giudiz
medesimo e ai limiti che a esso ineriscono, che il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie» (Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, Audino, Rv. 215828). Ne consegue che «l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 cod. proc. pen. e delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 stesso codice è rilevabile in cassazione soltanto se si traduce nella violazione di specifiche norme di legge od in mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato» (In motivazione, la S.C. ha chiarito che il controllo di legittimità non concerne né la ricostruzione dei fatti, né l’apprezzamento del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza e concludenza dei dati probatori, onde sono inammissibili quelle censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito) (Sez. F, n. Merja, Rv. 248698). Inoltre, la nozione di gravi indizi di colpevolezza in sede cautelare non è omologa a quella che serve a qualificare il quadro indiziario idoneo a fondare il giudizio di colpevolezza finale (sez. 5 n. 36079 del 5.6.2012, COGNOME ed altri, rv. 253511). Al fine dell’adozione della misura cautelare, infatti, è sufficiente l’emersione di qualunque elemento probatorio idoneo a fondare “un giudizio di qualificata probabilità” sulla responsabilità dell’indagato» in ordine ai reati addebitati.
GLYPH Quanto poi al presupposto delle esigenze cautelati, il Tribunale ha riscontrato che la tecnica espositiva utilizzata dal P.M. era orientata alla preliminare ricostruzione dell’intera vicenda ed alla successiva descrizione delle condotte ascritte a ciascuno degli allora indagati, da cui far discendere la gravità indiziaria e, di riflesso, il pericolo di reiterazione. Trattandosi di soggetti tutti parte all’associazione con il medesimo grado di coinvolgimento, la descrizione poteva essere di tipo cumulativo. E’ noto che, nella giurisprudenza di legittimità si è andato affermando un orientamento, di maggiore rigore interpretativo, secondo il quale la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., è prevalente, in quanto speciale, rispetto alla norma generale stabilita dall’art. 274 cod. proc. pen.; ne consegue che se il titolo cautelare riguarda i reati previsti dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. detta presunzione fa ritenere sussistente, salvo prova contraria, non desumibile dalla sola circostanza relativa al mero decorso del tempo, i caratteri di attualità e concretezza del pericolo. (In motivazione la Corte ha aggiunto che, nella materia cautelare, il decorso del
tempo, in quanto tale, possiede una valenza neutra ove non accompagnato da altri elementi circostanziali idonei a determinare un’attenuazione del giudizio di pericolosità) (Sez. 2, n. 6592 del 25/01/2022, Rv. 282766 – 02; Sez. 5, n. 4950 del 07/12/2021 (dep. 2022) Rv. 282865 – 01; Sez. 1, n. 21900 del 07/05/2021, COGNOME, Rv. 282004 – 01;). Accanto a tale orientamento, se ne è delineato un altro, più favorevole all’interessato, secondo il quale, pur se per i reati di cui all’ar 275, comma 3, cod. proc. pen. è prevista una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, il tempo trascorso dai fatti contestati, alla luce della riforma di cui alla legge 16 aprile 2015, n. 47, e di un’esegesi costituzionalmente orientata della stessa presunzione, deve essere espressamente considerato dal giudice, ove si tratti di un rilevante arco temporale privo di ulteriori condotte dell’indagato sintomatiche di perdurante pericolosità, potendo lo stesso rientrare tra gli “elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”, cui si riferisce lo stesso art. 275, comma 3, del codice di rito (Sez. 6, n. 11735 del 25/01/2024, Tavella, Rv. 286202 – 02).
Ciò premesso, le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale, essendo conformi in diritto ai principi espressi dalla Corte di cassazione, peraltro nella declinazione meno rigorosa e quindi di maggior favore per l’indagato, non possono formare oggetto di censura in questa sede in punto di concreto apprezzamento dei fatti posti a sostegno del giudizio di attualità del pericolo di reiterazione dei grav delitti oggetto di contestazione.
In particolare, il Tribunale ha fatto esplicito riferimento alla giurisprudenza di questa Corte di legittimità più favorevole alla posizione dell’indagato, e della Corte Costituzionale, evidenziando il carattere relativo delle presunzioni dettate dall’art. 275, comma 3, cod.proc. pen., e si è poi fatto carico di valutare l’idoneità dei fatti emersi anche successivamente all’epoca delle condotte contestate, della concreta personalità dell’indagato e dell’intero contesto in cui l’organizzazione agiva, al fine di impedire l’operare delle presunzioni. Così ha riportato le dichiarazioni del collaboratore di giustizia COGNOME, soprattutto mediante l’accertamento della rilevanza dell’organizzazione di narcotraffico capeggiata da COGNOME e attivamente partecipata anche da COGNOME e che si mostrava operativa pienamente, certamente anche durante la restrizione in carcere dello stesso collaboratore (pag. 18 dell’ordinanza impugnata). Ha valutato la caratura dell’associazione, tale da sopravvivere alle vicende carcerarie degli organizzatori e alla loro condanna, considerato in modo complessivo il quadro delle concrete modalità di partecipazione emerse. Il Tribunale ha pure correttamente rilevato l’irrilevanza del mancato riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 416 bis 1
fine di attenuare l’estrema gravità dei fatti, atteso che l’accertato uso cod.pen. al
dei cripto telefonini non si era rilevato mero strumento di elusione dei controlli di polizia, ma indice di condivisione di strumenti messi a disposizione di una cerchia
ristretta di associati.
9. Il ricorrente imposta il proprio ragionamento critico su considerazioni logicamente mai decisive, facendo riferimento alla mera cronologia degli eventi e
senza farsi carico di mostrare l’illogicità palese della ragionevole prognosi di permanenza dell’attualità del pericolo di reiterazione insito nella struttura
criminale, peraltro oggetto di accertamento anche da parte del giudice della cognizione. Si tratta, all’evidenza, di una critica, nella sostanza anche se non nella
forma, basata su una non esatta configurazione in diritto del presupposto applicativo dei gravi indizi di colpevolezza in sede cautelare, formulata attraverso
lo sviluppo di un tortuoso ragionamento palesemente orientato a richiedere alla
Corte di legittimità di effettuare un apprezzamento di merito del complessivo materiale probatorio esaminato, certamente non consentito.
11. In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile e il ricorrente va condannato alle spese processuali e al pagamento della somma di euro 3000 in favore della Cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 28 reg. esec. cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 28 reg. esec. cod. proc. pen.
Così è deciso, 17/06/2025