Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 10438 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 10438 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 19/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nata a Caivano il 5/11/1966
avverso l’ordinanza del 15/10/2024 del Tribunale di Napoli lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di dichiarare
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME l’inammissibilità del ricorso.
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RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 15 ottobre 2024 il Tribunale di Napoli ha rigettato la richiesta di riesame presentata da NOME COGNOME nei confronti dell’ordinanza del 12 settembre 2024 del Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale, con la quale era stata disposta l’applicazione nei confronti della stessa Vuolato della custodia cautelare in carcere in relazione al delitto di cui all’art. 74 d.P. 309/90 (capo A della rubrica) e ad alcune condotte di acquisto di stupefacenti destinati alla cessione a terzi (di cui al capo 40 della rubrica), qualificate ai sen dell’art. 73, primo comma, d.P.R. 309/90.
Avverso tale ordinanza la COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, mediante l’Avvocato NOME COGNOME che lo ha affidato a tre motivi.
2.1. In primo luogo, ha lamentato la violazione dell’art. 74, commi 2, 3 e 4, d.P.R. e un vizio della motivazione, con riferimento alla affermazione della propria partecipazione, quale stabile acquirente di sostanze stupefacenti, al sodalizio finalizzato alla commissione di una pluralità di reati in materia di stupefacenti di cui al capo a) facente capo a NOME COGNOME e ad NOME COGNOME, desunta prevalentemente dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, dei quali, però, solamente NOME COGNOME e NOME COGNOME avevano fatto il nome della ricorrente, indicandola come titolare di una piazza di spaccio nel cosiddetto Bronx di Caivano, senza altro aggiungere, mentre gli altri collaboratori di giustizia, NOME COGNOME e NOME COGNOME si erano riferiti a periodi precedenti a quello oggetto della contestazione associativa; anche il collaboratore NOME COGNOME si era limitato a riferire che la ricorrente era dedita allo spaccio di stupefacenti, anch’egli senza altro aggiungere.
Anche le conversazioni telefoniche intercettate non consentivano di desumere l’intraneità della ricorrente al sodalizio, quale stabile acquirente di stupefacenti, quanto da dette conversazioni emergeva solo la titolarità da parte della ricorrente di due piazze di spaccio (nel suddetto Bronx di Caivano), ma non anche il suo assoggettamento al sodalizio.
2.2. Con il secondo motivo ha lamentato la violazione di legge penale e un vizio della motivazione a causa della mancata qualificazione delle condotte di cui al capo 40) ai sensi del quinto comma dell’art. 73 d.P.R. 309/90, in quanto dalle intercettazioni era emerso che la ricorrente aveva acquistato una modestissima quantità di sostanza stupefacente in un arco temporale particolarmente ristretto, che avrebbe dovuto consentire di qualificare la condotta come fatto di lieve entità ai sensi della disposizione denunciata.
2.3. Infine, con il terzo motivo, ha lamentato la violazione dell’art. 309, comma 9, cod. proc. pen. e un vizio della motivazione, con riferimento alla mancata considerazione degli elementi addotti con la memoria difensiva depositata nel corso dell’udienza del giudizio di riesame del 15 ottobre 2024.
Il Procuratore Generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso, sottolineando la genericità e il contenuto non consentito delle censure in ordine al contributo dichiarativo fornito dai collaboratori di giustizia di cui al primo motiv la carenza di interesse in ordine alla riqualificazione delle condotte di cui al capo 40) ai sensi dell’art. 73, quinto comma, d.P.R. 309/90; la manifesta infondatezza della doglianza in ordine al mancato esame della memoria depositata nel corso del giudizio di riesame, non contenendo la stessa elementi di novità rispetto a quelli fatti valere con la richiesta di riesame.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo, mediante il quale è stata criticata la valutazione degli elementi indiziari a carico e il giudizio circa la loro concludenza in ordine alla gravità indiziaria riguardo al reato associativo di cui al capo a), è inammissibile, essendo volto, in realtà, a censurare l’apprezzamento e la valutazione degli elementi indiziari a carico, in particolare il contenuto delle conversazioni intercettate.
Va, in premessa, rammentato che le Sezioni Unite, con la sentenza Sebbar, hanno chiarito che, in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione de giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715 – 01; conf. Sez. 3, n. 35593 del 17/05/2016, COGNOME, Rv. 267650 – 01; Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, COGNOME, Rv. 282337 – 01), e che le dichiarazioni auto ed etero accusatorie registrate nel corso di attività d intercettazione regolarmente autorizzata hanno piena valenza probatoria e, pur dovendo essere attentamente interpretate e valutate, non necessitano degli elementi di corroborazione previsti dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Rv. 263714 – 01).
Il motivo di ricorso sollecita, invece, una rilettura degli elementi indizia considerati e posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, però, riservata in via esclusiva ai giudici del merito, senza che possa integrare alcun vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente pi
adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944), senza neppure concretamente confrontarsi con l’ordinanza impugnata, che ha evidenziato puntualmente i molteplici, e invero univoci, elementi dimostrativi del rapporto di stabile fornitura di droga dal clan COGNOME a favore della ricorrente e come tale rapporto fosse funzionale alla attività del sodalizio, determinando, di conseguenza, l’inserimento nello stesso anche della ricorrente.
Nell’ordinanza impugnata, dopo aver ricostruito la genesi e lo svolgimento dell’indagine e illustrato la nascita del sodalizio facente capo ad NOME COGNOME e NOME COGNOME, divenuto egemone nel territorio di Caivano, sono state illustrate le modalità di funzionamento di tale associazione, caratterizzata dal controllo da parte del Clan COGNOME – COGNOME delle varie “piazze di spaccio” già esistenti in Caivano, sulle quali tale clan aveva assunto l’egemonia e il controllo, fornendo ai gestori protezione da altri clan rivali o concorrenti e pretendendo da essi l’acquisto della sostanza stupefacente da rivendere solamente attraverso i canali del clan (che, in tal modo aveva la garanzia di uno stabile mercato di smercio dello stupefacente, garantendosi, così, prospettive certe di operatività).
In tale contesto è stata evidenziata la posizione della ricorrente, indicando gli elementi dimostrativi della sua intraneità, quale stabile acquirente, al sodalizio.
In particolare, il Tribunale ha richiamato le convérgenti dichiarazioni di vari collaboratori di giustizia, che hanno concordemente indicato la ricorrente Vuolato come titolare da tempo di due distinte “piazze di spaccio” in Caivano (una delle quali aveva a oggetto lo smercio di crack), e ha evidenziato il contenuto di alcune conversazioni intercettate, dalle quali è stato ricavato, in modo non illogico, l’inserimento della ricorrente nel sodalizio, in quanto da tali conversazioni è stato desunto che la ricorrente, pur di continuare a svolgere la propria attività, era stata costretta a tollerare la presenza di un concorrente nel medesimo ambito territoriale e a rivolgersi per le forniture di crack solamente al clan divenuto egemone (ossia il gruppo facente capo ad NOME e COGNOME), ottenendone l’assicurazione della stabile fornitura di crack a condizioni prestabilite, la possibilità di fare affidamen sul controllo del territorio da parte del clan, la garanzia di poter operare in regime di monopolio nella zona di influenza (pur se ridotta), senza ingerenze da parte di terzi.
Da tale complesso di elementi è stata ricavata la gravità indiziaria della partecipazione alla associazione per delinquere ex art. 74 d.P.R. 309/90 di cui al capo a), sottolineando come i vari acquisiti di stupefacenti perfezionati dalla ricorrente non possono essere considerati isolatamente, bensì come manifestazione della adesione al programma criminoso da parte della acquirente, grazie alla quale il sodalizio era stato in grado di programmare i suoi acquisti e le
sue attività, e anche di garantire l’uniforme svolgimento nel territorio da esso controllato dell’attività di spaccio.
Tali considerazioni, non certamente illogiche, ma, anzi, pienamente razionali, alla luce dell’univoco contenuto delle dichiarazioni dei collaboratori e delle conversazioni intercettate, anche per come riportate nella motivazione dell’ordinanza impugnata, e, soprattutto, idonee a dar conto degli elementi ritenuti dimostrativi della consapevole partecipazione della ricorrente al sodalizio di cui al capo a), sono state censurate dalla ricorrente esclusivamente sul piano dell’apprezzamento e della valutazione degli elementi a carico, in particolare delle conversazioni intercettate, proponendone una lettura alternativa, che, però, non è consentita, come ricordato, nel giudizio di legittimità, nel quale è esclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali, o una diversa ricostruzione storica dei fatti, o un diverso giudizio di rilevanza, o comunque di attendibilità delle fonti di prova (Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, COGNOME, Rv. 276970; Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, COGNOME, Rv. 262575; Sez. 3, n. 12226 del 22/01/2015, G.F.S., non massimata; Sez. 3, n. 40350, del 05/06/2014, C.C. in proc. M.M., non massimata; Sez. 3, n. 13976 del 12/02/2014, P.G., non massimata; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, COGNOME, Rv. 253099; Sez. 2, n. 7380 del 11/01/2007, Messina ed altro, Rv. 235716).
3. Il secondo motivo, mediante è stata lamentata l’omessa riqualificazione del reato fine di cui al capo 40) ai sensi dell’art. 73, quinto comma, d.P.R. 309/90, è inammissibile per carenza di interesse, in quanto la misura applicata si fonda anche sulla contestazione del reato associativo e sulla doppia presunzione relativa che lo assiste (di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia cautelare in carcere), con la conseguenza che, in presenza di detta contestazione e della sua idoneità a sorreggere e giustificare l’applicazione e il mantenimento della misura, nessun effetto favorevole per la ricorrente potrebbe derivare, in questa fase, dalla eventuale diversa qualificazione di dette condotte.
In tema di misure cautelari personali, infatti, sussiste l’interesse a impugnare quando l’indagato tende a ottenere una diversa qualificazione giuridica del fatto dalla quale consegua per lui una concreta utilità, mentre non rileva la sua mera pretesa all’esattezza teorica della decisione che non realizzi alcun vantaggio pratico (Sez. 6, n. 46387 del 24/10/2023, COGNOME, Rv. 285481 – 01, con riferimento a una fattispecie nella quale è stato escluso l’interesse del ricorrente all’inquadramento del fatto ascrittogli nella più lieve fattispecie di cui dell’art. comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, poiché la derubricazione non avrebbe avuto alcuna valenza ostativa rispetto alla misura dell’obbligo di dimora e di
presentazione alla polizia giudiziaria, nelle more disposta dal riesame in sostituzione di quella degli arresti domiciliari; v. anche, nel medesimo senso, Sez. 5, n. 28600 del 07/04/2017, COGNOME, Rv. 270246 – 01; Sez. 6, n. 10941 del 15/02/2017, COGNOME, Rv. 269783 – 01; Sez. 6, n. 41003 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 264762 – 01).
Va, peraltro, osservato che nell’ordinanza impugnata è stato evidenziato che la ricorrente ha gestito da lungo tempo e in modo stabile due piazze di spaccio, una delle quali avente a oggetto lo spaccio di crack, il che costituisce un indice significativo di gravità della condotta (in quanto svolta in modo stabile, organizzato e continuativo, attraverso il controllo capillare del territorio), che ne impedisce l qualificazione come di lieve entità, ai sensi della disposizione di cui è stata denunciata l’errata applicazione.
Al riguardo, è stato affermato che, ai fini del riconoscimento dell’ipotesi di cui all’art. 73, comma quinto, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, la valutazione dell’offensività della condotta non può essere ancorata solo al quantitativo singolarmente spacciato o detenuto, ma alle concrete capacità di azione del soggetto e alle sue relazioni con il mercato di riferimento, avuto riguardo all’entità della droga movimentata in un determinato lasso di tempo, al numero di assuntori riforniti, alla rete organizzativa e/o alle peculiari modalità adottate per porre essere le condotte illecite al riparo da controlli e azioni repressive delle forz dell’ordine, cosicché non può ritenersi di lieve entità il fatto compiuto nel quadro della gestione di una “piazza di spaccio”, che è connotata da un’articolata organizzazione di supporto e difesa ed assicura uno stabile commercio di sostanza stupefacente (Sez. 6, n. 13982 del 20/02/2018, Lombino, Rv. 272529 – 01).
La reiterazione nel tempo di una pluralità di condotte di cessione della droga, pur non precludendo automaticamente al giudice di ravvisare il fatto di lieve entità, entra in considerazione nella valutazione di tutti i parametri dettati, in proposito dall’art. 73, comma quinto, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, con la conseguenza che è legittimo il mancato riconoscimento della lieve entità del fatto qualora la singola cessione di una quantità modica, o non accertata, di droga costituisca manifestazione effettiva di una più ampia e comprovata capacità dell’autore di diffondere in modo non episodico, né occasionale, sostanza stupefacente, non potendo la valutazione della offensività della condotta essere ancorata al solo dato statico della quantità volta per volta ceduta, ma dovendo essere frutto di un giudizio più ampio che coinvolga ogni aspetto del fatto nella sua dimensione oggettiva (Sez. 3, n. 6871 del 08/07/2016, dep. 2017, Bandera, Rv. 269149 01)
Ne consegue, in definitiva, l’inammissibilità anche del secondo motivo di ricorso.
Il terzo motivo è manifestamente infondato, in quanto con la memoria depositata nel corso del procedimento di riesame non erano stati sollevati rilievi ulteriori rispetto a quelli già prospettati con la richiesta di riesame o in ordine quali la ricorrente potesse vantare uno specifico interesse.
Va, infatti, rammentato che, in tema di impugnazione di misure cautelari personali, l’omessa valutazione di una memoria difensiva da parte del giudice del riesame determina la nullità del provvedimento nel solo caso in cui siano in essa articolate specifiche deduzioni che non si limitino ad approfondire argomenti a fondamento di quelle già prospettate ex art. 309, sesto comma, cod. proc. pen., ma contengano autonome e inedite censure del provvedimento impugnato, che rivestano carattere di decisività (Sez. 5, n. 11579 del 22/02/2022, COGNOME, Rv. 282972 – 01; Sez. 5, n. 5443 del 18/12/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280670 01), e anche che, come già in parte osservato a proposito del secondo motivo di ricorso al par. 3, in tema di procedimento cautelare sussiste l’interesse concreto e attuale dell’indagato alla proposizione del riesame o del ricorso per cassazione quando l’impugnazione sia volta a ottenere l’esclusione di una circostanza aggravante ovvero una diversa qualificazione giuridica del fatto nel solo caso in cui ciò incida sull’an o sul quomodo della misura (Sez. 2, n. 17366 del 21/12/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284489 – 01, relativa ad associazione per delinquere di tipo mafioso, in cui è stata ritenuta corretta la decisione dichiarativ dell’inammissibilità del ricorso, in quanto finalizzato alla sola esclusione del ruolo apicale dell’indagato all’interno del sodalizio, elemento privo di riflessi su presupposti della misura cautelare e sulla sua durata; v. anche Sez. 6, n. 5213 del 11/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275028 – 01, con la quale è stato ritenuto inammissibile per carenza d’interesse il ricorso con cui era stata contestata la sussistenza dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa senza che fossero impugnate le valutazioni in punto di pericolo di reiterazione non fondate su tale presunzione; nel medesimo senso Sez. 3, n. 36731 del 17/04/2014, COGNOME, Rv. 260256 – 01). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Ora, nel caso in esame, con la memoria di cui ora si lamenta la mancata considerazione erano state eccepite la mancanza di gravi indizi di responsabilità in ordine al reato di cui al capo a) e anche in ordine a quello di cui al capo 40), oltre che la qualificabilità di tale ultima condotta ai sensi dell’art. 73, qui comma, d.P.R. 309/90, e anche l’insussistenza di esigenze cautelari, ossia aspetti già devoluti al Tribunale con la richiesta di riesame e sui quali il giudic dell’impugnazione cautelare si è pronunciato, nonché la mancanza di gravi indizi in ordine alla configurabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis1 cod. pen., che, come evidenziato, costituisce aspetto privo di rilevanza ai fini del mantenimento della misura cautelare, con la conseguenza che l’omessa pronuncia sul punto risulta priva di rilevanza.
In conclusione il ricorso in esame deve essere dichiarato inammissibile, a cagione della manifesta infondatezza di tutte le censure alle quali è stato affidato.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1 ter disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 19/2/2025