Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 17651 Anno 2025
REPUBBLICA ITALIANA Relatore: COGNOME NOME COGNOME
In nome del Popolo Italiano
Penale Sent. Sez. 5 Num. 17651 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 26/03/2025
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE
Composta da
NOME COGNOME
Presidente –
Sent. n. sez. 397/2025
COGNOME
UP – 26/03/2025
NOME COGNOME
Relatore –
R.G.N. 3102/2025
NOME COGNOME
NOME
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a CIRIE’ il 31/08/1994
Parte Civile:
COGNOME NOME NOME avverso la sentenza del 26/11/2024 della Corte d’appello di Torino Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi la inammissibilità del ricorso; letta la memoria del difensore della parte civile, avv. NOME COGNOME che ha concluso come da memoria e nota spese chiedendo il rigetto del ricorso; letta la memoria del difensore del ricorrente, avv. NOME COGNOME che ha concluso riportandosi ai motivi del ricorso e ha insistito per l’accoglimento dello stesso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di Torino ha confermato la sentenza del Tribunale di Ivrea del 14.06.2023, che aveva condannato NOME alla pena ritenuta di giustizia, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva qualificata, e al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile per il reato di furto all’interno dell’esercizio pubblico ‘la T ana del lupo’ .
Contro l’anzidetta sentenza l’ imputato, propone ricorso a mezzo del difensore di fiducia, affidato a due motivi, di seguito sintetizzati ai sensi dell’art.173 , comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1 Il primo motivo di ricorso lamenta vizi motivazionali, anche sotto il profilo del travisamento della prova, costituita dal filmato delle telecamere con ripresa sul luogo del furto e dal fotogramma in atti, nonché vizio di violazione di legge processuale quanto alle modalità della ricognizione ex art. 213, comma 3, cod. proc. pen., avvenuto senza il contraddittorio delle parti.
Si deduce che la Corte di appello abbia omesso di motivare sulla erroneità del riconoscimento effettuato, in udienza, dal giudice di prime cure, sulla base di un fotogramma, per l’attaccatura dei capelli e l’ovale del viso, limitando il riconoscimento, effettuato dalla parte offesa e dal figlio, a quello avvenuto a casa o in caserma, e non nel processo, in quanto la copia digitale acquisita al processo era sgranata, con conseguente inattendibilità del riconoscimento. Si deduce che, dagli atti, non risulta che gli operanti non conoscessero Marino, in quanto, nella CNR, si legge che lo stesso era ‘soggetto molto ben noto a questo ufficio’, e che , anche le forze dell’ordine , che conoscevano molto bene il Marino, non lo hanno riconosciuto, e che sarebbe apodittica l’affermazione , contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui i Carabinieri di Venaria Reale non conoscevano l’imputato a differenza di quelli di COGNOME. Si deduce che la copia del filmato su supporto digitale è un originale con la conseguente apoditticità della affermazione della divergente qualità dei due filmati e dei due fotogrammi.
2.2 Il secondo motivo di ricorso lamenta vizi motivazionali, deducendo che la Corte di appello, in contrasto con i dati processuali, quali le dichiarazioni del figlio della parte civile, che avrebbe escluso che quest’ultimo avesse dissapori e pregiudizi verso l’imputato che considerava un tossico e un delinquente, mentre subito sospettava che il Marino fosse l’autore del furto, vedendolo per strada mentre raggiungeva il bar, a seguito dell’allarme . Si deduce vizio di travisamento
della prova, in relazione alle dichiarazioni del teste COGNOME che avrebbe riferito alla parte civile, il giorno dopo il fatto, d ell’avvistamento del Marino , per strada, il giorno del furto, nonché anche in punto di riconoscimento dell’autore del reato , in relazione alla indicazione del colore della felpa (indicata prima chiara e poi scura), non tenendo conto che la persona offesa, nella integrazione della denuncia, indica che il teste COGNOME avrebbe notato il Marino con una cassetta nera sotto il braccio, il giorno del furto, circostanza che il COGNOME avrebbe taciuto ai militari in sede di querela e di prima integrazione della querela, circostanza non notata dal teste NOME COGNOME che già sospettava del Marino.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è in parte manifestamente infondato e in parte aspecifico, poiché si limita a riproporre le medesime ragioni d’appello cui è stata già data congrua risposta dal provvedimento impugnato.
1.1 Deve essere in tal senso sottolineato che è preclusa alla Corte di cassazione la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova (Sez.3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217-01, Sez. 5, n. 15041 del 24/10/2018, COGNOME, Rv. 275100-01, Sez. 4, 1219 del 14/09/2017, COGNOME, Rv. 271702-01). Nel caso concreto si è in presenza di c.d. “doppia conforme” in punto affermazione della penale responsabilità di tutti gli imputati per i fatti di reato come contestati, con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stati rispettati i parametri del richiamo della pronuncia di appello a quella di primo grado e dell’adozione – da parte di entrambe le sentenze – dei medesimi criteri nella valutazione delle prove (cfr., Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218). Quanto alle censure articolate occorre considerare, dunque, che è preclusa alla Corte di cassazione una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dai giudici di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova (Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217-01; in senso conforme, v. Sez. 4, n. 1219 del 14/09/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv.
271702-01; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 26921701; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482-01; Sez. 5, n. 15041 del 24/10/2018, dep. 2019, Battaglia, Rv. 275100-01). Sono dunque inammissibili nel giudizio di legittimità, tutte quelle censure che attengono a vizi diversi dalla mancanza di motivazione, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo.
Nel giudizio di appello è, pertanto, consentita la motivazione “per relationem” alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate dall’appellante non contengano – come nel caso di specie – elementi di novità rispetto a quelle già condivisibilmente esaminate e disattese dalla sentenza richiamata (Cass. Sez. 2, sent. n. 30838 del 19/03/2013, Rv. 257056).
Deve, inoltre, ricordarsi che mentre è consentito dedurre con il ricorso per cassazione il vizio di “travisamento della prova”, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale, non è affatto permesso dedurre il vizio del “travisamento del fatto”, stante la preclusione per il giudice di legittimità a sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si domanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, qual è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (così, tra le tante, Sez. 3^, n. 39729 del 18/06/2009, COGNOME, Rv. 244623; Sez. 5^, n. 39048 del 25/09/2007, COGNOME, Rv. 238215).
Vero è, poi, che tra i vizi riconducibili al novero di quelli denunziabili, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen., vi è quello del “travisamento” che, come è noto, è ravvisabile nel caso di contraddittorietà della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, ovvero da altri atti del processo indicati nei motivi di gravame, ovvero dall’errore cosiddetto revocatorio, che cadendo sul significante e non sul significato della prova, si traduce nell’utilizzo di una prova inesistente per effetto di una errata percezione di quanto riportato dall’atto istruttorio ovvero nella omessa valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (cfr., Sez. 5, Sentenza n. 18542 del 21/01/2011, COGNOME, Rv. 250168; Sez. 2, Sentenza n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 5, Sentenza n. 8188 del 04/12/2017, COGNOME, Rv. 272406; Sez. 2, Sentenza n. 27929 del 12/06/2019, PG c/COGNOME, Rv. 276567). Sez. 5, Sentenza n. 48050 del 02/07/2019, S, Rv. 277758, secondo cui il vizio di travisamento della prova è ravvisabile ed efficace solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza
dimostrativa dell’elemento frainteso o ignorato, fermi restando il limite del “devolutum” in caso di cosiddetta “doppia conforme” e l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio). Va, precisato, inoltre, che il giudizio sulla rilevanza ed attendibilità delle fonti di prova è devoluto insindacabilmente ai giudici di merito e la scelta che essi compiono, per giungere al proprio libero convincimento, con riguardo alla prevalenza accordata a taluni elementi probatori, piuttosto che ad altri, ovvero alla fondatezza od attendibilità degli assunti difensivi, quando non sia fatta con affermazioni apodittiche o illogiche, si sottrae al controllo di legittimità della Corte Suprema.
2. I motivi ripercorrono censure sconfessate dalla Corte d’appello , che ha spiegato i passaggi temporali, che hanno consentito di ricostruire, con certezza, la prova a carico del ricorrente, sin dalla prima visione dell’originale del filmato , che ha ripreso i luoghi del furto, ed inquadrato direttamente il volto del ladro, che veniva riconosciuto in termini di certezza , ‘senza ombra di dubbio’ , dalla p.o. e dal figlio di questa, dinanzi alla P.G. della stazione di Venaria Reale, che non conosceva il ricorrente, e che non segnalava alcun difetto di qualità delle immagini.
Non può, in proposito, non rilevarsi che tale elemento indiziario veniva svalutato dalla difesa del ricorrente, attraverso considerazioni assertive e svincolate dal compendio probatorio, essendo incontroverso che, sul piano logico-processuale, è certamente possibile riconoscere un individuo attraverso le immagini estrapolate dai sistemi di videosorveglianza installati nei pressi del luogo del delitto, anche senza essere stati fisicamente presenti agli accadimenti criminosi.
2.1 Le deduzioni difensive contrastano con la giurisprudenza di legittimità consolidata, secondo cui il riconoscimento dell’imputato o dell’indagato nel soggetto ripreso in un filmato registrato dalle telecamere di videosorveglianza installate nei pressi della scena del crimine, operato dal personale di polizia giudiziaria, può assumere il valore di un indizio grave e preciso, la cui valutazione probatoria è rimessa al vaglio del giudice di merito.
Sul punto, non si può che richiamare l’arresto ermeneutico, affermato da Sez. 2, n. 15308 del 07/04/2010, COGNOME, Rv. 246925 – 01, secondo cui: «il riconoscimento dell’imputato nel soggetto ritratto nei fotogrammi estratti dalla registrazione effettuata dalle telecamere di sicurezza presenti sul luogo di consumazione del delitto, operato da parte del personale di polizia giudiziaria che vanti pregressa personale conoscenza dello stesso, ha valore di indizio grave e preciso a suo carico, la cui valutazione è rimessa al giudice di merito». Si muove, del resto, nella stessa direzione ermeneutica il seguente principio di diritto: «in materia di valutazione della prova il giudice può trarre il proprio convincimento da ogni elemento purché
acquisito non in violazione di uno specifico divieto (Sez. 1, Sentenza n. 41153 del 11/10/2024, Rv. 287145 -01).
Invero, il riconoscimento fotografico, operato in sede di indagini di polizia giudiziaria, ancorché non sia regolato dal codice di rito, può essere legittimamente assunta come prova, in quanto costituisce un accertamento di fatto utilizzabile in giudizio ai sensi dell’art. 189 cod. proc pen. (Sez. 5, n. 6456 del 01/19/2015, Verde, Rv. 266023) e catalogabile, dunque, nel novero delle cd. prove atipiche. La certezza del riconoscimento fotografico non discende dal riconoscimento come strumento probatorio, ma dall’attendibilità accordata alla deposizione di chi si dica certo dell’individuazione (ex multis: Sez. 6, n. 17103 del 31/20/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275548; Sez. 5, n. 9505 del 24/11/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 267562; Sez. 4, n. 16902 del 04/02/2004, COGNOME, Rv. 228043).
Egualmente ciò vale per il riconoscimento personale effettuato dalla persona offesa dinanzi alla polizia giudiziaria, di cui si verte nel caso di specie, essendo stati sentiti, in dibattimento, sia la persona offesa, autore del riconoscimento, che il teste di Pg.
E’ pacifico nella giurisprudenza di legittimità l’inquadramento dell’atto di individuazione (personale o fotografica), compiuto nel corso delle indagini preliminari, nella categoria generale delle manifestazioni riproduttive di una percezione visiva; in quanto tale, esso «rappresenta una specie del più generale concetto di dichiarazione, sicché la sua forza probatoria non discende dalle modalità formali del riconoscimento bensì dal valore della dichiarazione confermativa, alla stessa stregua della deposizione testimoniale (Sez. 4, n. 1867 del 21/2/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258173), e non dalle formalità di assunzione previste dall’art. 213 cod. proc. pen. per la ricognizione personale, utili ai fini della efficacia dimostrativa secondo il libero apprezzamento del giudice» (Sez. 5, n. 23090 del 10/07/2020, COGNOME, Rv. 279437 – 01). Si tratta, dunque, di prova non espressamente disciplinata dal codice di rito, utilizzabile nel giudizio in base al principio della non tassatività dei mezzi di prova ed a quello del libero convincimento del giudice (Sez. 5, n. 6456 del 01/10/2015, dep. 2016, Verde, Rv. 266023 – 01).
Sia che l’atto di individuazione entri a far parte del patrimonio probatorio rilevante per il giudizio per effetto della scelta processuale della definizione allo stato degli atti, sia che di esso riferisca il testimone escusso nell’istruttoria dibattimentale (richiamando quanto avvenuto nel corso delle indagini preliminari, oppure quando l’individuazione avvenga direttamente nel corso del dibattimento), i criteri di valutazione di tale prova devono essere quelli propri dei risultati dichiarativi acquisiti: ciò comporta che «l’affidabilità e la valenza probatoria dell’individuazione informale discendono dall’attendibilità accordata al teste ed alla deposizione dal
medesimo resa, valutata alla luce del prudente apprezzamento del giudice» (Sez. 6, n. 12501 del 27/01/2015, COGNOME, Rv. 262908 – 01).
Si è, così, più volte affermato che «l’individuazione fotografica effettuata nel corso delle indagini preliminari, confermata dal testimone che nel corso dell’esame dibattimentale abbia dichiarato di avere compiuto la ricognizione informale e reiterato il riconoscimento positivo, seppure in assenza delle cautele e delle garanzie delle ricognizioni, costituisce, in base al principio di non tassatività dei mezzi di prova, un accertamento di fatto liberamente apprezzabile dal giudice, la cui affidabilità dipende dall’attendibilità del teste e della deposizione da questi resa» (Sez. 4, n. 47262 del 13/09/2017, COGNOME, Rv. 271041 – 01; Sez. F, n. 43285 del 08/08/2019, COGNOME, Rv. 277471 – 03), mettendo in rilievo la decisività del giudizio di «congruenza del percorso argomentativo utilizzato dal giudice di merito a fondamento dell’affidabilità del riconoscimento e, quindi, del giudizio di colpevolezza» (Sez. 5, n. 9505 del 24/11/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 267562 01). Se la conferma durante il dibattimento dell’operata individuazione, nel corso delle indagini, da parte del testimone, mediante un nuovo atto positivo di individuazione, assicura un elevato grado di attendibilità della dichiarazione complessiva al cui interno si colloca la frazione dell’attestazione riguardante la percezione visiva riferita dal testimone, possono darsi ipotesi in cui mentre nel corso delle indagini il testimone ha eseguito l’attività di individuazione, con esiti di corrispondenza tra il soggetto individuato e la persona dell’imputato, nell’istruttoria dibattimentale il riconoscimento mediante individuazione non avviene 8 S ez. 2, Sentenza n. 25122 del 07/03/2023, Rv. 284859 -01).
2.1.2 Il rispetto delle modalità formali previste dall’art. 213 cod. proc. pen. per la ricognizione di persona, effettuata dinanzi al giudice, nel corso del processo costituente una prova tipica – non è un’opzione obbligata, come sembra invece sostenere il ricorrente. Nella giurisprudenza di legittimità, alcune pronunce hanno in passato espressamente affermato che l’individuazione fotografica non deve essere preceduta dalla descrizione delle fattezze fisiche della persona indagata, trattandosi di adempimento preliminare richiesto solo per la ricognizione di persona (Sez. 2, n. 9380 del 20/02/2015, Panarese, Rv. 263302; Sez. 1, n. 47937, del 09/11/2012, COGNOME, Rv. 253885); altre pronunce, pur rilevando che le modalità con cui viene effettuato il riconoscimento devono avvicinarsi il più possibile all’analogo mezzo di prova tipico costituito dalla ricognizione di persona, non arrivano certo ad omologare tale ultimo mezzo di prova a quello atipico dell’individuazione fotografica o svolta “in presenza” dinanzi alla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari (cfr. Sez. 5, n. 9505, del 24/11/2015, COGNOME, Rv. 267562; Sez. 6, n. 17747 del 15/2/2017, COGNOME, Rv. 269876). Ed allora
deve concludersi che non è possibile pervenire ad una compiuta tipizzazione delle cautele procedimentali che devono assistere l’assunzione di un atto di riconoscimento fotografico o personale effettuato dinanzi alla polizia giudiziaria, stante la atipicità di detto strumento probatorio, sicchè la metodologia dell’assunzione del riconoscimento fotografico potrà influenzare la sua efficacia dimostrativa, sotto il profilo della valenza di attendibilità della dichiarazione attraverso la quale viene veicolato ed introdotto nel processo, ma non potrà certamente essere ritenuta idonea a generare nullità o inutilizzabilità di sorta, qualora non si avvicini o non ricalchi le sembianze procedimentali previste dall’art. 213 cod. proc. pen. In coerenza con la linea interpretativa appena enunciata e da preferirsi, a giudizio del Collegio, è stato anche affermato che l’individuazione diretta di persona effettuata nei locali della polizia giudiziaria (nella specie, dalle persone offese) trova il suo paradigma nella prova dichiarativa proveniente da un soggetto che dichiara di avere accertato direttamente l’identità personale dell’imputato. Pertanto, essa deve essere tenuta distinta dalla ricognizione personale, disciplinata dall’art. 213 cod. proc. pen., essendo inquadrabile, invece, tra le prove non disciplinate dalla legge di cui all’art. 189 cod. proc. pen., e pienamente utilizzabile, ferma restando la facoltà del giudice di apprezzarne liberamente le risultanze (Sez. 2, n. 16773 del 20/3/2015, Osas, Rv. 263767; Sez. 5 n. 51729 del 12/10/2016, D B, Rv. 268860).
Nel caso di specie, la Corte d’Appello, e prima ancora il giudice di primo grado, hanno svolto il dovuto vaglio di attendibilità della parte offesa e del figlio, che hanno effettuato il riconoscimento dell’imputato dalla visione dell’originale delle immagini delle videoriprese, presso la caserma dei Carabinieri, attestandone la particolare convinzione sulla certezza dell’individuazione dell’imputato, soggetto alle stesse ben noto, in quanto conosciuto da tempo e frequentatore abituale del bar, in quanto l’individuo veniva inquadrato direttamente nel volto, risultandone ben visibile il viso. In forza del principio di ammissibilità delle prove atipiche (art.189 cod. proc. pen.), la Corte di merito ha ritenuto valido il riconoscimento dell’imputato, effettuato, senza ombra di dubbio, in sede di indagini preliminari, dinanzi alla Pg., dai due testi COGNOME, dalla visione del filmato in originale, precisando di averlo visto chiaramente in volto, poi, ribadito, in dibattimento, ( Sez.
2, Sentenza n. 41375 del 05/07/2023, Rv. 285160 -01)
Dunque, non soltanto la dichiarazione dei due testi ha superato il vaglio di attendibilità e risulta credibile quanto al riconoscimento del ricorrente come autore del reato, ma ulteriori elementi indiziari confortano tale individuazione. Del resto, affermare, come fa il ricorso, asserendo, non provati, motivi di astio è una petizione di principio indimostrata nella realtà (Sez. 5, Sentenza n. 23090 del 10/07/2020, Rv. 279437 -01).
2.1.3 Con riferimento alla valutazione in termini di irrilevanza della successiva visione dello stesso filmato, effettuata dai medesimi soggetti, sul supporto, e non sull’originale, dinanzi alla PG della stazione di Mathi (i cui militari conoscevano il ricorrente), la motivazione è coerente e non illogica. La Corte di merito richiama, al riguardo, la qualità delle immagini, riversate nel supporto, consegnato alla pg, troppo sgranate e perciò non chiare , rispetto all’originale , le cui immagini sono state indicate come molto più nitide, sottolineando che anche tali immagini confermavano la particolare inquadratura del volto. Rispetto a tali emergenze, non si comprende quale valore di confutazione possa avere la produzione allegata al ricorso (che si riferisce a verbali della PG di COGNOME) per confutare il fatto che la PG conosceva il ricorrente. Tale attività di riconoscimento, effettuata nell’immediatezza dei fatti , sull’originale, è divenuta elemento di prova nel dibattimento attraverso la testimonianza della p.o. e del figlio, così che inconferente è il richiamo alla disciplina della ricognizione, non effettuata nel caso specifico.
2.2 Il secondo motivo è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
Quanto ad asseriti motivi di astio del figlio della persona offesa nei confronti dell’imputato il motivo è generico, mancando la indicazione puntuale di elementi in fatto e in diritto su cui sarebbero fondati.
Inammissibili sono anche le censure avverso l’attendibilità del test imone NOMECOGNOME terzo estraneo, in relazione alle quali, la valutazione de lla Corte d’appello è corretta e logica. Al riguardo, la Corte territoriale richiama la congruenza e concordanza tra il verbale di s.i.t del 24.04.2020 e le dichiarazioni rese in dibattimento, e che la discordanza circa il colore della felpa, indossata dall’imputato al momento del fatto (di colore chiaro anziché scuro), sarebbe imputabile ad un difetto del ricordo atteso il lungo tempo intercorso.
Parimenti, la motivazione è immune da vizi di illogicità anche con riferimento alla ritenuta irrilevanza del motivo per cui COGNOME abbia riferito, solo in un secondo momento, in sede della integrazione della denuncia, la circostanza, riferitagli dal teste COGNOME d ell’avvistamento de l ricorrente, la sera del fatto, in orario compatibile con il furto, con la cassetta nera, asportata dal bar, che teneva sotto il braccio. La Corte, tenendo conto delle diverse volte (ben 3) in cui la parte civile si era recata in caserma, per riferire ulteriori dettagli, scoperti riguardo al furto, nelle due settimane successive, ha spiegato la circostanza con l ‘acquisizione della informazione soltanto in prossimità dell ‘ultima integrazione della denuncia.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al pagamento della somma di euro 3.000 in favore della Cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 541 cod. proc. pen., essendo il ricorrente rimasto soccombente nei confronti della persona offesa, costituitasi parte civile, va condannato alla rifusione in favore di quest ‘ ultima delle spese di rappresentanza e difesa, che si liquidano nella misura qui di seguito indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al pagamento della somma di euro 3.000 in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi euro 1.800, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma il 26/03/2025.
Il Consigliere estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME