Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 4779 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 4779 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 17/12/2024
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato il 26/10/1996 a BARI
avverso la sentenza in data 01/06/2023 della CORTE DI APPELLO DI BARI; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Forza NOME COGNOME per il tramite del proprio procuratore speciale, impugna la sentenza in data 01/06/2023 della Corte di appello di Bari che, in riforma della sentenza in data 22/11/2016 del g.i.p. del Tribunale di Bari, in accoglimento dell’appello del pubblico ministero, lo ha condannato per il reato di rapina. Il g.i.p lo aveva, invece, assolto.
Deduce:
NOME Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 628 cod. pen. e agli artt. 192, comma 2, 533 comma 1, e 546, lett. e), cod. proc. pen..
Secondo il ricorrente la Corte di appello non ha adeguatamente e logicamente motivato in ordine all’attendibilità della ricognizione personale effettuata
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dalla persona offesa, con particolare riferimento all’individuazione fotografica effettuata nel corso delle indagini preliminari.
Osserva che l’individuazione personale effettuata in dibattimento non collima con quella effettuata nel corso delle indagini preliminari.
Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alle circostanze attenuanti generiche.
Secondo il ricorrente non è possibile comprendere l’iter logico seguito dalal Corte di appello per negare le circostanze attenuanti generiche atteso che il riferimento alla condotta processuale tenuta dal ricorrente appare illogica laddove costituisce un dato certo la presenza del medesimo in aula al fine di sottoporsi al riconoscimento effettuato dalla persona offesa.
Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio.
Con l’ultimo motivo d’impugnazione il ricorrente sostiene che la Corte di appello non ha reso una motivazione adeguata in punto di pena in relazione a una condanna che si discosta dal minimo edittale, avendo fatto ricorso a mere clausole di stile.
CONSIDERATO IN DIRITTO
COGNOME Il primo motivo di ricorso è infondato.
Con esso il ricorrente deduce la contraddittorietà tra l’individuazione fotografica effettuata nel corso delle indagini preliminari e il riconoscimento personale effettuato dalla persona offesa in udienza, davanti alla Corte di appello, con l’imputato presente.
A tale proposito la Corte di appello (alla pagina 3 della sentenza impugnata) ha spiegato che il riconoscimento personale effettuato in udienza è stato effettuato proprio al fine di superare le incertezze sulla identificazione ritenute dal g.i.p. e che avevano portato all’assoluzione dell’imputato. Incertezze circa le caratteristiche antropometriche che la Corte di appello ha ritenuto superate anche grazie alle precisazioni e ai chiarimenti offerti in udienza dalla persona offesa.
Le deduzioni difensive circa la denunciata contraddittorietà si mostra, dunque, inattuale, atteso che la Corte di appello ha spiegato che il riconoscimento personale effettuato in udienza e le precisazioni offerte dalla persona offesa nel corso della testimonianza avevano fatto superare le incertezze sull’identificazione del reo, che avevano portato all’assoluzione in primo grado.
Tanto viene icasticamente rappresentato nel brano di motivazione in cui (alla
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pag. 3) si riporta un’espressione resa dalla persona offesa nel corso del suo esame testimoniale, quando quella rimarcava: «io oggi ho riconosciuto lui e non la fotografia».
La Corte di appello, in sostanza, ha fondato il proprio giudizio di responsabilità sulla base del valore probatorio del riconoscimento personale effettuato in udienza, al cui proposito questa Corte ha già spiegato che «il riconoscimento dell’imputato presente, operato in udienza, nel corso della deposizione da parte del testimone, trova il suo paradigma nella prova testimoniale proveniente da un soggetto che, nel corso della testimonianza, abbia accertato direttamente l’identità personale dell’imputato. Esso deve, pertanto, essere tenuto distinto dalla ricognizione personale, disciplinata dall’art. 213, ed è inquadrabile tra le prove non disciplinate dalla legge di cui all’art.189 cod. proc. pen.» (Sez. 1, n. 3642 del 03/12/2004, dep. 2005, Izzo, Rv. 230781 – 01).
Da ciò discende l’infondatezza dell’assunto difensivo, visto che la Corte di appello ha valorizzato (e disposta) la testimonianza resa in dibattimento dalla persona offesa proprio al fine di superare le incertezze riscontrate dal g.i.p. dalla lettura del verbale dell’individuazione fotografica effettuata in sede di indagini preliminari, così che non può ritenersi sussistente dedotta contraddittorietà in relazione ai mezzi di prova utilizzati per identificare l’autore della rapina.
Da qui l’infondatezza del primo motivo d’impugnazione.
2. Il secondo motivo d’impugnazione è inammissibile.
Con esso il ricorrente denuncia la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui nega le circostanze attenuanti generiche in considerazione del comportamento processuale, non considerando che l’imputato era presente in aula quando si effettuato il riconoscimento in aula.
Va rilevato come il motivo sia al contempo manifestamente infondato e aspecifico.
La manifesta infondatezza attiene alla denuncia di manifesta illogicità, che non viene in rilievo nel caso in esame, ove si consideri che «in tema di ricorso per cassazione, il vizio di illogicità manifesta della motivazione della sentenza consegue alla violazione di principi della logica formale diversi dalla contraddittorietà o dei canoni normativi di valutazione della prova ai sensi dell’art. 192 cod. proc. pen. ovvero alla invalidità o alla scorrettezza dell’argomentazione per carenza di connessione tra le premesse della abduzione o di ogni plausibile nesso di inferenza tra le stesse e le conclusioni» (Sez. 1, n. 53600 del 24/11/2016, dep., 2017, COGNOME, Rv. 271636 – 01).
Tutte ipotesi che non si riscontrano né sono state dedotte con il motivo in esame.
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A ciò si aggiunga che il motivo si risolve in una mera asserzione, privo di reali censure, così che esso risulta generico per indeterminatezza perché privo dei requisiti prescritti dall’art. 581 comma 1, lett. c) cod. proc. pen. in quanto, a fronte di una motivazione della sentenza impugnata logicamente corretta, non indica gli elementi che sono alla base della censura formulata, non consentendo al giudice dell’impugnazione di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato.
Da qui l’inammissibilità del secondo motivo d’impugnazione.
3. L’ultimo motivo di ricorso è infondato.
Secondo il ricorrente la Corte di appello non avrebbe ottemperato all’obbligo di motivazione nella misura richiesta in relazione a una pena che si discosta dal minimo edittale.
A tale proposito va preliminarmente osservato che la pena comminata dall’art. 628, comma primo, cod. pen all’epoca dei fatti (21.11.2014) era da tre a venti anni di reclusione.
Ciò premesso, si rileva che la Corte di appello ha considerato una pena base pari ad anni quattro anni e mesi sei di reclusione, poi ridotta per il rito alla pena di anni tre di reclusione.
Va, quindi, osservato che la pena base individuata dalla Corte di appello è al di sotto della misura media della cornice edittale fissata per il delitto di rapina, individuabile nella misura di anni undici e mesi sei di reclusione.
A fronte di tale evenienza, questa Corte ha già avuto modo di puntualizzare che «non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione del giudice nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale che deve essere calcolata non dimezzando il massimo edittale previsto per il reato, ma dividendo per due il numero di mesi o anni che separano il minimo dal massimo edittale ed aggiungendo il risultato così ottenuto al minimo» (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, COGNOME, Rv. 276288 – 01).
La motivazione cui ha fatto ricorso la Corte di appello per giustificare la pena inflitta risulta conforme a tale principio di diritto, visto che i giudici hanno spiegato che avendo riguardo ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen., la condanna ad anni tre di reclusione ed euro 600,00 di multa risultava “equa, congrua e proporzionata alla gravità del fatto processato”.
Da ciò consegue l’infondatezza del terzo motivo di ricorso.
Il ricorso va, dunque, rigettato e il ricorrente va conseguentemente condannato al pagamento delle spese processuali.
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Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così è deciso, 17/12/2024
Il Consigliere estensore
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Il Presi ente
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