Riconoscimento della Continuazione tra Reati: L’Analisi della Cassazione
L’istituto del riconoscimento della continuazione rappresenta un pilastro del diritto penale esecutivo, consentendo di unificare pene relative a reati diversi ma commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (Num. 13483/2025) offre spunti cruciali sui limiti e le condizioni di applicabilità di tale istituto, specialmente quando i reati sono collegati a contesti di criminalità organizzata. Vediamo nel dettaglio la vicenda e i principi di diritto affermati.
I Fatti del Caso: La Richiesta Respinta in Appello
Un soggetto condannato con sentenze irrevocabili aveva richiesto alla Corte di Appello di Napoli di applicare la disciplina del reato continuato, ai sensi dell’art. 671 del codice di procedura penale, a diversi reati per cui era stato giudicato. L’obiettivo era ottenere un trattamento sanzionatorio complessivo più mite, unificando le pene sotto il vincolo di un unico piano criminale.
La Corte di Appello, tuttavia, aveva rigettato l’istanza. La motivazione principale del rigetto risiedeva nella valutazione che i reati presupposti non fossero né omogenei né riconducibili a una preordinazione criminosa unitaria. In particolare, i giudici di merito avevano sottolineato come uno dei reati contestati fosse il risultato di un evento imprevedibile al momento dell’adesione del condannato al clan mafioso: la collaborazione con la giustizia di un altro affiliato.
Il Ricorso e la Pronuncia della Cassazione sul Riconoscimento della Continuazione
Contro l’ordinanza della Corte di Appello, il condannato ha proposto ricorso per cassazione. La Suprema Corte, esaminando il caso, ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando di fatto la decisione dei giudici di merito e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria.
La Mancanza di un Medesimo Disegno Criminoso
Il primo punto cardine della decisione riguarda la nozione di “medesimo disegno criminoso”. La Cassazione concorda con la Corte territoriale nel ritenere che i presupposti per la continuazione non sussistessero. Il fatto che uno dei reati fosse scaturito da un evento non prevedibile – la collaborazione di un altro membro del clan – interrompeva la catena logica e volitiva necessaria per configurare un piano unitario. Se un crimine è il “frutto di un fatto imprevedibile”, non può essere considerato parte di un progetto deliberato in anticipo.
Il Principio di Diritto per i Reati di Mafia
L’aspetto più rilevante dell’ordinanza emerge quando la Corte affronta la specificità dei reati legati a organizzazioni mafiose. I giudici hanno chiarito che, in questi contesti, non basta appellarsi a una generica omogeneità dei reati per ottenere il riconoscimento della continuazione.
Citando un proprio precedente (Sent. n. 51906/2017), la Corte ha stabilito che è necessaria «una specifica indagine sulla natura dei vari sodalizi, sulla loro concreta operatività e sulla loro continuità nel tempo». Questo esame approfondito serve ad accertare due elementi fondamentali:
1. L’unicità del momento deliberativo: se la decisione di commettere i vari reati è stata presa in un unico contesto volitivo.
2. La successiva attuazione: se i crimini sono stati la progressiva realizzazione di quel piano iniziale, anche attraverso l’appartenenza a più organizzazioni o alla medesima.
Le Motivazioni della Decisione
Le motivazioni della Suprema Corte si basano su due pilastri fondamentali. In primo luogo, l’impossibilità di ricondurre a un’unica programmazione criminosa reati che, sebbene simili, sono influenzati da eventi estemporanei e imprevedibili. La collaborazione di un affiliato rappresenta una cesura che rende autonomo il reato successivo, escludendolo dal piano originario.
In secondo luogo, e con particolare riferimento alla criminalità organizzata, la Corte ha rafforzato un principio di rigore probatorio. L’adesione a un clan mafioso non implica automaticamente che ogni reato commesso sia parte di un unico disegno. È onere del richiedente dimostrare, attraverso un’analisi concreta e dettagliata, l’esistenza di un progetto criminoso unitario che abbracci tutti i delitti, superando la mera affiliazione al sodalizio.
Le Conclusioni
L’ordinanza in esame consolida un orientamento giurisprudenziale volto a evitare automatismi nell’applicazione della continuazione, specialmente in contesti complessi come quelli mafiosi. La decisione impone una valutazione rigorosa e fattuale del “medesimo disegno criminoso”, che non può essere presunto ma deve essere provato con elementi concreti. Per i condannati, ciò significa che la richiesta di unificazione delle pene in fase esecutiva richiede un’argomentazione solida, capace di dimostrare non solo l’omogeneità dei reati, ma anche e soprattutto l’unicità del progetto che li ha originati, al riparo da contingenze imprevedibili.
È possibile ottenere il riconoscimento della continuazione tra reati se uno di essi deriva da un evento imprevedibile?
No, la Corte di Cassazione ha stabilito che se un reato è il “frutto di un fatto imprevedibile al momento dell’associazione”, non può essere ricondotto a un medesimo disegno criminoso preordinato, ostacolando il riconoscimento della continuazione.
Quali requisiti specifici sono necessari per il riconoscimento della continuazione tra reati legati a organizzazioni mafiose?
Non è sufficiente un riferimento generico all’omogeneità dei reati. Secondo la Corte, occorre una “specifica indagine sulla natura dei vari sodalizi, sulla loro concreta operatività e sulla loro continuità nel tempo” per accertare l’unicità del piano criminoso e la sua progressiva attuazione.
Cosa succede se un ricorso per cassazione viene dichiarato inammissibile?
Il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e, se non vi sono motivi di esonero, al versamento di una somma di denaro (in questo caso, tremila euro) in favore della Cassa delle ammende, come previsto dall’art. 616 del codice di procedura penale.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 13483 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 13483 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 20/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a NAPOLI il 11/11/1973
avverso l’ordinanza del 21/11/2024 della CORTE APPELLO di NAPOLI
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Esaminato il ricorso, così come integrato dalle memorie difensive versate in atti, proposto avverso l’ordinanza emessa il 21 novembre 2024, con la quale la Corte di appello di Napoli rigettava la richiesta avanzata da NOME COGNOME finalizzata a ottenere il riconoscimento della continuazione, ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., in relazione ai reati giudicati dalle sentenze irrevocabili di cui ai punti 1 e 3 del provvedimento impugnato.
Ritenuto che i reati presupposti non sono omogenei e non sono riconducibili, neppure astrattamente, a una preordinazione criminosa, tenuto conto del fatto che il reato di cui al punto 2, come evidenziato a pagina 2 del provvedimento censurato, era il «frutto di un fatto imprevedibile al momento dell’associazione del condannato al clan dei fratelli COGNOME: il fatto imprevedibile è la collaborazione dell’COGNOME NOME già affiliato al clan COGNOME ».
Ritenuto che laddove il vincolo della continuazione sia invocato in sede esecutiva con riferimento a una pluralità di reati, direttamente o indirettamente collegati a un’organizzazione mafiosa, analogamente al caso di NOME COGNOME non è sufficiente il riferimento all’astratta omogeneità dei reati, occorrendo «una specifica indagine sulla natura dei vari sodalizi, sulla loro concreta operatività e sulla loro continuità nel tempo, al fine di accertare l’unicità del momento deliberativo e la sua successiva attuazione attraverso la progressiva appartenenza del soggetto ad una pluralità di organizzazioni ovvero ad una medesima organizzazione» (Sez. 6, n. 51906 del 15/09/2017, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 271569 – 01).
Per queste ragioni, il ricorso proposto da NOME COGNOME deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non ricorrendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma di una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 20 marzo 2025.