Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 46697 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 46697 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 26/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME nato a Baia e Latina il giorno 17/7/1967 rappresentato ed assistito dall’avv. NOME COGNOME e dall’avv. NOME COGNOME di fiducia avverso la sentenza in data 15/12/2023 della Corte di Appello di Palermo visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
preso atto che è stata richiesta la trattazione orale del procedimento; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; udito il difensore dell’imputato, avv. COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 15 dicembre 2023 la Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza emessa all’esito di giudizio abbreviato in data 4 gennaio 2021 dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale della medesima città, per la parte che in questa sede esclusivamente interessa, previa esclusione
della circostanza aggravante di cui all’art. 7 I. 203/1991, ha confermato l’affermazione della penale responsabilità di NOME COGNOME rideterminando il trattamento sanzionatorio nei confronti dello stesso.
All’imputato è contestato il reato di concorso in riciclaggio continuato (artt. 110, 81, comma 2, 648-bis cod. pen. – già capo K della rubrica delle imputazioni) commesso in Palermo fino al giorno 11 novembre 2014, per avere, unitamente a NOME COGNOMEseparatamente giudicato), posto in essere, in relazione a proventi del delitto presupposto perpetrato dalla famiglia COGNOME, operazioni finanziarie volte ad impedire l’identificazione della provenienza delittuosa di una somma di denaro dell’ammontare di euro 1.500,00. In particolare – secondo l’assunto accusatorio – NOME COGNOME, rappresentante legale ed amministratore unico della società RAGIONE_SOCIALE con la complicità di NOME COGNOME e di NOME COGNOME sotto le direttive di NOME COGNOME e di NOME COGNOME, si sarebbe adoperato a sostituire e trasferire nuovamente al COGNOME, mediante bonifico, la cifra di 1.500,00 euro, somma che proveniva dai fondi di provenienza illecita detenuti nella società RAGIONE_SOCIALE e che faceva ritorno, per il tramite di NOME COGNOME, a NOME COGNOME che in precedenza ne aveva disposto il transito attraverso le casse della RAGIONE_SOCIALE per l’attività di consulenza svolta dalla società a favore di NOME COGNOME ma in realtà prestata a NOME COGNOME.
Ricorrono per Cassazione avverso la predetta sentenza i difensori dell’imputato impugnando anche l’ordinanza della Corte di appello in data 15 dicembre 2023 con la quale veniva rigettata la richiesta ex art. 603 cod. proc. pen. di acquisizione del verbale in data 12 gennaio 2021 di trascrizione della testimonianza di NOME COGNOME in altro procedimento per estorsione a carico del COGNOME, e deducendo:
2.1. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 125, 192, 238-bis, 521, 530, 533, 546, comma 1, lett. e), e 603 cod. proc. pen.
Rilevano i difensori del ricorrente, dopo avere riportato testualmente alcuni passaggi della sentenza impugnata, che i giudici di merito:
avrebbero violato la norma di cui all’art. 648-bis cod. pen. sia sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo ed avrebbero travisato alcune risultanze processuali;
non avrebbero debitamente valutato alcune prove a discarico (tra cui una sentenza irrevocabile) acquisite per la prima volta nel giudizio di appello;
nell’ordinanza emessa in data 15 dicembre 2023 non avrebbero compiutamente spiegato le ragioni per la quali è stata rigettata la richiesta di acquisizione del verbale delle dichiarazioni del Di COGNOME e che, infine,
avrebbero violato i principi della correlazione tra l’imputazione e la sentenza e, più in generale, quello della possibilità di addivenire ad una decisione di condanna di condanna solo di presenza di elementi di colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Ricordano i difensori del ricorrente di avere evidenziato nei motivi di appello: a) che il COGNOME risulta coinvolto nella vicenda di cui è processo soltanto per avere veicolato, su sollecitazione del COGNOME, precisazioni lecite e legittime circa la restituzione di una somma di denaro versata in eccedenza senza che per ciò solo si possa sostenere che lo stesso fosse a conoscenza del fatto che si trattava di soldi riciclati;
che l’unica prova a carico del ricorrente è costituita da una telefonata intercettata il 7 novembre 2014;
che non esiste prova che la somma restituita al COGNOME sia poi stata consegnata al COGNOME.
La dedotta violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. sarebbe, poi, ravvisabile nel fatto che, mentre nell’imputazione la contestazione mossa al COGNOME è quella di avere ricevuto la somma di euro 1.500,00, viceversa dalle risultanze processuali è emerso che al COGNOME non è stata trasferita alcuna somma proveniente da NOME COGNOME o da chicchessia e, comunque, non risulta neppure provato che la somma sia stata restituita al COGNOME al quale non è mai stata contestata la ricettazione di tale somma.
Ancora, sostengono i difensori del ricorrente, che avrebbe errato la Corte territoriale laddove ha ritenuto sussistente un collegamento probatorio tra il reato di “ricettazione” di cui al capo K e quello di fittizia intestazione di cui al capo della rubrica delle imputazioni, ciò in quanto, secondo la sentenza impugnata, il COGNOME sarebbe stato a conoscenza della fittizia intestazione che NOME COGNOME avrebbe posto in essere con il COGNOME.
In realtà, proseguono i difensori del ricorrente, si sarebbe dovuto tenere conto dell’esito di altro procedimento (gli atti utili del quale sono stati acquisiti all’inte del presente) che vedeva imputato il COGNOME, unitamente a NOME COGNOME per il reato di estorsione ai danni dell’imprenditore NOME COGNOME, procedimento conclusosi con sentenza irrevocabile di assoluzione in quanto è stato accertato che l’obbiettivo perseguito dagli imputati non era quello di costringere il COGNOME a rinunciare ad un contratto di appalto già stipulato, bensì quello di instaurare con quest’ultimo una rapporto societario di fatto per la costruzione di un complesso residenziale in relazione al quale l’odierno ricorrente avrebbe percepito un considerevole compenso economico a titolo di commissione per l’eseguita attività di intermediazione.
Sulla base di tali presupposti, secondo la difesa del ricorrente, i Giudici del merito avrebbero errato nel ritenere che il COGNOME fosse a conoscenza della fittizia intestazione che avrebbe posto in essere il COGNOME perché, se fosse stato fatto il debito confronto tra una conversazione intercettata il 5 ottobre 2014 (che costituisce l’unico elemento a carico del ricorrente) ed altra conversazione intercettata in data 27 ottobre 2014 (asseritamente non menzionata in sentenza) / sarebbe stato evidente che il COGNOME,conversando con il COGNOME e con il COGNOME, faceva esclusivo riferimento al COGNOME e non a NOME COGNOME (non menzionato nella conversazione). Tale valutazione avrebbe poi potuto essere effettuata dalla Corte di appello tenendo anche conto di una e-mail del 18 settembre 2014 dal cui tenore si evincerebbe l’esistenza di pregressi rapporti tra il COGNOME ed il COGNOME per la costituzione di una NEWCO-Ro in Romania essendovi al riguardo una coincidenza di tale situazione con il contenuto della conversazione intercettata il 5 ottobre 2014.
In tale quadro si inserisce anche l’impugnazione dell’ordinanza della Corte di appello sopra menzionata in quanto le dichiarazioni del Di Leonardo, contenute nel verbale del quale non è stata ammessa l’acquisizione, avrebbero consentito di fugare ogni dubbio corda la riferibilità al solo COGNOME della conversazione intercettata il 5 ottobre 2014.
2.2. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 62-bis, 132 e 133 cod. pen. 125 e 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.
Si dolgono, al riguardo, i difensori del ricorrente del trattamento sanzionatorio irrogato all’imputato contestando l’asserita “apparenza” della motivazione adottata dalla Corte di appello in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, non avendo i Giudici tenuto conto dell’incensuratezza dell’imputato, dell’episodicità della condotta e dell’esiguità della somma in contestazione, essendo comunque stata irrogata al Fabbrizio una sanzione che – contrariamente a quanto asserito dai Giudici territoriali – è tutt’altro che prossima ai minimi edittali.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è manifestamente infondato in tutte le sue articolazioni.
Appare, innanzitutto, doveroso ricostruire brevemente i fatti compendiati nelle sentenze di merito ed oggetto di contestazione all’imputato partendo dalla circostanza incontestata e ritenuta acclarata che alcuni dei componenti la famiglia COGNOME risultano storicamente inseriti nella struttura di Cosa Nostra palermitana
e sono risultati attivi nel settore imprenditoriale dell’edilizia anche avvalendosi della collaborazione, in chiave illecita, di qualificati professionisti.
In tale contesto è emersa la società RAGIONE_SOCIALE creata ad hoc per gestire, attraverso una schermatura finalizzata a prevenire eventuali provvedimenti di prevenzione patrimoniale, il patrimonio immobiliare della famiglia COGNOME.
Secondo la ricostruzione dei fatti emergente dalle sentenze di merito, il COGNOME aveva individuato un soggetto (il COGNOME) in grado di prestare (operando in rapporto con la RAGIONE_SOCIALE) la necessaria consulenza per la costituzione di una RAGIONE_SOCIALE in Romania e per fare ciò aveva presentato il Polegri a NOME COGNOME discutendo con quest’ultimo – per come è emerso da una conversazione intercettata il data 5 ottobre 2014 – gli aspetti tecnico-burocratici coessenziali alla costituzione in terra rumena del nuovo soggetto di diritto, oltre che facendosi carico della redazione di un progetto necessario per l’ottenimento di una linea di credito da parte di un istituto bancario rumeno.
La società rumena era stata quindi costituita sotto il nominativo di RAGIONE_SOCIALE nella quale NOME COGNOME aveva assunto il ruolo di prestanome del COGNOME
Sulla base dei fatti descritti, l’odierno ricorrente era stato anche imputato del reato di cui all’art. 12-quinquies dl. n. 306/1992 (già capo B), dichiarato dalla Corte di appello estinto per prescrizione, che costituisce il presupposto di quello (capo K) che in questa sede occupa l’odierno Collegio.
In particolare, le indagini avevano consentito di appurare che, ai fini della costituzione della nuova società in Romania, era stata effettuata attività di consulenza da parte della RAGIONE_SOCIALE a favore del RAGIONE_SOCIALE per la quale era stata emessa una fattura dell’importo di 18.300 euro.
Dall’analisi del conto corrente della RAGIONE_SOCIALE era però emerso che in data 7 novembre 2014 era stato emesso un bonifico dell’importo di 19.800 euro da parte di tale NOME COGNOME che riportava come causale il saldo di un pagamento dovuto per una consulenza prestata a favore di NOME COGNOME per la costituzione della nuova società. E’ altresì emerso che la provvista di denaro al COGNOME era proveniente da bonifici che il predetto aveva fatto a sé stesso con denaro prelevato dal conto corrente della RAGIONE_SOCIALE società, come detto, riconducibile alla famiglia COGNOME. Deve solo aggiungersi che sia la fattura relativa alla consulenza che la ricevuta del bonifico venivano rinvenute nel corso di una perquisizione all’interno dell’autovettura di NOME COGNOME.
Sempre dall’analisi del conto corrente della RAGIONE_SOCIALE, era poi emerso che nei giorni successivi all’ingresso della somma di 19.800 euro, la società aveva effettuato un “storno per errato bonifico” della somma di 1.500 euro (pari alla
differenza tra l’importo riportato dalla fattura e quello effettivamente versato) sul conto personale del RAGIONE_SOCIALE
Lo stesso RAGIONE_SOCIALEp. aveva poi dato atto che risultava che il COGNOME, il giorno successivo alla ricezione della somma, aveva provveduto a prelevare i 1.500 euro e che, sulla base di alcune conversazioni intercettate, era emerso che la somma era stata consegnata direttamente a NOME COGNOME.
Quanto allo specifico ruolo del COGNOME, precisava il G.i.p. che lo stesso era legato da uno strettissimo rapporto personale con il COGNOME e che l’attività dallo stesso prestata lo rendeva consapevole della provenienza illecita della predetta somma di 1.500 euro.
3. Tutto ciò doverosamente premesso, occorre rilevare che la sentenza impugnata – che peraltro si presenta, per la parte qui di interesse, in c.d. “doppia conforme” con quella di primo grado e che con la stessa si integra al fine di costituire un unico compendio motivazionale – risulta congruamente motivata proprio sotto i profili ritenuti necessari per l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato.
Inoltre, detta motivazione, non è certo apparente, né “manifestamente” illogica e tantomeno contraddittoria.
I Giudici del merito risultano avere adeguatamente ricostruito le vicende, ivi compresa quella di “intestazione fittizia” contestata al capo B della rubrica delle imputazioni che, ancorché il relativo reato sia stato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione, costituisce il presupposto necessario ed indefettibile per la configurabilità del reato qui in esame di cui al capo K.
La lettura che i giudici hanno fatto della conversazione intercettata il 5 ottobre 2014 ricollegandola al rapporto NOME
COGNOME
COGNOME–COGNOME non appare certo distonica rispetto alle altre emergenze processuali ed i Giudici del merito hanno ben spiegato le ragioni per le quali è emerso che il COGNOME era ben consapevole che, nell’operazione finalizzata alla costituzione di una società in Romania , venivano utilizzate, attraverso le schermature sopra indicate, risorse provenienti da NOME COGNOME che, si noti, non solo è parte della conversazione intrattenuta con il COGNOME ma che lo stesso COGNOME definisce «il mio amico NOME».
Il contenuto della conversazione intercettata si collega, poi, ad altra intercettazione in data 7 novembre 2014 intercorsa tra il COGNOME ed il COGNOME (v. pagg. da 17 a 19 della sentenza impugnata) nella quale si discute dell’eccedenza indebitamente versata e delle problematiche insorte per la restituzione delle somme al COGNOME così come richiesta – anzi «pretesa con toni alquanto
perentori» (COGNOME: Non fare discussioni perché NOME è l’unico con cui non puoi fare discussioni se ti dice …) dal COGNOME al Polegri.
Per contro, deve osservarsi che la difesa del ricorrente, sotto il profilo del vizio di motivazione e dell’asseritamente connessa violazione di legge nella valutazione del materiale probatorio, tenta in realtà di sottoporre a questa Corte di legittimità un nuovo giudizio di merito.
Al Giudice di legittimità è infatti preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti e del relativo compendio probatorio, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto, mentre questa Corte Suprema, anche nel quadro della nuova disciplina introdotta dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, è – e resta – giudice della motivazione.
In sostanza, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965).
Quanto poi all’elemento soggettivo del reato di riciclaggio in capo all’odierno ricorrente l in sede di ricostruzione degli eventi e di lettura integrata tra la conversazione intercettata il 5 ottobre 2014 e gli altri elementi emersi dalle indagini, la Corte di appello ha illustrato (pagg. 12 e 13 e poi pag. 17) gli elementi sulla base dei quali ritenere la «piena consapevolezza da parte del COGNOME che la questione trattata con il RAGIONE_SOCIALE fosse proprio quella della costituzione di una società in Romania nell’interesse del COGNOME con l’utilizzo di un prestanome, già individuato».
Al riguardo, deve solo ricordarsi che la valutazione dell’elemento soggettivo del reato costituisce un giudizio di fatto che non può essere sindacato dalla Corte di cassazione quando, come nel caso in esame, sia sorretto da logica e adeguata motivazione. Trattasi, infatti, di questione già proposta in sede di gravame innanzi
alla Corte di appello ed alla quale i Giudici territoriali hanno fornito una risposta congrua e logica.
4. Deve, inoltre, rilevarsi che la difesa del ricorrente, attraverso il richiamo al contenuto di atti di altro procedimento prodotti in giudizio tenta, anche in questa sede, di accreditare una lettura diversa del contenuto dei risultati dell’intercettazione del 5 ottobre 2014 sostanzialmente cercando di sostenere che l’oggetto di tale conversazione non ha riguardo ai rapporti NOME
COGNOMERAGIONE_SOCIALECOGNOME per la costituzione della società in Romania quanto piuttosto si riferisce ai diversi rapporti COGNOMECOGNOME
COGNOME, il che porterebbe ad escluderlo dal collegamento con il contestato riciclaggio della somma di 1.500 euro relativo al primo dei due rapporti.
La questione risulta già posta alla Corte di appello che vi ha dato risposta (pagg. da 20a 23) anche attraverso un legittimo richiamo per relationem a quanto già affermato sul punto del G.i.p. e che ha dimostrato – contrariamente a quanto asserito nel ricorso presentato a questa Corte di legittimità – di aver preso in considerazione la conversazione del 27 ottobre 2014 affermando che si tratta di una vicenda parallela e diversa rispetto a quella qui in esame, pur sempre legata al fatto che il NOME perseguiva in contemporanea diversi interessi patrimoniali anche in diverse parti d’Italia.
Non deve tuttavia essere dimenticato che in materia di ricorso per Cassazione, perché sia ravvisabile la manifesta illogicità della motivazione considerata dall’art. 606 primo comma lett. e) cod. proc. pen., la ricostruzione contrastante con il procedimento argomentativo del giudice, deve essere inconfutabile, ovvia, e non rappresentare soltanto un’ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza (cfr. )con riferimento a massime di esperienza alternative, Sez. 1, n. 13528 del 11/11/1998, COGNOME, Rv. 212054).
Del resto, in tema di vizi della motivazione, il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999, dep. 2000, Moro, Rv. 215745; Sez. 2, n. 2436 del 21/12/1993, dep. 1994, Modesto, Rv. 196955), ciò perché la correttezza o meno dei ragionamenti dipende anzitutto dalla loro struttura logica e questa è indipendente dalla verità degli enunciati che la compongono.
I Giudici di merito hanno, quindi, dato compiuta risposta a tutte le istanze difensive al riguardo non incorrendo quindi in alcuna violazione di legge e tantomeno in alcun vizio motivazionale.
5. Deve, poi, evidenziarsi che )quanto affermato nel paragrafo che precede / incide anche sulla manifesta infondatezza della doglianza difensiva relativa al mancato accoglimento della richiesta ex art. 603 cod. proc. pen. di acquisizione agli atti processuali del verbale di dichiarazioni rese dal Di Leonardo ed alla conseguente impugnazione dell’ordinanza della Corte di appello in data 15 dicembre 2023 con la quale i Giudici territoriali hanno ritenuto superflua tale acquisizione.
Sul punto, deve in ogni caso ricordarsi che l’imputato ha chiesto ed ottenuto di essere giudicato con le forme del rito abbreviato e che «Nei casi in cui si proceda con giudizio abbreviato, la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello per assumere d’ufficio, anche se su sollecitazione di parte, prove sopravvenute che non siano vietate dalla legge o non siano motivatamente ritenute manifestamente superflue o irrilevanti, può essere sindacata, in sede di legittimità, ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen., soltanto qualora sussistano, nell’apparato motivazionale posto a base della conclusiva decisione impugnata, lacune, manifeste illogicità o contraddizioni, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza» (così, Sez. 2, n. 40855 del 19/04/2017, COGNOME, Rv. 271163 – 01) e che, in ogni caso, «Il giudice d’appello ha l’obbligo di motivare espressamente sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento solo nel caso di suo accoglimento, laddove, ove ritenga di respingerla, può anche motivarne implicitamente il rigetto, evidenziando la sussistenza di elementi sufficienti ad affermare o negare la responsabilità del reo» (così, Sez. 6, n. 11907 del 13/12/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259893); ciò perché «Il rigetto dell’istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello si sottrae al sindacato di legittimità quando la struttura argomentativa della motivazione della decisione di secondo grado si fonda su elementi sufficienti per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilità» (così, Sez. 6, n. 30774 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257741). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
6. Inammissibile, a sensi dell’art. 606, ultimo comma, cod. proc. pen. in quanto non dedotta in sede di appello, è, invece, la doglianza difensiva relativa all’asserita violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. per mancanza di correlazione tra imputazione e decisione asseritamente ravvisabile nel fatto che mentre nell’imputazione la contestazione mossa al COGNOME è quella di avere ricevuto la somma di euro 1.500,00, viceversa, dalle risultanze processuali, è emerso che al COGNOME non è stata trasferita alcuna somma proveniente da NOME COGNOME o da chicchessia.
Per solo tuziorismo occorre comunque evidenziare che con v’è chi non veda come nel capo di imputazione è presente un mero errore materiale contenuto nella sostanziale inversione dei nominativi del COGNOME e del COGNOME con riguardo a chi ebbe ad ottenere il ritrasferimento della somma di cui all’imputazione.
Detto errore materiale si presenta di assoluta irrilevanza, non genera confusione e non consente di certo di ritenere sussistente la violazione di cui all’indicata norma processuale, essendo del tutto chiari i termini della vicenda ed avendo avuto l’imputato la possibilità di esercitare in relazione agli stessi ogni possibilità difensiva.
Manifestamente infondate sono, infine, anche le doglianze contenute nel secondo motivo di ricorso relative al mancato riconoscimento all’imputato e, più in generale, al complessivo trattamento sanzionatorio riservato allo stesso.
Già il RAGIONE_SOCIALE aveva motivato sull’applicazione dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. (v. pag. 138 della relativa sentenza).
La Corte di appello (pag. 23), con motivazione congrua, logica e tutt’altro che apparente, ha, da un lato, evidenziato di condividere le scelte operate dal G.i.p. in ordine al trattamento sanzionatorio riservato all’imputato e, dall’altro, ha rigettato la richiesta di riconoscimento all’imputato delle circostanze attenuanti generiche richiamando elementi negativi di valutazione rappresentati dalla non occasionalità dell’agire e dalla sapiente adozione dei più svariati stratagemmi fraudolentemente finalizzati al raggiungimento dell’obiettivo criminoso nell’interesse di un soggetto appartenente ad un sodalizio mafioso.
In proposito deve, innanzitutto, essere ricordato che «Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenu decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione» (così, Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899) ed inoltre, che «La determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen.» (così, Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197).
Per le considerazioni or ora esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186) al versamento della somma ritenuta equa di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 26 novembre 2024.