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Ricettazione telefono carcere: la Cassazione decide

Un detenuto, trovato in possesso di un telefono, patteggia per ricettazione. In Cassazione, lamenta l’errata qualificazione, sostenendo dovesse essere il reato specifico di possesso di telefono in carcere. La Corte rigetta il ricorso, affermando che la qualifica di ricettazione telefono carcere è corretta a causa della clausola di sussidiarietà presente nella norma speciale, che fa prevalere il reato più grave.

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Pubblicato il 11 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Ricettazione telefono carcere: quando si applica il reato più grave

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4189 del 2025, è intervenuta su una questione di grande attualità: la qualificazione giuridica della condotta di un detenuto che riceve un telefono cellulare all’interno di un istituto penitenziario. La domanda al centro del caso è se tale fatto debba essere considerato esclusivamente come il reato specifico di accesso indebito a dispositivi di comunicazione, introdotto dall’art. 391-ter c.p., o se possa configurare il più grave delitto di ricettazione telefono carcere. La Suprema Corte ha fornito un chiarimento fondamentale, confermando la possibilità di applicare quest’ultima fattispecie.

I fatti del caso: Un telefono in cella

Il caso ha origine da una sentenza di patteggiamento emessa dal G.i.p. del Tribunale di Nuoro. Un detenuto, trovato in possesso di un telefono cellulare all’interno del penitenziario, aveva concordato con il pubblico ministero l’applicazione di una pena per il reato di ricettazione. L’imputazione contestava di aver ricevuto l’apparecchio, provento del delitto di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione (art. 391-ter c.p.), al fine di trarne profitto.

Successivamente, il detenuto ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo che la qualificazione giuridica fosse palesemente errata. A suo avviso, la sua condotta doveva essere inquadrata unicamente nel reato specifico previsto dall’art. 391-ter, comma 3, del codice penale, che punisce appunto il detenuto che “indebitamente riceve o utilizza un apparecchio telefonico”.

La decisione della Corte di Cassazione sulla ricettazione telefono carcere

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo la qualificazione giuridica come ricettazione non manifestamente errata e, pertanto, non censurabile in sede di legittimità su una sentenza di patteggiamento. Gli Ermellini hanno basato la loro decisione sull’analisi strutturale dell’art. 391-ter c.p. e, in particolare, sulla presenza di una specifica clausola di riserva.

Le motivazioni: la clausola di sussidiarietà fa la differenza

Il punto focale della motivazione risiede nella cosiddetta “clausola di riserva” (o di sussidiarietà) con cui si apre il terzo comma dell’art. 391-ter c.p.: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato...». Questa formula significa che la norma si applica solo se la condotta del detenuto non integra un’altra fattispecie criminosa punita più severamente.

La Corte ha ragionato come segue:

1. Il reato presupposto: L’introduzione di un telefono in carcere da parte di un soggetto esterno costituisce di per sé un reato, previsto dal primo comma dell’art. 391-ter c.p.
2. La provenienza del bene: Di conseguenza, il telefono ricevuto dal detenuto è “cosa proveniente da delitto”, uno degli elementi costitutivi del reato di ricettazione (art. 648 c.p.).
3. L’applicazione della clausola: Poiché la condotta del detenuto (ricevere un telefono di provenienza illecita) integra tutti gli elementi del reato di ricettazione e poiché questo reato può essere considerato più grave, la clausola di riserva «salvo che il fatto costituisca più grave reato» viene attivata.

In sostanza, la norma speciale non esclude l’applicazione di quella generale e più grave; al contrario, le cede il passo. Pertanto, qualificare il fatto come ricettazione telefono carcere non è un errore giuridico palese, ma una scelta interpretativa legittima e fondata sul testo della legge.

Le conclusioni: implicazioni pratiche della sentenza

La pronuncia della Cassazione stabilisce un principio importante: il possesso o la ricezione di un telefono cellulare in carcere non è un fatto punito esclusivamente dalla norma ad hoc dell’art. 391-ter c.p. A seconda delle circostanze concrete, la Procura può legittimamente contestare il più grave reato di ricettazione.

Questa interpretazione ha rilevanti conseguenze pratiche:

* Maggiore potere discrezionale per l’accusa: I pubblici ministeri hanno la facoltà di valutare se contestare il reato meno grave (art. 391-ter c.p.) o quello più grave (art. 648 c.p.), a seconda degli elementi raccolti.
* Implicazioni sanzionatorie: La scelta della qualificazione giuridica incide direttamente sull’entità della pena, essendo quella per la ricettazione potenzialmente superiore.
* Limiti all’impugnazione del patteggiamento: La sentenza ribadisce che il controllo della Cassazione sulla qualificazione giuridica concordata nel patteggiamento è molto ristretto e interviene solo in caso di errori macroscopici e indiscutibili, tra cui non rientra la scelta tra due norme in rapporto di sussidiarietà.

Ricevere un telefono in carcere è sempre e solo il reato previsto dall’art. 391-ter del codice penale?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che, sebbene esista questo reato specifico, la condotta può integrare anche il più grave reato di ricettazione, a seconda delle circostanze.

Perché si può applicare il reato di ricettazione al posto di quello specifico per il possesso di telefoni in carcere?
Perché il terzo comma dell’art. 391-ter c.p. contiene una clausola di riserva (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”). Dato che il telefono è provento del delitto di introduzione illecita in carcere e la ricettazione è un reato potenzialmente più grave, la qualificazione come ricettazione è ritenuta corretta.

È possibile contestare la qualificazione giuridica di un fatto in un patteggiamento tramite ricorso per cassazione?
Sì, ma solo in casi molto limitati. L’art. 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale permette di farlo solo quando l’errore nella qualificazione giuridica è “manifesto” e palesemente evidente dai fatti contestati, cosa che la Corte ha escluso nel caso di specie.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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