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Ricettazione reperti archeologici: la prova

La Corte di Cassazione conferma la condanna per ricettazione reperti archeologici a carico di un soggetto trovato in possesso di un’anfora antica. L’ordinanza stabilisce che la consapevolezza dell’origine illecita può essere provata tramite indizi e in assenza di una giustificazione credibile da parte dell’imputato, rendendo il ricorso inammissibile.

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Pubblicato il 4 agosto 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Ricettazione Reperti Archeologici: Come si Prova la Colpevolezza?

Il possesso di beni di interesse storico e archeologico è un tema delicato, che sconfina facilmente nel diritto penale. La ricettazione reperti archeologici è un reato che non richiede necessariamente la prova schiacciante, ma può fondarsi su elementi indiziari. Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione ribadisce principi fondamentali sulla prova della consapevolezza della provenienza illecita del bene, dichiarando inammissibile il ricorso di un imputato condannato per aver detenuto un’anfora antica.

I Fatti di Causa

Il caso ha origine dalla condanna, emessa dal Tribunale di Marsala e successivamente confermata dalla Corte d’Appello di Palermo, nei confronti di un uomo per il reato di ricettazione. L’oggetto del reato era un reperto archeologico, un’anfora antica, costituente patrimonio indisponibile dello Stato. L’imputato era stato trovato in possesso di tale bene, che esponeva con funzione ornamentale nel proprio ufficio.

Il Ricorso per Cassazione e le Doglianze della Difesa

La difesa dell’imputato ha presentato ricorso per Cassazione, contestando la sentenza d’appello. La doglianza principale verteva sulla presunta errata valutazione della consapevolezza, da parte del suo assistito, della provenienza illecita dell’anfora. In sostanza, si sosteneva che non vi fossero prove sufficienti a dimostrare che l’imputato sapesse che il reperto fosse frutto di un’attività criminosa.

La Decisione della Cassazione sulla Ricettazione di Reperti Archeologici

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, definendolo manifestamente infondato. Secondo i giudici di legittimità, le argomentazioni della difesa non erano altro che una ripetizione di questioni già adeguatamente esaminate e respinte dalla Corte territoriale. La motivazione della Corte d’Appello è stata ritenuta corretta, logica e immune da censure.

Le Motivazioni

La Corte di Cassazione ha basato la sua decisione su alcuni punti cardine, in linea con l’orientamento consolidato della giurisprudenza:
1. Prova Indiretta della Consapevolezza: La Corte ha ribadito che la prova della consapevolezza dell’origine illecita del bene (il cosiddetto dolo della ricettazione) non deve necessariamente essere diretta. Può essere desunta da elementi indiretti e indizi, purché questi siano tali da generare, secondo la comune esperienza, la certezza che il bene provenisse da un delitto. Nel caso di specie, il possesso di un bene archeologico di valore, per sua natura appartenente allo Stato, è un forte indizio.
2. Mancanza di una Giustificazione Credibile: Un elemento cruciale valorizzato dalla Corte è stata l’assenza di una “credibile discolpa”. L’imputato non ha fornito una spiegazione plausibile e verificabile sulle modalità con cui era entrato in possesso dell’anfora, né ha potuto dimostrare la sua presunta buona fede. Questo silenzio o l’inverosimiglianza della versione dei fatti gioca a sfavore di chi possiede il bene.
3. Contesto del Possesso: A differenza di quanto sostenuto dalla difesa, il reperto non era abbandonato tra cianfrusaglie, ma era esposto con una chiara “funzione ornamentale” in un ufficio. Questo dettaglio, secondo la Corte, rafforza l’idea che il possessore attribuisse valore al bene e, di conseguenza, difficilmente poteva ignorarne la natura e la potenziale provenienza illegale.

Conclusioni e Implicazioni Pratiche

L’ordinanza della Cassazione offre importanti spunti di riflessione. Chiunque acquisti o riceva beni antichi, specialmente se di natura archeologica, deve prestare la massima attenzione. La legge presume che tali beni appartengano al patrimonio dello Stato. Di conseguenza, l’onere di dimostrare un acquisto legittimo e in buona fede ricade, di fatto, sul possessore. La mancanza di documentazione che attesti la lecita provenienza, unita all’impossibilità di fornire una spiegazione credibile, può essere sufficiente per integrare la prova della colpevolezza nel reato di ricettazione reperti archeologici. Questa decisione conferma un approccio rigoroso a tutela del patrimonio culturale, sottolineando che la giustificazione “non sapevo” è spesso insufficiente a evitare una condanna se non supportata da elementi concreti.

Per il reato di ricettazione di un reperto archeologico, è necessario dimostrare con prove dirette che l’imputato conosceva la sua provenienza illecita?
No. Secondo l’ordinanza, la consapevolezza della provenienza illecita del bene può essere desunta anche da prove indirette, tali da ingenerare secondo la comune esperienza la certezza circa la derivazione delittuosa del bene.

Cosa succede se l’imputato non fornisce una spiegazione credibile su come ha ottenuto il bene archeologico?
L’assenza di una credibile discolpa da parte dell’imputato, che dia conto delle modalità di acquisizione del bene e della sua pretesa buona fede, viene considerata un elemento a suo sfavore nel giudizio sulla sua colpevolezza.

Il ricorso in Cassazione è stato accolto?
No, il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché le doglianze proposte sono state ritenute una mera reiterazione di rilievi già compiutamente esaminati e respinti dalla Corte d’Appello con una motivazione logica e congruente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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