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Ricettazione reperti archeologici: la condanna è certa

Un soggetto è stato condannato per ricettazione di reperti archeologici, nello specifico due bracciali d’oro. La Corte di Cassazione ha confermato la condanna, respingendo il ricorso dell’imputato. La sentenza chiarisce che per dimostrare la natura di bene culturale non è necessaria una perizia, essendo sufficienti elementi oggettivi come il luogo del ritrovamento. Inoltre, l’intenzione colpevole (dolo) può essere dedotta dal comportamento dell’accusato, come il tentativo di vendere i reperti tramite esperti del settore.

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Pubblicato il 7 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Ricettazione Reperti Archeologici: Condanna Confermata Anche Senza Perizia

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11107 del 2024, ha ribadito la severità della legge in materia di ricettazione reperti archeologici, confermando una condanna anche in assenza di una perizia formale che ne attestasse la ‘culturalità’. Questa decisione sottolinea come la consapevolezza dell’origine illecita di un bene possa essere desunta dal contesto e dal comportamento dell’imputato, consolidando principi fondamentali per la tutela del nostro patrimonio culturale.

I Fatti di Causa

La vicenda giudiziaria ha origine dal ritrovamento, da parte di alcuni subacquei non identificati, di due bracciali in oro puro di epoca antica, contenuti in una piccola anfora sul fondale marino di una nota località della Magna Grecia. I subacquei si sono rivolti a un soggetto, poi imputato, affinché trovasse un acquirente. L’imputato ha quindi contattato un esperto d’arte antica, affidandogli il compito di valutare i reperti e piazzarli sul mercato. Le indagini, basate su intercettazioni telefoniche, hanno rivelato che l’esperto aveva stimato il valore dei bracciali in circa seimila euro e aveva già preso contatti con il gestore di un museo per verificarne l’interesse all’acquisto. Sulla base di questi elementi, sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano dichiarato l’imputato colpevole del reato di ricettazione.

I Motivi del Ricorso e la ricettazione reperti archeologici

La difesa ha presentato ricorso in Cassazione, basandolo su due argomenti principali:

1. Travisamento della prova e assenza di dolo

Secondo il ricorrente, i giudici di merito avrebbero interpretato erroneamente le intercettazioni, attribuendo all’imputato un fine di profitto personale che, a suo dire, era invece perseguito dall’esperto d’arte. Sosteneva, inoltre, di essersi limitato a visionare i bracciali senza mai entrarne in possesso e di non aver avuto alcun sospetto sulla loro provenienza illecita, dato che i monili erano privi di fregi o decorazioni particolari che potessero far pensare a beni antichi.

2. Mancata prova della ‘culturalità’ dei beni

Un altro punto cardine della difesa era l’assenza di una prova certa sulla natura di bene culturale dei bracciali. Si contestava che tale qualifica fosse stata desunta da elementi non verificati, come il generico ritrovamento in mare, senza che i reperti fossero mai stati analizzati da periti. L’assenza di questa prova, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto escludere il reato presupposto di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo le argomentazioni della difesa infondate e respingendole con una motivazione chiara e priva di criticità logiche.

I giudici hanno innanzitutto confermato la corretta valutazione delle prove da parte della Corte d’Appello. La ricostruzione dei fatti ha dimostrato in modo logico e persuasivo il ruolo di mediatore dell’imputato nella vendita dei reperti, un’azione che integra pienamente il reato di ricettazione. Per quanto riguarda la ‘culturalità’ dei beni, la Cassazione ha ribadito un principio consolidato: non è necessario un accertamento formale o un provvedimento amministrativo per qualificare un bene come culturale. La sua natura può essere desunta dalle caratteristiche oggettive, dalla tipologia, dalla rarità e, soprattutto, dalla localizzazione del ritrovamento. In questo caso, il fatto che i monili fossero stati recuperati nel mare di Crotone, città della Magna Grecia, era un elemento più che sufficiente a fondare la presunzione della loro rilevanza archeologica. Infine, sul dolo, la Corte ha evidenziato come la consapevolezza della provenienza illecita fosse chiaramente desumibile dalla condotta dell’imputato: chiedere l’intervento di un esperto d’arte antica per valutare e vendere oggetti trovati in fondo al mare dimostra la piena coscienza, o quantomeno l’accettazione del rischio, che si trattasse di beni appartenenti allo Stato.

Conclusioni

Questa sentenza è di fondamentale importanza perché rafforza la tutela del patrimonio archeologico. Stabilisce che, per integrare il reato di ricettazione reperti archeologici, la prova della natura culturale di un bene non richiede necessariamente complesse perizie, potendo basarsi su solidi elementi presuntivi come il contesto del ritrovamento. Allo stesso modo, il dolo non deve essere dimostrato con una prova diretta della ‘malafede’, ma può essere logicamente inferito da comportamenti che rivelano la consapevolezza dell’origine illegale dei beni. La decisione funge da monito per chiunque entri in contatto con reperti di dubbia provenienza, sottolineando che anche la semplice mediazione per la vendita è sufficiente per incorrere in una grave responsabilità penale.

Per condannare per ricettazione di reperti archeologici è sempre necessaria una perizia che ne attesti il valore culturale?
No, la Corte di Cassazione ha chiarito che la ‘culturalità’ di un bene può essere desunta da caratteristiche oggettive come la tipologia, la localizzazione del ritrovamento (in questo caso, il mare di una città della Magna Grecia) e altri criteri analoghi, senza che sia necessario un provvedimento amministrativo o una perizia formale.

Come si prova l’intenzione colpevole (dolo) nel reato di ricettazione di beni culturali?
L’intenzione colpevole può essere provata anche in via indiretta, analizzando il comportamento dell’imputato. Nel caso specifico, il fatto che l’imputato si sia rivolto a un esperto d’arte antica per valutare e vendere i reperti e il tentativo di collocarli presso il gestore di un museo sono stati considerati elementi sufficienti a dimostrare la sua consapevolezza, o almeno l’accettazione del rischio, della provenienza illecita dei beni.

È sufficiente la mediazione per la vendita di un bene di provenienza illecita per essere accusati di ricettazione?
Sì, il reato di ricettazione non richiede necessariamente l’acquisto o il possesso fisico del bene. Anche il semplice atto di ‘intromettersi’ per favorirne la vendita, come fare da mediatore tra chi ha trovato i reperti e un potenziale acquirente, è una condotta che integra il delitto, come confermato in questa sentenza.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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