Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 19694 Anno 2025
In nome del Popolo Italiano
QUARTA SEZIONE PENALE
Penale Sent. Sez. 4 Num. 19694 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 15/05/2025
– Presidente –
NOME COGNOME
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nate a COGNOME il 20/12/1965 avverso la sentenza del 21/09/2023 della Corte d’appello di Palermo. Visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; sentita la relazione del Cons. NOME COGNOME letta la requisitoria scritta del PG, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Palermo, in riforma della sentenza emessa il 24/01/2022 dal Tribunale di Agrigento e impugnata dal Procuratore generale, ha condannato NOME COGNOME alla pena (condizionalmente sospesa) di mesi sei di reclusione ed € 1.500,00 di multa, per il reato previsto dall’art.73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n.309, in relazione alla accertata detenzione di sostanza stupefacente del tipo hashish (dal peso complessivo di g 45,18) e cocaina (dal peso complessivo di g 1,80).
La Corte territoriale ha dato atto degli elementi posti dal Tribunale a fondamento della sentenza di assoluzione e rappresentati dalla carenza di sufficienti indici idonei a ricondurre il possesso di stupefacenti (con riferimento alla sola sostanza del tipo hashish, in relazione ai valori indicati nelle tabelle allegate al T.U. stup. e indicative all’entità della dose media giornaliera) a una effettiva attività di spaccio.
Il giudice di secondo grado – previo esame, condotto in senso positivo, dell’ammissibilità dell’appello proposto dal Procuratore generale – ha quindi ritenuto sussistenti gli indici rivelatori di un’illecita attività di spaccio; con specifico riferimento alla detenzione di plurime tipologie di sostanze stupefacenti, al dato quantitativo, all’accertata insussistenza di idonee capacità economiche in capo all’imputata (emergendo dagli atti che il convivente della ricorrente fosse dedito all’attività di posteggiatore abusivo); ha quindi concluso per la dichiarazione di penale responsabilità della prevenuta.
Avverso la predetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione NOME COGNOME articolando un unitario motivo di impugnazione nel quale ha dedotto – ai sensi dell’art.606, comma 1, lett.e), cod.proc.pen. – il vizio di motivazione per mancato rispetto del canone di giudizio ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’, nonchØ la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’art.603, comma 3 bis, cod.proc.pen..
Ha dedotto che il giudice di appello aveva ribaltato la pronuncia di assoluzione emessa in primo grado senza disporre la rinnovazione dibattimentale per la valutazione in contraddittorio delle prove dichiarative rese dagli agenti di polizia giudiziaria, in tal modo violando l’articolo 603, comma 3 bis, cod.proc.pen., procedendo, quindi, a una illegittima rivalutazione in peius delle risultanze istruttorie del primo grado di giudizio; ha altresì dedotto che la pronuncia emessa in sede di appello avrebbe violato i principi in tema di motivazione c.d. rafforzata, in tal modo ponendosi in contrasto con il canone dell”al di là di ogni ragionevole dubbio’.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, nella quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
Il ricorso Ł inammissibile.
Va premesso che, in relazione al trattamento edittale previsto per il reato previsto dall’art.73, comma 5, T.U. stup., risulta maturato – alla data odierna – il termine massimo di prescrizione e pari ad anni sette e mesi sei.
Occorre quindi valutare necessariamente il profilo attinente all’ammissibilità del ricorso, sulla base del consolidato principio in forza del quale l’inammissibilità del ricorso per cassazione, anche sotto ii profilo della manifesta infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità di cui all’art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione intervenuta nelle more del procedimento di legittimità (Sez. 2, n. 28848 del 08/05/2013, COGNOME, Rv. 256463, tra le altre).
Ciò posto, il punto dell’unitario motivo attinente alla violazione dell’art.603, comma 3bis, cod.proc.pen., Ł inammissibile in quanto aspecifico e omissivo del necessario onere di raffronto con la motivazione della sentenza impugnata.
Come Ł noto, la questione relativa all’obbligo di rinnovazione istruttoria in caso di appello presentato dal p.m. avverso una pronuncia di assoluzione e fondato sulla valutazione di una prova dichiarativa si Ł posta in seguito alla sentenza della Corte EDU nel caso Dan c. Moldavia, emessa il 5 ottobre 2011, che aveva stabilito che il c.d. overturning in appello di una sentenza di assoluzione – per rendere il processo equo ai sensi dell’art. 6 CEDU – non poteva prescindere dalla rinnovazione dell’esame dei testimoni decisivi; principio poi recepito in via giurisprudenziale dalle Sezioni Unite nelle pronunce Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267487 e Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269785 (in relazione alla riforma di sentenza di assoluzione emessa all’esito di giudizio abbreviato non condizionato) e quindi positivamente introdotta nell’ordinamento interno per effetto dell’introduzione dell’art.603, comma 3 bis , cod.proc.pen. ad opera della l. 23 giugno 2017, n.103.
Nella copiosa elaborazione giurisprudenziale seguita all’affermazione del principio, questa Corte ha affermato che la necessità per il giudice di appello di procedere, anche d’ufficio, alla rinnovazione dibattimentale della prova ai sensi dell’art. 603, comma 3bis , cod. proc. pen. concerne il solo caso in cui alla riforma della sentenza di assoluzione si giunga esclusivamente sulla base di una diversa valutazione della prova dichiarativa e non anche nell’ipotesi in cui si pervenga al diverso approdo decisionale in forza della rivalutazione di un compendio probatorio di carattere documentale (Sez. 2, n. 53594 del 16/11/2017, Piano, Rv. 271694; Sez. 3, n. 36905 del 13/10/2020, Vergine, Rv. 280448); conclusione che, d’altra parte, Ł imposta proprio dal tenore letterale della disposizione contenuta nell’art.603, comma 3bis , cod.proc.pen., la quale chiarisce testualmente che la valutazione della prova effettuata dalla sentenza di primo grado di proscioglimento impugnata dal pubblico ministero per motivi che a tale valutazione attengano, Ł esclusivamente quella avente ad oggetto la “prova dichiarativa”.
Va quindi osservato che, nel caso di specie e contrariamente a quanto dedotto nel motivo di impugnazione, la Corte territoriale non ha proceduto ad alcuna rivalutazione della prova dichiarativa resa dagli operanti di Polizia giudiziaria (elemento probatorio neanche citato nel corpo della sentenza) ma, unicamente, alla riconsiderazione delle circostanze oggettive desumibili dal verbale di sequestro in ordine a tipologia, peso e modalità di confezionamento delle sostanze stupefacenti. Deve quindi ritenersi che la Corte territoriale non abbia posto in essere violazioni dell’art.603, comma 3 bis , cod.proc.pen, rammentando sul punto che al giudice di secondo grado, ai fini dell’adozione di una sentenza di condanna che ribalti un precedente esito assolutorio, non Ł richiesto necessariamente – fatto salvo il successivo controllo di logicità della motivazione – di disporre la rinnovazione di prove dichiarative qualora ritenute, come nel caso di specie, di rilevanza del tutto marginale rispetto alle risultanze documentali ovvero quando la deposizione Ł valutata in maniera del tutto identica sotto il profilo contenutistico, ma il suo significato probatorio viene diversamente apprezzato nel rapporto con le altre prove (cfr. Sez. 5, n. 33272 del 28/03/2017, COGNOME, Rv. 270471; Sez. 6, n. 49067 del 21/09/2017, COGNOME, Rv. 271503; cfr. anche Sez. 2, n. 3129 del 30/11/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285826).
Deve ritenersi manifestamente infondato, in quanto aspecifico, il punto di doglianza attinente alla violazione del canone di giudizio basato sul principio dell”al di là di ogni ragionevole dubbio’ e all’onere di una motivazione c.d. rafforzata.
A tale proposito va ricordato che – fatto salvo il solo caso particolare in cui il provvedimento assolutorio di primo grado abbia un contenuto motivazionale generico e meramente assertivo, posto che, in tale ipotesi, non vi Ł neppure la concreta possibilità di confutare argomenti e considerazioni alternative del primo giudice (Sez. 6, Sentenza n. 11732 del 23/11/2022, dep. 2023, S., Rv. 284472) – il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i piø rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 231679); parlandosi, in questo caso, di obbligo di una motivazione ‘rafforzata’, che specificamente consiste nella compiuta indicazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado, nonchØ in un apparato giustificativo che dia conto degli specifici passaggi logici relativi alla disamina degli istituti di diritto sostanziale o processuale, in
modo da conferire alla decisione una forza persuasiva superiore e da rispettare, in tale modo, il canone dell”al di là di ogni ragionevole dubbio’ (Sez. 1, n. 12273 del 05/12/2013, dep. 2014,
COGNOME, Rv. 262261; Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, P., Rv. 278056, tra le altre). Peraltro, nel caso di specie, deve rilevarsi come il punto di impugnazione sia stato articolato in modo del tutto generico e senza indicare le specifiche ragioni sulla base delle quali Ł stata dedotta la violazione del suddetto canone di giudizio; rilevandosi, comunque, come la motivazione della sentenza di appello abbia dato analiticamente conto delle ragioni di dissenso rispetto alla pronuncia di assoluzione fondandosi sugli specifici elementi di rivalutazione indicati in premessa.
Alla declaratoria d’inammissibilità segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali; ed inoltre, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», i ricorrenti vanno condannati al pagamento di una somma che si stima equo determinare in euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento dellespese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così Ł deciso, 15/05/2025
Il Consigliere estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME