Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 695 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 695 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 28/11/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME
nato a MELEGNANO il 27/04/1959
NOME COGNOME
nato a MELEGNANO il 30/11/1962
parti civili nel procedimento c/
NOME
nata a COGNOME il 01/07/1973
CARINI NADIA GLYPH
nata a COGNOME il 07/08/1975
avverso la sentenza del 12/01/2023 della CORTE DI APPELLO DI MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per la inammissibilità dei ricorsi; udito il difensore dei ricorrenti avv. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento dei ricorsi; udito il difensore avv. NOME COGNOME in sostituzione dell’avv. NOME COGNOMEper COGNOME NOME e COGNOME NOME), che ha concluso per la inammissibilità
o, in subordine, per il rigetto dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 12 gennaio 2023 la Corte di appello di Milano, riformando integralmente la decisione di primo grado emessa ad esito del giudizio ordinario dal Tribunale di Lodi, assolveva NOME COGNOME e NOME COGNOME dal reato di ricettazione loro rispettivamente ascritto con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, ritenendo insufficiente la prova della sussistenza del dolo, avuto riguardo alla consapevolezza della provenienza illecita del denaro accreditato su un conto corrente cointestato alle stesse e alla madre.
Secondo la tesi accusatoria, le imputate avevano ric:evuto dalla madre NOME COGNOME somme di denaro (la prima 111.144,00 euro, la seconda 79.000,00 euro) di provenienza delittuosa in quanto provento del reato di appropriazione indebita dalla stessa commesso in danno di NOME COGNOME e NOME COGNOME, eredi di NOME COGNOME il cui testamento olografo era stato alterato dalla Scandura, entrata così in possesso dei beni dell’asse ereditario.
Hanno proposto ricorso, a mezzo del proprio difensore, NOME COGNOME e NOME COGNOME costituitisi parti civili quali eredi di NOME COGNOME e NOME COGNOME chiedendo l’annullamento della sentenza per vizio motivazionale.
2.1. Premesso che sussiste l’interesse dei ricorrenti all’impugnazione ai soli fini della responsabilità civile e che nel caso di specie sarebbe applicabile l’art. 573, comma 1 -bis, cod. proc. pen., la difesa sostiene che la Corte territoriale è venuta meno al dovere di esprimere una motivazione rafforzata gravante sul giudice di appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado sulla base del medesimo compendio probatorio.
La sentenza impugnata, in primo luogo, ha tratto la prova della insussistenza dell’elemento soggettivo dal fatto, non provato e neppure dedotto da alcuna parte, che le imputate, all’epoca non più conviventi con la madre, sarebbero state a conoscenza delle cure dalla stessa prestate al de cuius, suo cugino, durante la malattia.
Un secondo travisamento della prova è presente là dove la sentenza afferma che nel corso della propria deposizione la COGNOME, sentita quale teste assistita (avendo patteggiato per falsità in testamento olografo), avrebbe riferito di avere utilizzato il denaro personalmente, quando invece la madre delle imputate, per spiegare le ragioni della mancata restituzione delle somme alle legittime eredi, ha dichiarato che erano state spese, anche per un mutuo,
parlando al plurale (“…le abbiamo spese…avevamo delle cose da pagare…”). Questo dato rilevante è stato valutato dal primo giudice e ignorato dalla Corte di appello, al pari di quello relativo alla estinzione del mutuo della casa della quale le imputate erano divenute comproprietarie dopo la morte del padre, oggetto della sentenza di revocatoria della donazione dalla madre alle figlie per la quota che la stessa aveva ereditato dal marito.
Un ulteriore travisamento è dato dalla omessa valutazione della cronologia dei diversi eventi, incompatibile con la versione della madre dell’imputata, secondo la quale ella versò i soldi su quei conti in modo che le stesse avrebbero potuto disporne in caso di propria morte o malattia.
Vi sono altri elementi probatori non valutati nella sentenza impugnata: le imputate erano proprietarie delle somme versate sui conti in quanto cointestatarie e con firma congiunta; le stesse non hanno mai reso dichiarazioni volte a giustificare la propria condotta; i loro familiari hanno reso testimonianze inattendibili, come ritenuto dal primo giudice.
Infine, la Corte di appello non ha considerato la condotta successiva delle imputate, le quali non hanno mai fornito alcuna collaborazione per la restituzione delle somme, ma hanno tentato di distrarre le stesse con operazioni fraudolente volte ad aggravare le pretese dei creditori.
2.2 II difensore dei ricorrenti ha presentato tempestivamente motivi nuovi, ribadendo e sviluppando le argomentazioni proposte , chiedendo, alla luce della sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte (n. 38481 del 2023) emessa successivamente al deposito del ricorso, l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio, qualora occorra, al giudice civile competente per valore in grado di appello, ai sensi dell’art. 622 del codice di rito.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono fondati in ragione delle considerazioni che seguono.
Preliminarmente va riconosciuto l’interesse delle parti civili a impugnare la sentenza con la quale la Corte di appello, in riforma di quella di primo grado, ha assolto le imputate con la formula: “il fatto non costituisce reato”.
Alla luce del principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815), il Collegio condivide il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale sussiste l’interesse della parte civile ad impugnare la decisione assolutoria pronunciata con detta formula, in quanto le limitazioni all’efficacia del giudicato previste dall’art. 652 cod. proc. pen. non incidono sull’estensione del diritto
all’impugnazione a essa riconosciuto, in termini generali, dall’art. 576 del codice di rito, imponendosi altrimenti alla stessa di rinunciare agli esit dell’accertamento compiuto nel processo penale e di riavviare ab initio l’accertamento in sede civile, con conseguente allungamento dei tempi processuali (Sez. 2, n. 11934 del 05/10/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284444; Sez. 4, n. 14194 del 18/03/2021, COGNOME, Rv. 281016; Sez. 2, n. 10638 del 30/1/2020 COGNOME, Rv. 278519; Sez. 4, n. 10114 del 21/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278643; Sez. 5, n. 27318 del 07/03/2019, COGNOME, Rv. 276640; Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, COGNOME, Rv. 273519).
Va premesso altresì che – come ricordato dalla difesa dei ricorrenti nei motivi nuovi – le Sezioni Unite di questa Corte hanno da ultimo statuito che l’art. 573, comma 1 -bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 33 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (secondo il quale’ «uando la sentenza è impugnata per i soli interessi civili, il giudice d’appello e la Corte di cassazione, l’impugnazione non è inammissibile, rinviano per la prosecuzione, rispettivamente, al giudice o alla sezione civile competente, che decide sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile»), si applica alle impugnazioni per i soli interessi civili proposte relativamente ai giudizi nei quali la costituzione d parte civile sia intervenuta in epoca successiva al 30 dicembre 2022, quale data di entrata in vigore della citata disposizione.
La nuova disposizione, dunque, non è applicabile al caso di specie e l’annullamento della sentenza impugnata andrà disposto, in forza delle ragioni di séguito esposte, ai sensi dell’art. 622 del codice di rito, come richiesto nei motivi nuovi.
Alla luce della pronuncia della Corte EDU COGNOME contro Repubblica di San Marino, la Corte costituzionale, con sentenza n. 182 del 30 luglio 2021, ha affermato che il giudice dell’impugnazione penale, nel decidere sulla domanda risarcitoria in presenza di un reato estinto per prescrizione (art. 578 cod. proc. pen.), «non è chiamato a verificare se si sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, in cui si iscrive il fatto di reato di volta i volta contestato; egli deve invece accertare se sia integrata la fattispecie civilistica dell’illecito aquiliano (art. 2043 cod. civ.)».
È vero, infatti, che la lesione dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, e dunque la commissione del reato, costituisce danno ingiusto ai sensi degli artt. 2043 e 2059 cod. civ.; tuttavia, una volta definito il profil penale della vicenda, «il giudice dell’impugnazione è chiamato a valutarne gli effetti giuridici, chiedendosi, non già se esso presenti gli elementi costitutivi della
condotta criminosa tipica (commissiva od omissiva) contestata all’imputato come reato, contestualmente dichiarato estinto per prescrizione, ma piuttosto se quella condotta sia stata idonea a provocare un “danno ingiusto” secondo l’art. 2043 cod. civ., e cioè se, nei suoi effetti sfavorevoli al danneggiato, essa si sia tradotta nella lesione di una situazione giuridica soggettiva civilmente sanzionabile con il risarcimento del danno».
Questi princìpi sono applicabili anche nel caso in cui la vicenda penale si sia conclusa con un’assoluzione dell’imputato in secondo grado, non impugnata dal pubblico ministero ma solo dalla parte civile ex art. 576 cod. proc. pen., dovendo questa Corte verificare l’assolvimento dell’onere motivazionale gravante sul giudice di appello, in presenza di una prima sentenza di condanna, con riguardo al fatto costitutivo dell’illecito civile, produttivo del danno lamentato dalle par civili. Va ribadito sul punto che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, il giudice di appello, previa, ove occorra, la rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen., è tenuto a offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 27243001; Sez. 4, n. 2474 del 15/10/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282612-01; Sez. 4, n. 24439 del 16/06/2021, Vollero, Rv. 281404-01).
Nel caso di specie, peraltro, il tema fondamentale, invero comune alla valutazione sulla sussistenza del reato e sulla responsabilità aquiliana, attiene alla prova dell’elemento soggettivo (dolo) ovvero della consapevolezza in capo alle originarie imputate della provenienza delittuosa del denaro versato sui loro conti correnti dalla madre NOME COGNOME cointestataria, che se ne era appropriata indebitamente dopo avere alterato il testamento del proprio cugino, fatti questi definitivamente accertati a seguito delle due condanne della Scandura per i delitti previsti dagli artt. 491-bis e 646 del codice penale.
Ritiene il Collegio che, a fronte di una motivazione puntuale del primo giudice sui vari aspetti della vicenda, emessa ad esito di un’ampia istruzione dibattimentale, la Corte territoriale, sulla base di assai scarne considerazioni, anche assertive, si sia sottratta in larga parte all’onere di confrontarsi con le argomentazioni del Tribunale e di spiegare le ragioni per le quali le stesse non fossero corrette.
In primo luogo, con fondamento, i ricorrenti hanno censurato il rilievo contenuto nella sentenza impugnata, secondo il quale le sorelle COGNOMEnon avevano neppure motivo di dubitare della genuinità delle disposizioni contenute nel testamento olografo, essendo a conoscenza delle cure prestate dalla madre
al de cuius durante la malattia” (pag. 7). La Corte territoriale non ha indicato da quali fonti probatorie sarebbe emersa la circostanza, che non risulta dalla sentenza di primo grado.
In secondo luogo, la sentenza impugnata ha osservato che “il trasferimento del denaro su un conto corrente intestato a COGNOME ed alle figlie era agevolmente tracciabile e dunque non poteva sorgere un serio sospetto sulle beneficiarie”: si tratta di una motivazione manifestamente illogica in quanto dal primo rilievo (astrattamente pertinente rispetto alla contesi:azione del reato di riciclaggio e non già di ricettazione) non consegue affatto la conclusione che ne ha tratto la Corte di merito in punto di elemento soggettivo.
Dalla sentenza di primo grado, supportata sul punto dalla trascrizione della deposizione della COGNOME, sentita quale testimone assistita, risulta che il denaro di provenienza delittuosa (in quanto la stessa se ne era appropriata in forza di un testamento olografo alterato), versato sui due conti correnti cointestati a madre e figlie, era stato utilizzato per le spese della famiglia, tra l quali vi era un mutuo da pagare, e non già “personalmente” dalla sola COGNOME, come affermato dalla Corte territoriale (pag. 8).
La stessa Corte ha poi ignorato quanto evidenziato dal Tribunale in ordine alla rilevanza della successione degli eventi: NOME COGNOME aprì due conti cointestati con le figlie dopo avere ricevuto la notifica dell’atto di citazione d impugnazione del testamento, sui quali riversò ingenti somme di denaro, spese in poco tempo, prima della loro chiusura.
Secondo il primo giudice, le “problematiche relative al testamento non potevano essere plausibilmente occultate in ambito familiare, constando di plurimi atti di accertamento dell’autenticità del testamento”, conclusione corroborata da una motivata valutazione circa la inattendibilità delle deposizioni di alcuni familiari, introdotte per negare la consapevolezza delle originarie coimputate in ordine al contenzioso insorto e, quindi, alla quantomeno possibile provenienza delittuosa del denaro.
La sentenza impugnata ha disatteso e in parte ignorato dette considerazioni, escludendo che “la madre avesse riferito alle figlie di avere ricevuto un decreto di convocazione in giudizio prima del trasferimento del denaro” e ciò “sulla base delle massime di esperienza consolidate”, non meglio precisate.
La Corte territoriale ha obliterato anche il rilievo del Tribunale circa le successive operazioni fraudolente poste in essere dalle sorelle COGNOME, fra le quali la vendita delle abitazioni, al fine di evitare il recupero delle somme provenienti dall’eredità del cugino della madre. Anche questa condotta – secondo una valutazione non illogica del primo giudice – avrebbe rafforzato il giudizio sulla
mala fede delle originarie coimputate già al momento in cui ricevettero le somme di denaro sui conti correnti.
Pertanto, ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen., la sentenza impugnata, in ragione dei vizi motivazionali denunciati, va annullata ai fini dell’accertamento della responsabilità civile, fermi restando gli effetti penali, con rinvio al giudic civile competente per valore in grado di appello, che provvederà anche alla liquidazione delle spese per il presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili, con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti per questo giudizio di legittimità.
Così deciso il 28 novembre 2023.