Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 34823 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 34823 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 16/10/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME COGNOME, nato a Napoli il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 18/11/2024 della Corte d’appello di Bologna visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore NOME COGNOME, il quale ha concluso chiedendo che la sentenza impugnata venga annullata limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto e alla rideterminazione della pena;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 18/11/2024, la Corte d’appello di Bologna confermava la sentenza del 11/03/2022 del Tribunale di Rimini con la quale NOME COGNOME era stato condannato alla pena di due anni di reclusione ed € 600,00 di multa per il reato di ricettazione di tre assegni postali che erano stati denunciati smarriti (da NOME COGNOME) di cui al capo a) dell’imputazione.
Avverso l’indicata sentenza del 18/11/2024 della Corte d’appello di Bologna, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite dei propri difensori AVV_NOTAIO e AVV_NOTAIO, NOME COGNOME, affidato a quattro motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge
penale e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, «in particolare con riferimento alla corretta applicazione dell’art. 648 c.p.» e all’affermazione della sua responsabilità per il delitto di ricettazione.
La Corte d’appello di Bologna avrebbe ritenuto la sussistenza del dolo di ricettazione, «anche nella forma eventuale» (così il ricorso), esclusivamente perché egli aveva «fornito una versione dei fatti del tutto inverosimile» (pag. 3, primo capoverso, della sentenza impugnata).
Il COGNOME deduce che «er la configurabilità del delitto di ricettazione è necessaria la consapevolezza della provenienza illecita della res ricevuta; non solo tale consapevolezza non sussiste ma non può nemmeno essere desunta da prove indirette, purché gravi univoche e tali da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale e, secondo la comune esperienza, la certezza della provenienza illecita di quanto ricevuto».
La Corte d’appello di Bologna avrebbe «omesso di valutare che l’assegno ricevuto fosse stato denunziato come smarrito dal traente». A prescindere dalla sua versione dei fatti, comunque attendibile, «circa la provenienza della cosa», egli «si era appropriato di un bene non già oggetto di reato, bensì semplicemente smarrito (e il delitto di cui all’art. 647 c.p. risulta depenalizzato)».
Contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte d’appello di Bologna – secondo cui «la denuncia della COGNOME è stata fatta per smarrimento, e dunque è impossibile una derubricazione» del fatto in furto – la denuncia di smarrimento non sarebbe ostativa a una derubricazione del fatto come furto, alla luce della giurisprudenza della Corte di cassazione (sono citate: Sez. 2, n. 46991 del 08/11/2013, COGNOME, Rv. 257432-01; Sez. 2, n. 24100 del 03/05/2011, COGNOME, Rv. 250566-01; Sez. 2, n. 8109 del 26/04/2000, COGNOME, Rv. 216589-01).
Secondo il COGNOME, non reputare ciò «significherebbe ritenere corretta la qualificazione in 647 c.p. e non 648 c.p., trattandosi di appropriazione di cose smarrite e non detenzione di cose provenienti da delitto, dal momento che il 647 c.p. non configura alcun delitto, essendo depenalizzato».
Inoltre, le «indicazioni» che egli aveva fornito sarebbero state «tutt’altro che inattendibili e non hanno dato prova della volontà di occultamento; nemmeno in via indiretta si è formata la prova che il soggetto agente avesse consapevolezza della provenienza illecita del bene. Il comportamento rimproverabile da rivolgere all’odierno imputato sarebbe quello di aver agito con mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della res, a fronte del rapporto intercorrente tra lui e le signore coinvolte, COGNOME e COGNOME».
Ancora, la mancata escussione di NOME COGNOME non avrebbe «permesso di acclarare la veridicità del denunciato smarrimento. A fronte della versione fornita dall’imputato, si sarebbe potuto trattare di una “ingenua” consegna volontaria ad
altra persona, che escluderebbe qualsivoglia elemento tipico del delitto di ricettazione».
Da tutto ciò i vizi di violazione di legge e motivazionali «soprattutto con riferimento all’elemento soggettivo e al suo rapporto col delitto asseritamente presupposto».
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, «in particolare con riferimento alla corretta qualificazione giuridica del fatto in 624 c.p.».
La Corte d’appello di Bologna ha negato la riqualificazione in furto del fatto di cui al capo a) dell’imputazione in quanto «la denuncia della COGNOME è stata fatta per smarrimento», nonché perché «non sono nemmeno emersi indizi di un possibile furto» (pag. 3, quarto e quinto capoverso, della sentenza impugnata).
Ciò posto, il COGNOME denuncia la contraddittorietà e l’illogicità di tal motivazione, con la quale la Corte d’appello di Bologna ha negato la richiesta riqualificazione in furto ma ha riconosciuto la sussistenza del delitto di ricettazione.
Secondo il ricorrente, le due cose «non possono coesistere», in quanto, «e non è possibile una derubricazione in furto per via della denuncia di smarrimento, allora non può configurarsi una ricettazione da denuncia di smarrimento in quanto non ancora oggetto di reato, ma al più una appropriazione di cose smarrite, depenalizzata».
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, «in particolare con riferimento alla corretta applicazione dell’art. 131Bis c.p.».
La Corte d’appello di Bologna ha negato l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis cod. pen., perché «la condotta del NOME risulta abituale, leggendo il casellario» (pag. 3, sesto capoverso, della sentenza impugnata).
Il ricorrente deduce in proposito che, nonostante «la recidiva sia stata correttamente contestata al NOME, in quanto gravato da plurimi precedenti», la stessa, «in concreto, andava esclusa», sicché, «iò posto, il comportamento dell’imputato non può dirsi abituale».
In difetto di ciò, egli avrebbe dovuto essere «mandato assolto perché il fatto è di particolare tenuità, a maggior ragione a fronte della riqualificazione in furto».
2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge
penale e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, «in particolare con riferimento alla mancata esclusione della recidiva».
Dopo avere richiamato il principio affermato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza “Calibè” (Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247838-01), il ricorrente deduce che, «ebbene risulti gravato da precedenti determinati perlopiù da motivi di lucro, è altrettanto vero che da diversi anni si trova ristretto e non ha più commesso alcun delitto, avendo intrapreso un percorso di assoluta collaborazione con la giustizia. Ciò rileva ai fini della positiva valutazione circa la impossibilità di una ricaduta, non dovendo i suoi precedenti penali e quindi il suo casellario rappresentare l’unico riscontro decisivo».
La Corte d’appello di Bologna avrebbe trascurato tutti i parametri indicati nella sentenza delle Sezioni unite “Li Trenta” (Sez. U, n. 3585 del 24/09/2020, Li Trenta, Rv. 280262-01), «concentrandosi esclusivamente sul curriculum criminale del NOME per giustificare l’aggravante ex 99 c.p.».
CONSIDERATO IN DIRITTO
I primi due motivi – i quali, per la loro stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente – sono manifestamente infondati, ancorché la motivazione in diritto della sentenza impugnata debba essere precisata.
Anzitutto, non appare in contestazione che l’imputato fosse stato nella disponibilità dei tre assegni postali che erano stati denunciati smarriti da NOME COGNOME (la quale aveva denunciato lo smarrimento dell’intero libretto che li conteneva; pag. 3, quarto capoverso, della sentenza di primo grado), atteso che, come aveva riferito il testimone NOME COGNOME, il NOME glieli aveva dati in pagamento di alcuni beni che lo stesso NOME aveva acquistato presso la sua tabaccheria.
Ciò posto, è vero che la Corte di cassazione ha da tempo statuito, con un orientamento che è ormai costante, che, nell’ipotesi di smarrimento di cose che, come gli assegni, le carte di credito o le carte PostePay, conservino chiari e intatti i segni esteriori di un legittimo possesso altrui, il venir meno della relazione materiale fra la cosa e il suo titolare non implica la cessazione del potere di fatto di quest’ultimo sul bene smarrito, con la conseguenza che colui che se ne impossessa senza provvedere alla sua restituzione commette il reato di furto (Sez. 2, n. 4132 del 18/10/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278225-01; Sez. 2, n. 46991 del 08/11/2013, COGNOME, cit.; Sez. 2, n. 24100 del 03/05/2011, COGNOME, cit.; Sez. 2, n. 8109 del 26/04/2000, COGNOME, cit.; Sez. 2, n. 11034 del 16/06/1999, COGNOME, Rv. 214359-01).
Pertanto, commette il reato di furto chi inizialmente si impossessa degli assegni, delle carte di credito o delle carte PostePay.
Ciò non toglie però che, come è stato esplicitamente precisato dall’ultima delle pronunce citate (la sentenza “COGNOME“) – ma come emergeva già chiaramente anche dalle sentenze “COGNOME“, “COGNOME” e “COGNOME” – «la successiva circolazione mediante il trasferimento ad altri integra proprio l’ipotesi della ricettazione».
Ne discende che la Corte d’appello di Bologna non ha sostanzialmente errato nel confermare la condanna dell’imputato per tale reato, atteso che il NOME non ha affermato il proprio diretto coinvolgimento nel furto degli assegni postali, con la conseguenza che trovava applicazione il principio, richiamato dal Tribunale di Rimini, secondo cui risponde del reato di ricettazione l’imputato, che, trovato nella disponibilità di refurtiva di qualsiasi natura, in assenza di elementi probatori indicativi della riconducibilità del possesso alla commissione del furto, non fornisca una spiegazione attendibile dell’origine del possesso (Sez. 2, n. 20193 del 19/04/2017, Kebe, Rv. 270120-01).
Del tutto logicamente la Corte d’appello di Bologna ha ritenuto inattendibile la spiegazione che era stata fornita dal COGNOME, atteso che la sua tesi difensiva secondo cui egli si era trovato in possesso degli assegni postali perché in passato aveva avuto dei rapporti con NOME COGNOME, in quanto avevano pensato di aprire un’attività insieme, cozzava con il fatto che la COGNOME aveva denunciato lo smarrimento degli assegni. Fatto rispetto al quale non era emerso alcun elemento che potesse indurre a dubitare della sua veridicità.
Quanto all’elemento psicologico dell’attribuita ricettazione, si deve osservare come, considerata l’indicata natura degli assegni in questione di cose che conservano chiari e intatti i segni esteriori del legittimo possesso altrui, anche chi li riceva o acquisti dopo il furto degli stessi è evidentemente nella condizione psicologica di conoscerne l’altruità e, quindi, la provenienza furtiva.
2. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
Come è stato chiarito dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza “Tushaj” (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266591-01), il comportamento abituale (quarto comma dell’art. 131-bis cod. pen.) ricorre quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due reati della stessa indole, oltre quello preso in esame.
Pertanto, diversamente da quanto mostra di ritenere il ricorrente, l’abitualità del comportamento non richiede che l’autore sia dichiarato recidivo e ben può ricorrere anche nel caso in cui egli non lo sia, come è confermato dal fatto che, come si è detto, i reati della stessa indole possono essere commessi anche successivamente a quello sub iudice.
L’istituto della recidiva opera, infatti, in un ambito diverso rispetto all’istitut dell’abitualità del comportamento di cui all’art. 131-bis, quarto comma, cod. pen.,
ed è fondato su di un apprezzamento diverso (Sez. 6, n. 26867 del 28/03/2017, COGNOME, Rv. 270637-01).
Ne discende che l’eventuale esclusione della recidiva, sempre diversamente da quanto mostra di ritenere il ricorrente, non avrebbe comportato la sussistenza del requisito soggettivo della non abitualità del comportamento, essendo questo oggetto di una valutazione differente rispetto a quella sulla sussistenza della recidiva.
4. Il quarto motivo non è consentito.
Quanto all’applicazione della recidiva, la Corte di cassazione ha affermato il principio che è richiesta al giudice una specifica motivazione sia che egli affermi sia che escluda la sussistenza della stessa (Sez. 6, n. 56972 del 20/06/2018, COGNOME, Rv. 274782-01). In motivazione, la Corte ha chiarito che tale dovere risulta adempiuto nel caso in cui, con argomentazione succinta, si dia conto del fatto che la condotta costituisce significativa prosecuzione di un processo delinquenziale già avviato.
In senso sostanzialmente analogo, è stato affermato che l’applicazione dell’aumento di pena per effetto della recidiva facoltativa attiene all’esercizio di un potere discrezionale del giudice, del quale deve essere fornita adeguata motivazione, con particolare riguardo all’apprezzamento dell’idoneità della nuova condotta criminosa in contestazione a rivelare la maggior capacità a delinquere del reo (Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014, dep. 2015, Gordyusheva, Rv. 26346401).
Più diffusamente, la stessa Corte di cassazione ha precisato che, ai fini della rilevazione della recidiva, intesa quale elemento sintomatico di un’accentuata pericolosità sociale del prevenuto, e non come fattore meramente descrittivo dell’esistenza di precedenti penali per delitto a carico dell’imputato, la valutazione del giudice non può fondarsi esclusivamente sulla gravità dei fatti e sull’arco temporale in cui questi risultano consumati, essendo egli tenuto a esaminare in concreto, in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., il rapporto esistente tra i fatto per cui si procede e le precedenti condanne, verificando se e in quale misura la pregressa condotta criminosa sia indicativa di una perdurante inclinazione al delitto che abbia influito quale fattore criminogeno per la commissione del reato sub iudice (Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016, Del Chicca, Rv. 270419-01).
Nel caso di specie, la Corte d’appello di Bologna ha confermato l’applicazione della recidiva ritenendo che il reato di ricettazione sub iudice, posto in relazione con le plurime precedenti condanne riportate dal NOME per ricettazione, furto, falso e spaccio di sostanze stupefacenti, fosse ulteriormente espressivo della sua pericolosità sociale, cioè di una pericolosità ancora maggiore.
Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità sopra esposti, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un discrezionale giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede di legittimità.
Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, in quanto proposto per dei motivi manifestamente infondati o non consentiti, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di € 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 16/10/2025.