Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 14939 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 14939 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 24/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a Crotone il 07/06/1974 avverso la sentenza del 11/03/2024 della Corte di appello di Bologna Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso Udito l’avvocato NOME COGNOME il quale ha chiesto il rigetto del ricorso e depositato, per le parti civili che rappresenta, conclusioni scritte e nota spese delle quali chiede la liquidazione Udito l’avvocato NOME COGNOME che si è associato alle conclusioni formulate dal Procuratore generale e depositato conclusioni scritte e nota spese delle quali chiede la liquidazione Udito il difensore dell’imputato, avvocato NOME COGNOME che ha insistito nell’accoglimento del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Bologna, decidendo in sede di rinvio, ha condannato NOME COGNOME alla pena di anni quattro e mesi otto di reclusione per il delitto contestato di cui all’art. 416 bis cod.pen, quale partecipe all’associazione di stampo mafioso Grande Aracri, operante nella regione Emilia-Romagna in forma autonoma, ma collegata al sodalizio principale di Cutro .
1.1. NOME COGNOME era assolto dal G.u.p. del Tribunale di Bologna, con sentenza in data 22 aprile 2016, dall’accusa di partecipazione al suddetto clan mafioso, collegata al sodalizio principale di Cutro. Il giudice osservava che non era emersa prova certa che l’imputato facesse parte dell’associazione, seppure contiguo a quell’ambiente criminale; la natura del suo rapporto con NOME COGNOME, referente del clan, operativo in Emilia e poi caduto in disgrazia a causa di dissapori con i cutresi, era rimasta non del tutto chiara e proprio a causa di tale vicinanza l’imputato aveva subito l’incendio del proprio veicolo; la successiva ricerca di protezione presso un altro soggetto apicale, NOME COGNOME non era da sola indicativa dell’appartenenza al sodalizio; l’impresa di cui l’imputato era titolare non sembrava essere stata posta al servizio degli interessi della cosca; il medesimo aveva solo fornito uno spunto alla campagna mediatica orchestrata dal COGNOME nei confronti della Camera di Commercio, della Prefettura e delle cooperative locali, accusate di perseguitare, mediante l’emanazione di interdittive antimafia, un gruppo di onesti imprenditori calabresi.
1.2.Con sentenza resa in data 12 settembre 2017, la Corte di appello di Bologna sovvertiva l’esito assolutorio e condannava l’imputato, riconosciute le attenuanti generiche equivalenti, alla pena di 4 anni e 8 mesi di reclusione per il reato contestato, fondando l’affermazione di responsabilità su elementi non considerati in primo grado (intercettazioni telefoniche, accertamenti bancari e documenti già acquisiti), oltre che sulle propalazioni del collaboratore NOME COGNOME dissociatosi nella fase finale del primo giudizio e sentito solo in appello, che aveva fornito una nuova chiave interpretativa degli elementi di prova già in atti, in quanto portatore di un patrimonio di conoscenze che derivava dal fatto di avere operato nello stesso settore degli appalti nel quale operava l’imputato. Anche NOME COGNOME, altro collaboratore, nel corso delle proprie dichiarazioni menzionava il COGNOME. La Corte territoriale evidenziava che l’imputato, oltre a intrattenere contatti e rapporti molto stretti con taluni degli associati, aveva procurato al sodalizio clienti come NOME COGNOME, imprenditore usurato, gestito punti di riciclaggio del denaro, svolto affari leciti e illeciti e si era prestato primo a rafforzare la campagna mediatica, contro talune istituzioni, orchestrata dal COGNOME; aveva, in particolare, rilasciato due interviste, l’una al “Resto del
Carlino” e l’altra alla RAI, nelle quali per la prima volta veniva esposta la teoria della persecuzione degli imprenditori calabresi ad opera delle cooperative e delle istituzioni locali, condotta che fruttò un “sms” di complimenti da parte dell’affiliato NOME COGNOME
1.3. Con sentenza n. 15041 del 24 ottobre 2018, la Quinta Sezione penale di questa Corte annullava con rinvio la pronuncia di secondo grado rilevando come in relazione alle prove dichiarative la decisione impugnata presentasse alcuni margini di ambiguità. Sottolineava che non si comprendeva se la Corte di appello avesse valutato le propalazioni del collaboratore NOME COGNOME in modo diverso dal primo giudice, nel qual caso sarebbe stata necessaria la rinnovazione istruttoria, e che ad analoga conclusione doveva giungersi quanto alle dichiarazioni rese dai testi COGNOME e COGNOME neppure menzionati nella decisione di primo grado.
In particolare la sentenza di questa Corte ( pagg. 139-140) rilevava che la Corte di appello: in premessa, aveva precisato che l’impianto probatorio era basato « sulle nuove acquisizioni emerse all’esito della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, costituite dall’esame di NOME COGNOME e del Maresciallo COGNOME, che avevano consentito di rivalutare le acquisizioni cui era pervenuta l’istruttoria dibattimentale all’esito del primo grado di giudizio, ossia l intercettazioni telefoniche, i servizi di o.c.p. e le dichiarazioni del collaboratore d giustizia NOME COGNOME»; aveva precisato che, nell’ambito dell’attività investigativa,« era emerso il ruolo del COGNOME quale soggetto dedito a procacciare i nominativi di imprenditori in difficoltà, da sottoporre ad usura, costituente, quest’ultima, una delle principali attività illecite cui l’associazione er dedita» e che tale ruolo « era emerso dalle dichiarazioni dell’imprenditore NOME COGNOME escusso come persona sottoposta ad indagini in relazione al reato di cui all’art. 2 d. Igs. 74/2000, la cui attendibilità è stata positivamente valutata dalla Corte»; aveva considerato che non era chiaro, se « le propalazioni del Marino fossero state o meno diversamente valutate, in termini di attendibilità, rispetto a quanto ritenuto dal primo giudice, in riferimento alla posizione del COGNOME»; aveva quindi posto « a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità del COGNOME le dichiarazioni dell’imprenditore NOME COGNOME, riscontrate dalle dichiarazioni della segretaria NOME COGNOME e dello stesso COGNOME», sottolineando l’apporto dichiarativo del COGNOME «come semplice riscontro», ed introducendo, in tal modo un profilo di illogicità rispetto alle premesse, senza peraltro chiarire « se le dichiarazioni del COGNOME e della COGNOME fossero state oggetto di una diversa valutazione da parte del primo giudice, caso nel quale sarebbe stata necessaria la rinnovazione dell’istruttoria dìbattimentale in grado di Corte di Cassazione – copia non ufficiale
appello, alla luce del principio affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza Patalano, n. 18620 del 19/01/2017, Rv. 269785».
Sottolineava la necessità di un onere motivazionale particolarmente accurato volto ad accertare sia la rilevanza della prova dichiarativa sia se nel caso in esame ci si trovasse di fronte ad una diversa valutazione della stessa, ovvero al recupero di una prova omessa o travisata dal primo giudice al fine di consentire l’accertamento del rispetto del principio sancito dalla sentenza COGNOME in tema di rinnovazone dell’istruttoria dibattimentale in sede di giudizio abbreviato di appello. Annullava la sentenza di appello in accoglimento del secondo motivo con cui la difesa aveva censurato il mancato rinnovo dell’esame dei testi COGNOME e COGNOME oltre che la mancata ammissione dell’esame dell’imputato, dichiarando assorbiti tutti gli altri motivi, compreso il terzo riguardante l’omessa valutazione dell’attendibilità di NOME ed i riscontri individualizzanti .
1.4. Con sentenza del 23 dicembre 2020, la Corte di appello di Bologna, decidendo in sede di rinvio, in riforma della decisione assolutoria resa dal giudice di primo grado, dichiarava NOME COGNOME responsabile del reato ascrittogli e, concesse le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, lo condannava alla pena di 4 anni e 8 mesi di reclusione, oltre alle pene accessorie di legge, e statuizioni civili. Il giudice del rinvio dava ampio risalto al dichiarazioni rese dal collaboratore COGNOME ritenute di significativo spessore probatorio e munite di precisi riscontri a proposito del contributo fornito alla cosca dall’imputato tramite false fatturazioni e la gestione di un’agenzia di scommesse finalizzata a riciclare i proventi del gruppo; valorizzava, altresì, il coinvolgimento dell’imputato nel progetto comunicativo ideato dalla cosca per contestare le istituzioni che avversavano la loro condotta, accampando il pretesto di una ingiusta etichettatura come mafioso di qualsiasi imprenditore calabrese operante nel territorio emiliano, attuato attraverso interventi in occasioni pubbliche e in due interviste rilasciate al “Resto del Carlino” e alla RAI; apprezzava come rilevante l’apporto dichiarativo fornito dall’imprenditore NOME COGNOME e da NOME COGNOME segretaria di costui, e riteneva l’imputato coinvolto nel meccanismo, incentrato su false fatturazioni emesse da imprenditori intranei al sodalizio criminale, che consentiva ad esponenti della cosca di percepire interessi usurari. In conclusione, reputava provato l’inserimento dell’imputato all’interno del sodalizio cutrese, al quale aveva, nel corso degli anni, apportato utili contributi, in particolare: mettendo in contatto gli associati con l’imprenditore usurato; gestendo un’agenzia che copriva operazioni di ripulitura di illeciti proventi; partecipando alle operazioni di false fatturazioni; appoggiando la strategia comunicativa ideata dai capi, della quale era uno dei principali protagonisti. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
1.5.Con successiva sentenza della Prima Sezione, n. 1827 del 08/06/2022, questa Corte annullava la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Bologna, per una «valutazione dell’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni rese da NOME COGNOME e una rinnovata, complessiva, analisi di tutto il compendio probatorio, alla luce della propedeutica valutazione imposta, con estensione di essa alle dichiarazioni spontanee rese dall’imputato all’udienza prima indicata». In particolare la sentenza rescindente, ritenendo fondati il quinto e sesto motivo di ricorso: ha accolto la doglianza difensiva concernente l’omessa motivazione del giudice d’appello rispetto al contenuto delle dichiarazioni spontanee rese da COGNOME NOME all’udienza del 23 dicembre 2020; ha ritenuto fondata la censura sul fatto che la sentenza rescissoria avesse ritenuto «coperta da giudicato la valutazione concernente la credibilità intrinseca del narrato riferito dal collaboratore di giustizia NOME COGNOME dissociatosi nella fase finale del giudizio di primo grado e sentito solo in appello» ( pag.20) rilevando come detto errore avesse determinato «una carenza di motivazione- di obiettiva gravità, stante il rilievo centrale attribuito dalla Corte di merito al narrato (sopravvenuto) del COGNOME inficiante la sentenza impugnata, con carattere assorbente delle censure sviluppate nel quarto motivo di ricorso a proposito della valutazione della prova in generale e, in particolare, dei riscontri individualizzanti apprezzabili con riguardo alle dichiarazioni del collaborante suddetto» (pag.21).
1.6. La sentenza impugnata – premessa una definizione del perimetro del giudizio di rinvio riferito alla « valutazione dell’attendibilità intrinseca del dichiarazioni rese da NOME COGNOME» nonché ad una «rinnovazione dell’analisi complessiva di tutto il compendio probatorio, alla luce della propedeutica valutazione imposta, con estensione alla valutazione delle dichiarazioni spontanee rese dall’imputato all’udienza del 23 dicembre 2020» (pag.11)- ha ritenuto provata la penale responsabilità di COGNOME NOME per il delitto contestato di cui all’art. 416 bis cod.pen, quale partecipe all’associazione di stampo mafioso Grande COGNOME, sottolineando come il medesimo sia stato «soggetto stabilmente inserito nel sodalizio al quale aveva, nel corso degli anni, apportato utili contributi in particolare partecipando alle operazioni di false fatturazioni, gestendo un’agenzia che copriva operazioni di “ripulitura” di proventi illeciti, mettendo in contatto gli associati con imprenditori usurati, appoggiando la strategia comunicativa ideata da capi, della quale era uno dei principali protagonisti, esponendola in pubblico attraverso la stampa e rilasciando interviste» . Ha rigettato la richiesta di risarcimento delle parti civili diverse dalle organizzazioni sindacali e dalla Regione Emilia Romagna, in quanto rimaste acquiescenti rispetto alla pronuncia della Corte di appello che aveva rigettato la loro richiesta di risarcimento, non
proponendo ricorso per cassazione, con la conseguenza di una preclusione processuale, facendo applicazione degli insegnamenti espressi da questa Corte (Sez.Un.n. 1 del 19/01/2020, COGNOME, Rv. 216239).
Ha proposto ricorso NOME COGNOME per il tramite del suo difensore, avv. NOME COGNOME.
2.1. Con primo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione agli artt. 533 e 603, comma 3 bis, 178 e 192 cod. proc.pen., con riferimento alla mancata rinnovazione dell’esame del collaboratore NOME Giuseppe, dei testi COGNOME Giovanni e NOME COGNOME in quanto prove decisive, e delle spontanee dichiarazioni dell’imputato. Deduce che La Corte d’Appello di Bologna, con la sentenza impugnata, per ribaltare il verdetto assolutorio ha utilizzato, come prove decisive, le dichiarazioni di COGNOME Giuseppe, di COGNOME NOME, di COGNOME Monica, che avrebbe dovuto, tuttavia, assumere direttamente, confrontandosi visivamente con i medesimi, tanto più che la (ri)valutazione dell’attendibilità intrinseca del COGNOME è stata oggetto di specifica richiesta della Suprema Corte. La rinnovazione dell’istruttoria mediante rinnovato esame del collaboratore COGNOME Giuseppe, di COGNOME NOME e COGNOME Monica, sarebbe imposta dai principi espressi dalla Corte Edu, in particolare dalla sentenza Dan c. Moldavia (Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia, ric. n. 8999/07) oltre che da numerose pronunce di legittimità, nonché ai sensi dell’art. 603, comma 3 bis, cod.proc.pen.; la stessa dovrebbe essere estesa anche alle dichiarazioni spontanee rese dall’imputato, all’udienza del 23.12.2020,in quanto rientranti nel paradigma della prova dichiarativa ed avendole la Corte di rinvio confutate, ritenendole inattendibili.
2.2. Con secondo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione agli artt. 24, comma 2 e 3, Cost. e ai principi di diritto in materia di motivazione rafforzata.
Deduce che: la Corte di rinvio ha ritenuto dirimente la circostanza che l’imputato abbia subito azioni ritorsive, consistite nell’incendio di sue autovetture, da parte di NOME COGNOME a causa della sua vicinanza al Villirillo (altro imputato nel medesimo processo); tuttavia, il giudizio di primo grado si è concluso con una sentenza assolutoria nei confronti del COGNOME per mancanza di “prova certa sulla effettiva affiliazione di COGNOME NOME all’associazione”; la sentenza di condanna, che ha ribaltato la sentenza assolutoria, non ha tenuto conto della sentenza emessa nel procedimento, concluso con rito ordinario nel procedimento c.d. Aemilia, nella quale, sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori COGNOME e NOME relative al medesimo episodio, è stato evidenziato un diverso movente all’origine del incendio delle autovetture dell’imputato; il movente dei fatti incendiari costituisce un dato su cui andava valutata la credibilità del collaboratore
NOME in mancanza di certezza sul movente non sarebbe stato possibile attribuire rilevanza dirimente all’episodio.
2.3. Con terzo motivo denuncia vizio di omessa motivazione in quanto la sentenza aveva riportato due motivazioni alternative senza indicare a quale tesi intendesse aderire. In particolare deduce che: nella sentenza di primo grado a carico del COGNOME si affermava che gli incendi avevano avuto, come movente, la volontà di punire il medesimo poiché vicino a Villirillo Romolo; nella sentenza del procedimento c.d. Aemilia svoltosi nella forma del rito ordinario, passata in giudicato il 07.05.2022, è affermato, sulla base delle dichiarazioni del collaboratore COGNOME COGNOME, che gli incendi devono essere ricondotti a diverse questioni sentimentali e a questioni relative a fatture per operazioni inesistenti (come affermato dal collaboratore NOME). La sentenza impugnata, sul movente degli incendi, si pronunciava con un non liquet con evidente vizio motivazionale in quanto avrebbe dovuto stabilire quale tra i due moventi riconosceva come veritiero.
2.4. Con quarto motivo denuncia violazione di legge, in relazione all’art. 416 bis cod.pen., e vizio di motivazione per mancanza di motivazione rafforzata, illogicità e contraddittorietà della stessa in relazione alla valutazione dell’attendibilità del collaboratore NOME e del compendio probatorio.
Deduce che gli elementi di prova non riescono a sostenere adeguatamente l’alternativo ragionamento probatorio della Corte distrettuale e a confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza. Le dichiarazioni del collaboratore COGNOME sono de relato e nulla aggiungono rispetto a quanto valutato in primo grado in quanto le circostanze riferite sarebbero, al più, indicative di contiguità e non di partecipazione; il collaboratore non ha riferito nulla in merito alla presunta attività di riciclaggio, né in merito all’appoggio ricevuto da parte del Grande Aracri per la vendita del caffè o sulla questione della vendita della casa di Capo Colonna; le circostanze relative al ruolo dell’imputato nella campagna mediatica contro le istituzioni, a seguito della “cena delle beffe” erano già state valutate dal giudice di primo grado e ritenute non idonee a fornire la prova di una sua partecipazione attiva; anche sui dati acquisiti in merito all’inserimento del ricorrente in un giro di false fatturazioni non era stata fornita alcuna motivazione per superare la sentenza di assoluzione; lo stesso collaboratore aveva detto che COGNOME NOME gli aveva chiesto di fare lavorare il COGNOME, con ciò confermando che il medesimo non era conosciuto tra i membri del sodalizio; sulle dichiarazioni del COGNOME mancava una valutazione della loro attendibilità intrinseca ed estrinseca e la sentenza impugnata non aveva tenuto conto del contrasto con le dichiarazioni di NOME COGNOME; nel corso del suo esame Gangi aveva coinvolto NOME COGNOME facendo sorgere il dubbio
sull’effettiva condotta tenuta dall’imputato. Mancherebbe, pertanto, la prova di un contributo apprezzabile e concreto dell’imputato al sodalizio mafioso e le conversazioni indicate in sentenza sono state interpretate in modo diverso dal giudice di primo grado ed andando oltre il loro significato letterale. Si duole, infine, che sia stato ignorato il contenuto della conversazione n. 1107 del 1 marzo 2012 fra COGNOME e COGNOME da cui desumere che il riferimento del COGNOME alla famiglia COGNOME era da intendere come famiglia in senso proprio e non come associazione mafiosa
2.5. Con quinto motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in merito alle dichiarazioni spontanee rese dall’imputato all’udienza del 23 dicembre 2020.Deduce che la Corte territoriale non avrebbe superato la motivazione del giudice di primo grado che aveva ritenuto esistente un mero rapporto di contiguità fra il ricorrente ed il sodalizio.
Il Procuratore generale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
I difensori delle parti civili, hanno chiesto il rigetto del ricorso e depositat conclusioni scritte e note spese, chiedendone la liquidazione. Il difensore dell’imputato ha insistito nell’accoglimento del ricorso.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato.
Il primo motivo è infondato.
La doglianza difensiva articolata impone di considerare se sussista la necessità della rinnovazione in sede di giudizio di rinvio della prova dichiarativa decisiva, ai fini del ribaltamento in malam partem della decisione liberatoria di primo grado, pur quando già assunta dal Giudice di appello, in quanto prova sopravvenuta al giudizio di primo grado e, se ed entro quali limiti, l’obbligo per il Giudice di rinvio sia diversamente configurabile a seconda dei limiti derivanti da un possibile giudicato interno.
1.1. Nel disegno sistematico originario del codice di procedura penale del 1988, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in grado di appello era delineata dall’art. 603 come previsione di carattere residuale e riservata alla discrezionalità del giudice, in coerenza con la presunzione di completezza dell’accertamento probatorio svolto nel primo grado di giudizio. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha, tuttavia, stimolato nella giurisprudenza italiana un incisivo ripensamento sui presupposti della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, in ipotesi di overturning in malam partem, ritenendo necessario che il ribaltamento
della sentenza di assoluzione di primo grado sia preceduto, in appello, dalla nuova escussione del teste sulla cui base tale ribaltamento sia avvenuto, pena la violazione dell’art. 6 CEDU ( Corte Edu del 29/06/2017, COGNOME c. Italia; 28/02/2017, COGNOME c. Moldavia; 04/06/2013, COGNOME c. Romania; 05/03/2013, COGNOME c. Romania; 21/09/2010, NOME COGNOME c. Spagna; 05/07/2011, Dan e. Moldavia)
È stato ritenuto non rispettoso delle garanzie convenzionali il processo che si risolva in un ribaltamento dell’assoluzione sulla base di un compendio probatorio cartolare “deprivato” rispetto a quello disponibile in primo grado, in quanto carente dell’audizione diretta dei testimoni “già” uditi, dei quali si pretende di rivalutare l attendibilità intrinseca e la credibilità dei contenuti accusatori, senza fare ricorso alla percezione diretta dell’evento dichiarativo. Sotto tale profilo, l’argomento dirimente, valorizzato dalla Corte Edu, è legato non tanto al diritto dell’imputato ad entrare in contatto con la fonte delle accuse (comunque esercitato nel primo grado di giudizio), quanto al suo diritto ad una decisione basata su di un percorso valutativo affidabile, che presuppone che il giudice della condanna valuti gli “stessi elementi” a disposizione del giudice dell’assoluzione e, dunque, con specifico riguardo alle prove dichiarative, anche gli elementi di valutazione provenienti dalla comunicazione extra verbale.
1.2.Tale panorama giurisprudenziale è stato arricchito da alcuni decisivi arresti delle Sezioni Unite, oltre che dall’intervento legislativo di modifica dell’art 603 cod. proc. pen., che ha introdotto “l’obbligo” della rinnovazione dibattimentale nel caso in cui il giudizio di appello sia promosso dal pubblico ministero ed il proscioglimento deciso in primo grado sia fondato su «motivi attinenti la valutazione della prova dichiarativa».
Le Sezioni unite, di fatto anticipando la riforma, hanno affermato che l’onere di fornire una motivazione rafforzata implica la necessità di effettuare il riesame della decisione assolutoria attraverso l’obbligatoria rinnovazione delle testimonianze decisive (Sez. un, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267486), ed estendendo tale obbligo anche ai casi in cui si proceda con il rito abbreviato non condizionato in quanto dal canone decisorio della condanna oltre ogni ragionevole dubbio, deriva che, «in mancanza di elementi sopravvenuti, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello» deve essere «sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze od insufficienze della decisione assolutoria» (Sez. U. n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269786). Per riformare l’assoluzione, pertanto, «non basta una diversa valutazione di pari plausibilità rispetto alla lettura del primo giudice», ma occorre una «forza persuasiva superiore», tale da far cadere ogni dubbio ragionevole. E tale forza persuasiva non deriva, ex se, dalla pronuncia del giudice
d’appello, che non «ha di per sé una “autorevolezza maggiore” di quello» di primo grado, ma deriva – al contrario – dal metodo orale dell’accertamento, unica via in grado di qualificare la decisione in termini di «certezza della colpevolezza»((Sez. U. n. 18620 del 19/01/2017, cit.).
A seguito del nuovo comma 3 bis dell’art. 603 cod. proc. pen., le Sezioni unite hanno da ultimo offerto una interpretazione “restrittiva” della nuova previsione, attraverso l’individuazione di precisi limiti all’obbligo di rinnovazione. E’ stato, infatti, affermato che «l’espressione utilizzata dal legislatore nella nuova disposizione di cui al comma 3-bis, secondo cui il giudice deve procedere, nell’ipotesi considerata, alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, non equivale infatti alla introduzione di un obbligo di rinnovazione integrale dell’attività istruttoria – che risulterebbe palesemente in contrasto con l’esigenza di evitare un’automatica ed irragionevole dilatazione dei tempi processuali -, ma semplicemente alla previsione di una nuova, mirata, assunzione di prove dichiarative ritenute dal giudice d’appello “decisive” ai fini dell’accertamento della responsabilità, secondo i presupposti già indicati da questa Corte nella sentenza Dasgupta. Coordinando la locuzione impiegata dal legislatore nel comma 3-bis («il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale») con quelle – del tutto identiche sul piano lessicale – già utilizzate nei primi tre commi della medesima disposizione normativa, deve pertanto ritenersi che il giudice d’appello sia obbligato ad assumere nuovamente non tutte le prove dichiarative, ma solo quelle che – secondo le ragioni puntualmente e specificamente prospettate nell’atto di impugnazione del pubblico ministero – siano state oggetto di erronea valutazione da parte del giudice di primo grado e vengano considerate decisive ai fini dello scioglimento dell’alternativa “proscioglimento-condanna”» (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep 2018, Troise, Rv. 272431, § 7.2). In definitiva l’obbligo di rinnovazione è configurabile solo nei casi in cui si invochi la rivalutazione della attendibilità intrinseca delle testimonianze decisive, senza estenderlo alle prove dichiarative i cui contenuti sono incontestati, sebbene l’appellante invochi una diversa valutazione dei dati di contesto. Non sussiste l’obbligo di procedere alla rinnovazione della prova testimoniale decisiva per la riforma in appello dell’assoluzione, quando l’attendibilità della deposizione sia valutata in maniera del tutto identica dal giudice di appello, che si limita ad effettuare un diverso apprezzamento del complessivo compendio probatorio ovvero ad offrire una diversa interpretazione della fattispecie incriminatrice (Sez. 5, n. 33272 del 28/03/2017, COGNOME, Rv. 270471; Sez. 5, n. 47833 del 21/06/2017, Terry, Rv. 273553; Sez. 6, n. 49067 del 21/09/2017, dep. 2017, COGNOME, Rv. 271503). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
1.3. Pur essendo incontestabile la riferibilità dei superiori principi anche al giudizio di rinvio, come sottolineato anche dalla Corte EDU (sentenza Tondo c. Italia del 22/10/2020 che ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 6, § 1 della CEDU in un caso di mancata rinnovazione della prova dichiarativa in appello – a seguito di annullamento con rinvio da parte di questa Corte), deve rilevarsi che, tuttavia, la fattispecie in esame esula dalla sfera applicativa dell’art. 603 comma 3 bis cod.proc.pen., non sussistendo alcun onere per la Corte di rinvio di rinnovare l’esame del collaboratore NOME NOMECOGNOME in quanto prova acquisita per la prima volta dinanzi la Corte di appello, essendo il medesimo divenuto collaboratore fra il giudizio di primo grado e quello di appello. Le dichiarazioni rese dal collaboratore NOME hanno costituto, pertanto, un novum che si è aggiunto alla piattaforma probatoria utilizzata dal giudice di primo grado e rispetto ad esse non si è posto il problema di una loro “nuova” valutazione sovrapposta rispetto a quella del primo grado. Il ribaltamento in malam partem del verdetto assolutorio è stato, pertanto, conseguenza dell’implementazione del compendio probatorio – arricchito attraverso le dichiarazioni del COGNOME– e non l’effetto di una loro diversa valutazione, contrapposta a quella effettuata nel giudizio precedente.
Peraltro, la seconda sentenza rescindente di questa Corte, della Prima Sezione penale, n 1827 del 08/06/2022, ha annullato la prima sentenza di rinvio della Corte di appello di Bologna disponendo un nuovo giudizio di attendibilità non, tuttavia, per la necessità di rinnovare l’istruttoria ai sensi dell’art. 603 bi cod.proc.pen., bensì censurando la decisione della stessa Corte di avere ritenuto ( erroneamente) sussistente un giudicato interno in punto di attendibilità delle dichiarazioni del collaboratore; correttamente, pertanto, sulla base di tale dictum la Corte di rinvio ha limitato il thema decidendum del suo giudizio alle sole questioni ritenute controverse da questa stessa Corte, escludendo che le stesse includessero anche una rinnovazione dell’istruttoria riguardante le dichiarazioni del COGNOME.
Quanto alla richiesta di rinnovazione dei testi COGNOME e COGNOME e alla richiesta di sentire nuovamente l’imputato a spontanee dichiarazioni, va considerato che tali adempimenti risultano già effettuati dalla Corte nel corso del primo giudizio di rinvio, definito con sentenza della Corte di appello di Bologna del 23 dicembre 2020, rispettivamente alle udienze dell’i e 24 luglio 2020 e 23 dicembre 2020; la censura articolata sul punto è, pertanto, del tutto generica e non si confronta con il contenuto delle stesse dichiarazioni, prospettandone un eventuale profilo di travisamento.
La mancanza di deduzioni specifiche sull’interpretazione delle dichiarazioni rese dai testi indicati, oltre che dal medesimo imputato in sede di dichiarazioni spontanee, astrattamente ipotizzabili anche nei limiti di un possibile ( ma non
dedotto) vizio di travisamento di prova, rende ragione, peraltro, della differenza esistente fra la fattispecie in esame e quelle definite da questa Corte con le sentenze indicate dalla difesa ( Sez. 5, n. 3007 del 24/11/2020, dep. 2021, Rv. 280257-01 e Sez.2,n. 25124 del 07/03/2023 n. 25124) in cui era rimasta controversa, sotto il profilo di specifiche carenze motivazionali, la rilevanza specifica da attribuire alla prova ritenuta decisiva.
Nel caso in esame, deve darsi continuità all’insegnamento secondo cui « Nel giudizio di rinvio seguito all’annullamento della sentenza di appello che abbia ribaltato la decisione assolutoria di primo grado procedendo a rinnovare la prova dichiarativa decisiva oggetto di discorde valutazione, non è necessaria una nuova assunzione di detta prova allorquando detto annullamento sia comunque stato determinato da ragioni diverse dalla violazione dei diritti del contraddittorio o dalla inutilizzabilità delle nuove dichiarazioni o dalla inattendibilità delle stesse e in un contesto caratterizzato da elementi indicativi della salvaguardia dell’equità complessiva del procedimento» (Sez. 3, n. 1336 del 21/10/2021, dep. 2022, Rv. 282841 – 01).
2.È infondata anche la doglianza veicolata attraverso il secondo e terzo motivo di ricorso in ordine alla presunta violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata rapportata alla rilevanza delle azioni ritorsive subite dal Calacino e al vizio di motivazione in ordine al movente alternativo, riconosciuto come possibile.
Il contenuto dell’obbligo di c.d. “motivazione rafforzata”, in ipotesi di riforma di sentenza di assoluzione in sentenza di condanna è stato oggetto di esame nella giurisprudenza delle Sezioni Unite da tempo risalente. Precisamente, le Sezioni Unite hanno affermato che, in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 231679 – 01). Anche la giurisprudenza successiva, peraltro, recependo il dovere di motivazione rafforzata, da parte del giudice, della sentenza di ribaltamento della pronunzia liberatoria di primo grado come concetto essenziale alla giustificazione del ribaltamento, nell’ottica del superamento del ragionevole dubbio, alla luce delle sentenze Dasgupta, COGNOME e COGNOME, ha confermato che, in caso di overtuming in malam partem, i giudici hanno l’obbligo di dimostrare specificamente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza del primo giudice, non potendo la sentenza di ribaltamento limitarsi ad una ricostruzione alternativa rispetto a quella del primo Giudice, dovendo piuttosto essere dotata di maggior forza persuasiva, tale da far
venir meno ogni ragionevole dubbio sulla responsabilità dell’imputato (Sez. 5, n. 15259 del 18/02/2020, COGNOME, Rv. 279255, in motivazione; Sez. 4, n. 42868 del 26/9/2019, COGNOME, Rv. 277624; Sez. 6, n. 51898 del 11/7/2019, P., Rv. 278056; Sez. 5, n. 54300 del 14/9/2017, COGNOME, Rv. 272082; Sez. 3, n. 6817 del 27/11/2014, dep. 2015, S., Rv. 262524; Sez. 4, n. 42868 del 26/9/2019, COGNOME, Rv. 277624; Sez. 6, n. 51898 del 11/7/2019, P., Rv. 278056; Sez. 5, n. 54300 del 14/9/2017, COGNOME, Rv. 272082; Sez. 3, n. 6817 del 27/11/2014, dep. 2015, S., Rv. 262524; Sez. 1, n. 12273 del 15/12/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 262261; Sez. 4, n. 42868 del 26/9/2019, COGNOME, Rv. 277624; Sez. 6, n. 51898 del 11/7/2019, P., Rv. 278056; Sez. 5, n. 54300 del 14/9/2017, COGNOME, Rv. 272082; Sez. 3, n. 6817 del 27/11/2014, dep. 2015, S., Rv. 262524; Sez. 1, n. 12273 del 15/12/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 262261; Sez. 4, n. 42868 del 26/9/2019, COGNOME, Rv. 277624; Sez. 6, n. 51898 del 11/7/2019, P., Rv. 278056; Sez. 5, n. 54300 del 14/9/2017, COGNOME, Rv. 272082; Sez. 3, n. 6817 del 27/11/2014, dep. 2015, S., Rv. 262524; Sez. 1, n. 12273 del 15/12/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 262261).
Sotto altro profilo deve, tuttavia, considerarsi che l’obbligo di motivazione rafforzata deve essere modulato diversamente quando la piattaforma probatoria a disposizione del giudice di appello sia stata più ampia rispetto a quella utilizzata dal primo giudice, come avvenuto nel caso di specie in cui la sentenza di appello risulta essere stata motivata sulla base delle determinanti dichiarazioni rese da NOMECOGNOME il cui percorso collaborativo con la giustizia risulta essere stato intrapreso dopo la definizione del giudizio di primo grado.
Il principio, affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui il giudice di appello che riformi la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l’istruzione dibattimentale, anche d’ufficio, e a rendere una motivazione rafforzata si riferisce all’ipotesi in cui, nel giudizio di appello, risulti effettuata una diversa valutazione probatoria di una fonte dichiarativa decisiva; nel caso in esame, al contrario, la riforma della pronuncia assolutoria non è stata basata sul diverso apprezzamento di una fonte dichiarativa, bensì sull’acquisizione di fonti aggiuntive ed ampliative del compendio probatorio proprio del giudizio di primo grado.
La difesa, peraltro, sostiene che sulla questione del movente, alla base degli attentati incendiari subiti dal Calacino, debba incentrarsi la valutazione di attendibilità del collaboratore NOME COGNOME argomentando dal presupposto che i diversi elementi valutativi forniti attraverso la produzione della sentenza che ha definito il connesso procedimento “RAGIONE_SOCIALE” si porrebbero su un piano di totale contrasto ed incompatibilità logica rispetto alla diversa ricostruzione accreditata
dalla Corte territoriale. La censura, tuttavia, rifugge da un confronto con la puntuale motivazione fornita sul punto dalla sentenza impugnata secondo cui le dichiarazioni del collaboratore NOME Giuseppe hanno avuto un ruolo da collante rispetto alla ricostruzione della vicenda in esame, fornendo una nuova e più coerente chiave di lettura relativamente alle risultanze delle conversazioni oggetto di captazione, acquisite fin dalle indagini preliminari. In particolare, è stato evidenziato come la prova che gli attentati incendiari subiti dall’imputato, a distanza di un mese ( in data 14 novembre e 19 dicembre 2011), oltre ad uno precedente subito nel mese di maggio dello steso anno, debba essere ricollegata a logiche ritorsive contro l’odierno imputato e problematiche interne al sodalizio mafioso di riferimento- ed in particolare a ragioni di insanabile contrasto fra NOME COGNOME, riconosciuto come capo della locale di Cutro gestita appunto dalla famiglia COGNOME, e COGNOME all’epoca referente di spicco della medesima famiglia e accusato di essersi impossessato di somme di denaro destinate al primo- debba essere ricavata: dalle dichiarazioni del medesimo imputato il quale, il giorno successivo all’ultimo attentato, nel corso di una conversazione intercorsa con NOME NOME ( conv. n.3404 ), sfogava la propria rabbia per avere “sprecato quattro cinque anni della mia vita a volere bene ad una famiglia di merda” ( pag.20 della sentenza) manifestando di non avere dubbi sulla matrice dell’attentato ( ” ..e dopo due giorni veni e bruci la macchina a mio fratello? Non me lo toglie nessuno dalla testa. Nessuno, nessuno me lo toglie dalla testa perché mio fratello non ha niente a che vedere con nessuno, come non ce l’ho io”); dal tenore di una successiva conversazione, n. 4236 del 20 aprile 2012, intercorsa con NOME nella quale il medesimo imputato, oltre a rivelare alcuni particolari del rapporto con NOME COGNOME ( facendo riferimento ad un episodio in cui, in piena notte, era stato da questi chiamato per un prestito di 20 mila euro), manifestava di essere pienamente consapevole delle ragioni per cui COGNOME fosse divenuto inviso agli altri membri della sua cosca di appartenenza (” come cazzo vai e ti prendi i soldi di quello.ma questa è una cosa che non gliela lasciano passare”), nonchè conscio che gli attentati, da egli stesso subiti, dovessero essere collegati alla sua vicinanza con il COGNOME, divenuto inviso agli altri membri della cosca (“la gente si meraviglia come mai a me non mi ha ammazzato”). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
La Corte di rinvio ha, inoltre, sottolineato che la frequentazione da parte dell’imputato di altri referenti della cosca, dopo la caduta in disgrazia del Villirillo dovesse essere desunta anche dal contenuto di un sms inviato dall’imputato a NOME COGNOME il 28 novembre 2011, con il quale l’imputato esternava la sua “devozione” ( “..in te ho iniziato a vedere mio fratello maggiore che non ho mai avuto”).
Con motivazione logica ed immune da vizi, la decisione impugnata ha, dunque, ritenuto che lo stesso collegamento, effettuato dall’imputato, fra gli attentati incendiari ed una logica ritorsiva indiretta attuata, in suo danno, con piena consapevolezza di dinamiche e vicende interne alla consorteria, abbia costituto un riscontro alla sua intraneità.
La sentenza impugnata ha preso, altresì, atto del fatto che: la sentenza che ha definito il procedimento “Aemilia” con rito abbreviato (definitiva il 24 ottobre 2018) ha condannato NOME COGNOME quale mandante degli attentati incendiari subiti dal COGNOME, per la volontà di colpirlo, per la sua vicinanza a COGNOME COGNOME che aveva tradito la cosca cutrese; la sentenza emessa nel troncone definito con rito ordinario nel medesimo procedimento ( divenuta definitiva il 7 maggio 2022) ha condannato gli esecutori materiali degli attentati ai quali era contestato di avere agito sempre su mandato di NOME COGNOME riconducendo tali gesta, tuttavia, ad una diversa decisione della cosca di punire il COGNOME per contrasti insorti con COGNOME, sia pure diversamente riferiti dai due collaboratori assunti in quel procedimento ora a ragioni sentimentali o ragioni di contrasto economico.
La Corte di rinvio, con motivazione immune da vizi, nel confrontarsi con tale tema sollevato dalla difesa già nel corso della discussione del giudizio di rinvio, ha sottolineato l’inverosimiglianza della versione secondo cui gli attentati avrebbero dovuto essere ricollegati a motivi di gelosia nutriti da COGNOME COGNOME per una donna (pag.33), ritenendo più plausibile un movente legato «alla spartizione di profitti derivati da operazioni illecite, operazioni condivise tra COGNOME e COGNOME NOME», pervenendo, tuttavia, alla conclusione che anche una siffatta diversa configurazione del movente, alla base degli attentati subiti dall’imputato, ne rafforzerebbe il quadro probatorio a carico ( pag. 32). Anche accedendo a tale diversa ricostruzione, secondo la Corte territoriale, rimarrebbe immutato un movente, coerente con l’impianto accusatorio, allineato rispetto all’ulteriore acquisizione secondo cui l’escalation criminosa ai danni del COGNOME sarebbe stata espressione di «una vera e propria strategia dei vertici dell’associazione diretta ad assestare i propri rapporti con il partecipe NOME COGNOME» ( pag.33) secondo quanto riferito, comunque, dai medesimi collaboratori escussi nel diverso procedimento penale.
Le doglianze difensive prescindono, in definitiva, dalla individuazione del focus del ragionamento sviluppato dai giudici di rinvio omettendo di considerare che una chiave di lettura d’insieme delle acquisizioni effettuate nel corso degli altri procedimenti, lungi dal disvelare profili di contraddittorietà nella ricostruzione del fatto, conferma la matrice di mafiosità degli attentati subiti dall’imputato e la volontà espressa, ad alti vertici, dalla stessa organizzazione criminale di punirlo
per comportamenti assunti dal medesimo, appunto quale intraneo al medesimo sodalizio, e non per logiche esterne alio stesso.
3.11 quarto motivo è manifestamente infondato. La censura difensiva, sulla mancanza di una motivazione rafforzata rispetto alla sussistenza di un quadro sufficiente a supportare un giudizio di colpevolezza per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., prescinde, ancora una volta, dal considerare che la piattaforma probatoria a disposizione dei giudici dell’appello è stata certamente più ampia rispetto a quella utilizzata dai giudici di primo grado, per effetto delle acquisizione progressive fisiologicamente collegate alla nuova collaborazione di NOME, fatto sopravvenuto rispetto alla definizione del giudizio di primo grado. La Corte di rinvio ha, peraltro, considerato che il dichiarante «all’epoca, monopolizzava il settore degli autotrasporti nelle province di Reggio Emilia e Parma e non era possibile lavorare in quei settori senza la sua approvazione» ( pag.18) e che, proprio il fatto di lavorare nel medesimo ambito di attività dell’imputato, a sua volta operativo come imprenditore nel settore degli autotrasporti e in quello della raccolta di rifiuti nel medesimo ambito territoriale, abbia dato contezza della disponibilità, da parte del dichiarante, di un patrimonio cognitivo qualificato. Peraltro, il tessuto motivazionale della sentenza (in particolare attraverso il richiamo al contenuto delle conversazioni oggetto di captazione) mette in evidenza che determinate conoscenze del dichiarante derivano anche dalle confidenze dello stesso imputato.
La doglianza difensiva, sulla ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni del collaboratore COGNOME NOME e sulla violazione dei criteri valutativi sottesi all’enunciazione delle regole stabilite dall’art. 192 cod.proc.pen., omette di considerare che, al di là delle dichiarazioni rese dal collaboratore NOME, il tessuto probatorio su cui si è attestato lo statuto decisorio dei giudici, tanto di primo che di secondo grado, è costituito dal copioso materiale captativo confluito in atti, oltre che da ulteriori evidenze, desunte dall’attività di diretta osservazione e controllo sul territorio eseguita dalle forze dell’ordine.
Peraltro, secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte «in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti
dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento» (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747). In tale condivisa prospettiva ermeneutica, la decisione del giudice di merito non può essere invalidata da ricostruzioni alternative che si risolvano in una «mirata rilettura» degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, COGNOME, Rv. 235507).
Peraltro, nessun elemento di prova, per quanto significativo, può essere interpretato per “brani” né fuori dal contesto in cui è inserito, sicché gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla lor capacità dimostrativa. Sono, pertanto, inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio; Così come sono estranei al sindacato della Corte di cassazione i rilievi in merito al significato della prova ed alla sua capacità dimostrativa (Sez. U, n. 41570 del 25/05/2023, COGNOME, n.m. sul punto, in motivazione).
L’indagine di legittimità può estendersi al contenuto delle singole prove solo quando la contraddittorietà della motivazione risulti da “atti del processo specificamente indicati” (cd. travisamento della prova), vizio configurabile quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia; il relativo vizio ha natura decisiva solo quando determini la frattura logica irreparabile tra la premessa fattuale del ragionamento e la conclusione che ne viene tratta, ovvero se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, COGNOME, Rv. 258774; sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499).
3.1.Nella fattispecie in esame, le censure articolate dalla difesa si muovono secondo direttrici in fatto e tendono ad un diverso esito valutativo sia pure attraverso la deduzione del vizio di travisamento di prova che risulta, in realtà, formulato impropriamente.
Inoltre, la difesa si è limitata ad allegare singoli stralci delle dichiarazioni rese dal collaboratore, e da altri testi, senza considerare che la valutazione di una fonte dichiarativa passa attraverso una lettura complessa delle dichiarazioni tanto che,
allorché venga lamentata l’omessa o travisata valutazione di specifici atti processuali, è onere del ricorrente suffragare la validità del proprio assunto mediante la completa allegazione ovvero la trascrizione dell’integrale contenuto di tali atti, dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto, salvo che il “fumus” del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (Sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017, COGNOME, Rv. 270071; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Rv. 265053) ottenere una diversa valutazione. La Corte territoriale, con la sentenza impugnata, ha effettuato un attento giudizio di attendibilità intrinseca relativamente al collaboratore NOME GiuseppeCOGNOME ritenendo soddisfatti i requisiti di autonomia, spontaneità, precisione, coerenza e costanza delle sue dichiarazioni, particolarmente apprezzate per il loro contributo fornito alla ricostruzione delle dinamiche fondamentali dei sistemi fraudolenti di arricchimento del gruppo criminoso e di riciclaggio dei guadagni illeciti realizzati. Il medesimo collaboratore, inoltre, per la sua attività imprenditoriale nel settore dei trasporti e raccolta di rifiuti, ha focalizzato il suo narrato dichiarativo sull portata del sistema di false fatturazioni, per operazioni inesistenti, con società del Nord Italia, utilizzato per camuffare la concessione di prestiti ad usura.
La sentenza impugnata ha evidenziato: la circostanza riferita dal collaboratore in ordine alla vicinanza del COGNOME ad altri esponenti della cosca criminale, a Romolo COGNOME, innanzitutto, oltre che successivamente ad altri soggetti di rilievo, quali COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, soliti riunirsi in locali nella disponibilità dell’imputato, nonostante fra gli stessi non intercorressero rapporti di lavoro o affari “leciti” comuni; il riferito protagonismo dell’imputato nelle operazioni di false fatturazioni all’interno della cosca, gestito dal medesimo collaboratore; l’avere l’imputato fornito un proprio contributo, attraverso l’agenzia di scommesse sportive, di cui era titolare la moglie, utilizzata per “lavare” denaro di provenienza illecita attraverso il trasferimento di denaro “pulito”, in quanto ottenuto attraverso le vincite, a sodali compiacenti; l’avere l’imputato richiesto l’intermediazione, in suo favore, di COGNOME NOME, personaggio di spicco della “ndrina” di Piacenza, per il recupero di somme a credito nei confronti di COGNOME NOME; l’essersi successivamente rivolto, in altra occasione, a COGNOME NOME, boss della locale di Cutro, per recuperare un altro credito nei confronti del medesimo COGNOME NOME il quale aveva dovuto cedere, in tale occasione, un immobile di sua proprietà a Capo Colonna; l’essersi rivolto a COGNOME NOME, dopo l’interdittiva antimafia a suo carico, per ottenere l’aiuto del COGNOME per la vendita fittizia di mezzi aziendali e di un appartamento che venivano ceduti ad una società riconducibile al medesimo dichiarante per tornare successivamente nella disponibilità dell’imputato, attraverso la moglie; la partecipazione dell’imputato alla cd. “cena delle beffe”, presso un ristorante, ideata all’interno della cosca, con
il contributo del medesimo imputato ( la cui partecipazione veniva sollecitata in particolare da COGNOME), nel corso della quale veniva elaborato un piano di attacco verso le istituzioni in difesa degli imprenditori cutresi così da veicolare l’idea che gli stessi fossero stati ingiustamente colpiti nelle loro attivit commerciali; la successiva partecipazione dell’imputato ad una campagna mediatica, portata avanti attraverso la stampa e televisione ( con un’intervista mandata in onda su Rai 1, sulla rubrica “Speciale Tg1″) nel corso della quale l’imputato affermava il concetto che la vera mafia dovesse essere individuata ” nelle cooperative, nella Camera di Commercio e nella Prefettura” ( pag.27); l’avere l’imputato indicato alla cosca i nominativi di soggetti in difficoltà economica ai fini dell’esercizio dell’attività di usura (27).
Rispetto a tale contributo dichiarativo, la Corte ha, altresì, evidenziato la sussistenza di riscontri obiettivi desunti dal materiale captativo acquisito oltre che attraverso le attività di indagini della p.g. che hanno consentito di accertare i passaggi di proprietà avvenuti fra l’imputato e il COGNOME ( per il tramite della società RAGIONE_SOCIALE); particolare rilievo è stato, correttamente, inoltre attribuito alle dichiarazioni rese da COGNOME NOME, imprenditore usurato dalla cosca, e dalla sua segreteria NOME COGNOME la quale ha riferito in ordine al sistema di false fatturazioni adottato dalla cosca di riferimento per coprire il rilascio di prestiti a condizioni usurarie a terzi soggetti, altresì precisando che una delle società emittenti false fatture era riconducibile a NOME COGNOME presentato, a sua volta, al Gangi proprio dall’imputato.
In conclusione, la motivazione della sentenza impugnata appare “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata, non “manifestamente illogica” in quanto sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica e non internamente “contraddittoria”, in quanto esente da incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute. Infine, non risulta logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” non essendo sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante, o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità ne’ che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. A fronte di tale complesso apparato argomentativo, le doglianze difensive – incentrate sul ripetuto richiamo alla circostanza che il giudice di primo grado aveva ritenuto provata una mera “vicinanza” dell’imputato al gruppo mafioso di riferimento e non una sua partecipazione – non tengono conto dell’implementazione della piattaforma probatoria avvenuta nel giudizio di appello e appaiono inidonee ad
–
evidenziare un profilo di criticità del percorso logico motivazionale seguito dalla Corte di rinvio, suscettibile di assumere rilievo nel presente giudizio, in cui sono censurabili soltanto vizi di omessa, manifesta illogicità o contraddittorietà della stessa. -e
4. GLYPH . !+lanifestamente infondati), infine, anche il quinto ed ultimo motivo con cui la difesa deduce l’insussistenza di una condotta di partecipazione mafiosa e vizio di motivazione in relazione alle dichiarazioni spontanee rese dall’imputato all’udienza del 23 dicembre 2020. La versione rappresentata dall’imputato attraverso le spontanee dichiarazioni è stata ritenuta, con motivazione immune da vizi, priva di effettiva idoneità rappresentativa e non in grado di dimostrare l’estraneità del ricorrente alla cosca calabro emiliana, in quanto diretta ad accreditare l’immagine di un imprenditore vittima di mafia, e non collusa, e tese a fornire una versione dei fatti avulsa dai dati oggettivi a carico, acquisiti attraverso le attività di indagine, soprattutto captativa, con il cui tenore l’imputato non si è confrontato. Anche a tale proposito la motivazione della Corte appare logica e frutto di una interpretazione coerente e priva di smagliatura rispetto a tutti gli elementi confluiti nel compendio probatorio avendo sottolineato l’illogicità della versione fornita dall’imputato anche a proposito della cd. “cena delle beffe” attraverso la considerazione che «se effettivamente COGNOME NOME fosse stato un onesto imprenditore, lontano da qualsivoglia coinvolgimento con la cosca emiliana, non si comprenderebbe il motivo di tata insistenza da parte di COGNOME NOME rispetto alla partecipazione alla cena. Inoltre, le dichiarazioni spontanee di COGNOME sul punto sono smentite dalla circostanza che fu lo stesso a farsi portavoce del gruppo, rilasciando interviste a “Il Resto del carlino ” e a “Rai 1”, e, per tale motivo, a ricevere i complimenti di COGNOME NOME, soggetto certamente intraneo alla cosca”. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
La sentenza impugnata restituisce un quadro indicativo di un inserimento del ricorrente nel clan mafioso di riferimento e si colloca nel solco dell’insegnamento di questa Corte secondo cui «La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si caratterizza per lo stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa dell’associazione, idoneo, per le specifiche caratteristiche del caso concreto, ad attestare la sua ‘messa a disposizione’ in favore del sodalizio per il perseguimento dei comuni fini criminosi» (Sez. U, n.36958 del 27/05/2021, Rv. 281889 – 01), rilevando, a tal fine, tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole d esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi la condotta partecipativa come sopra enucleata, ovvero la «costante permanenza del vincolo nonché la duratura, e sempre utilizzabile, “messa a disposizione” della persona per ogni attività
del sodalizio criminoso», ben potendo la prova dell’intraneità essere desunta, in mancanza di formale affiliazione, anche da “facta concludentia”
(Sez.
5, n. 25838de1 23/07/2020, Rv. 279597 – 02).
5.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. L’imputato deve, inoltre, essere condannato
alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Regione Emilia Romagna, CISL Emilia Romagna, CGIL Camera del
lavoro di Reggio Emilia, CGIL Camera del lavoro di Modena, che si liquidano, per le prime due, in euro 3.600,00, oltre accessori di legge, per ciascuna di esse, e
per le restanti due in complessivi euro 4.320,00 oltre accessori di legge. Deve, invece, rigettarsi la richiesta di liquidazione delle spese presentata dalle altre parti
civili presenti in udienza. Invero, la prima sentenza rescissoria della Corte di appello di Bologna, del 23 dicembre 2020, pur condannando l’imputato, ha tuttavia
rigettato la domanda delle parti civili, diverse dalla Regione Emilia Romagna e dalle organizzazioni sindacali, esprimendosi in modo chiaro e definitivo sul
petitum e negando la fondatezza della pretesa civilistica (definendo il rapporto processuale
con essa introdotto) escludendola oltretutto sulla base non già della insussistenza del fatto, quanto del danno risarcibile. Tale pronuncia avrebbe dovuto imporre una presa di posizione della parte civile, attraverso un’impugnazione così da sottrarre il rigetto della sua domanda alla sorte dell’irrevocabilità (Sez. 3, n. 16492 del 27/11/2020, dep.2021, Rv. 281779 – 01);le suddette parti civili, non avendo proposto impugnazione avverso la sentenza di rigetto della loro richiesta di risarcimento del danno, non sono più legittimate a coltivare l’azione civile nel processo penale e la loro richiesta di liquidazione delle spese deve essere respinta.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Regione Emilia Romagna, CISL Emilia Romagna, CGIL Camera del lavoro di Reggio Emilia, CGIL Camera del lavoro di Modena, che liquida, per le prime due, in euro 3.600,00, oltre accessori di legge, per ciascuna di esse, e per le restanti due in complessivi euro 4.320,00 oltre accessori di legge. Rigetta le richieste delle altre parti civili presenti all’udienza odierna.
Così è deciso, 24/02/2025