Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 31784 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 31784 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 12/06/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMENOME nata a Marcianise il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 28/3/2024 del Tribunale di Napoli
Visti gli atti, l’ordinanza impugnata e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; udita la requisitoria del AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo di rigettare il ricorso; udito l’AVV_NOTAIO, difensore della ricorrente, che ha chiesto di accogliere il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 28 marzo 2024 il Tribunale di Napoli, decidendo a seguito della sentenza di annullamento con rinvio della Seconda Sezione di questa Corte, ha confermato il provvedimento con cui il Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha applicato a NOME COGNOME la misura cautelare interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico servizio in relazione al delitto di truffa aggravata.
Secondo il Giudice della cautela, la ricorrente, grazie alla falsa attestazione del servizio prestato presso l’RAGIONE_SOCIALE di San RAGIONE_SOCIALE Evangelista, apparentemente firmata dal AVV_NOTAIO COGNOME, era stata ammessa a frequentare il corso abilitante presso l’RAGIONE_SOCIALE di Napoli e, superato l’esame finale il 22 gennaio 2008, aveva conseguito l’abilitazione per la classe di concorso A036 e l’inserimento nella relativa graduatoria per l’anno RAGIONE_SOCIALE 2007 – 2008. La ricorrente, inoltre, aveva avuto accesso anche al corso per il conseguimento della specializzazione relativa alle attività di sostegno, conseguendo il relativo titolo il 22 maggio 2009, e, poi, era stata assunta a tempo indeterminato, quale docente di ruolo in prova per un posto di sostegno, con contratto del 26 novembre 2015.
Avverso l’ordinanza rescissoria ha proposto ricorso per cassazione il difensore di NOME COGNOME, che ha dedotto i motivi di seguito indicati.
3.1. Con il primo motivo ha dedotto la violazione dell’art. 414 cod. proc. pen., atteso che vi era stato una precedente archiviazione per il medesimo fatto e non era stata richiesta l’autorizzazione alla riapertura delle indagini. In particolare, il contegno alla base dell’una e dell’altra contestazione sarebbe sempre il medesimo: la condotta decettiva dell’indagata, che le aveva consentito di partecipare al corso per l’abilitazione all’insegnamento. Nel primo procedimento, archiviato per infondatezza della notizia di reato, e nel secondo, ovvero quello in questione, si discuterebbe sempre della medesima falsa attestazione. Trattandosi dello stesso fatto, sia pure diversamente qualificato, ma, comunque, afferente all’asserita falsificazione della certificazione a firma apparente del profAVV_NOTAIO COGNOME, il difetto di autorizzazione alla riapertura del indagini avrebbe determinato l’inutilizzabilità degli atti, eventualmente compiuti dopo il provvedimento di archiviazione, e l’improcedibilità dell’azione penale per lo stesso fatto di reato da parte del medesimo Ufficio del RAGIONE_SOCIALE.
3.2. Con il secondo motivo ha dedotto la violazione degli artt. 274, 275 e 192 cod. proc. pen., essendo stata affermata la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza sulla base di elementi insufficienti, quali: l’inesistenza del fascicolo personale dell’indagata presso l’RAGIONE_SOCIALE Statale “RAGIONE_SOCIALE di lavoro” di Caserta, dove erano confluiti gli atti dell’RAGIONE_SOCIALE “RAGIONE_SOCIALE“, presso cui l’indagata avrebbe prestato servizio; l’assenza di contribuzione, versata in favore della ricorrente negli anni scolastici in argomento; le dichiarazioni testimoniali, rese da colleghi
di lavoro della stessa, che non avevano ricordato la sua presenza presso l’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE“. Secondo la ricorrente, i primi due elementi sarebbero stati determinati dalla negligenza dell’RAGIONE_SOCIALE” nella tenuta dei registri e nell’adempimento degli obblighi, mentre la teste COGNOME aveva dichiarato di non avere alcun ricordo dell’indagata ma non aveva mai escluso che quest’ultima avesse insegnato presso l’anzidetto RAGIONE_SOCIALE. Di contro, l’espletamento del servizio sarebbe confermato dall’indicazione dell’indagata nell’interlocuzione epistolare fra RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, quale presidente della commissione di esami negli anni del prestato servizio. Il Tribunale amministrativo regionale, inoltre, aveva annullato il provvedimento amministrativo con il quale l’indagata era stata destituita dal proprio incarico a seguito della revoca della sua abilitazione all’insegnamento, in quanto l’istruttoria amministrativa (basata sulla mancanza del fascicolo personale e della comunicazione di assunzione, oltre che dei contributi versati) era stata reputata lacunosa. Difetterebbero anche le esigenze cautelari, atteso che la condotta risalirebbe al 2002 – 2003 e la ricorrente sarebbe stata assunta con un contratto a tempo indeterminato in data 26 novembre 2015.
3.3. Con il terzo motivo è stata dedotta l’erronea applicazione dell’art. 640, comma secondo, cod. pen. in relazione alla definizione di danno profitto, determinato dall’ipotesi specifica della truffa a consumazione prolungata, con conseguente violazione degli artt. 157 cod. pen. e 2126 cod. civ. In particolare, la qualificazione dei fatti come reato a consumazione prolungata, operata nel provvedimento impugnato, sarebbe in contrasto con due pronunce di questa Corte (n. 35320/2013 e n. 12791/2021) e il momento della consumazione del reato, da cui far decorrere il termine iniziale di maturazione della prescrizione, sarebbe quello della costituzione del rapporto impiegatizio. La ricorrente ha chiesto, inoltre, di rimettere alle Sezioni unite il contrasto esistente in tema d truffa commessa in assunzioni nel pubblico impiego.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo, con cui è stata dedotta la violazione dell’art. 414 cod. proc. pen., è manifestamente infondato.
2.1. Al fine dell’esame dell’anzidetta doglianza, appare utile ripercorrere l’iter, avuto dal procedimento in esame prima dell’odierno ricorso.
Con ordinanza del 20 giugno 2023, il Tribunale di Napoli, su appello presentato da NOME COGNOME, aveva annullato la misura cautelare applicatale
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dal Giudice per le indagini preliminari, avendo ritenuto che «le indagini … avrebbero potuto essere svolte solo previa autorizzazione alla riapertura delle stesse da parte del Giudice per le indagini preliminari sammaritano ai sensi dell’art. 414 cod. proc. pen., trattandosi delle stesse condotte originariamente ritenute penalmente irrilevanti (autocertificazione di originalità della fals attestazione del AVV_NOTAIO COGNOME) o, comunque, ad esse strettamente connesse (falsa attestazione a firma del responsabile AVV_NOTAIO COGNOME)».
Avverso tale provvedimento aveva proposto ricorso per cassazione il AVV_NOTAIO della Repubblica del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che aveva dedotto l’inosservanza della legge penale, avendo il Tribunale napoletano errato nel ritenere che le indagini avessero ad oggetto le medesime condotte interessate da un precedente decreto di archiviazione. In realtà, secondo il ricorrente, le risultanze investigative avevano avuto ad oggetto fatti diversi, ancorché connessi a quelli oggetto della precedente indagine archiviata. Il quid novi era rappresentato dal nuovo esposto del AVV_NOTAIO RAGIONE_SOCIALE a seguito della ripresa del servizio da parte di NOME COGNOME dopo la pronuncia del Tribunale amministrativo regionale, che aveva annullato il provvedimento adottato dall’Ufficio RAGIONE_SOCIALE regionale nei confronti dell’odierna ricorrente. A differenziare le due indagini nei confronti di NOME COGNOME vi era poi la circostanza che la prima di esse aveva ad oggetto la presunta falsità dell’autocertificazione relativa al servizio prestato negli anni scolastici, mentre la seconda indagine riguardava la veridicità della certificazione del servizio sottoscritta dal AVV_NOTAIO RAGIONE_SOCIALE e rilasciata all’indagata, certificazion prodotta in copia, la cui conformità all’originale era stata attestata dalla stessa indagata.
La Seconda Sezione di questa Corte, con sentenza n. 48345 del 2 novembre 2023, ha annullato con rinvio il provvedimento impugnato, osservando che «la laconica espressione», usata dal Tribunale nel provvedimento impugnato, lasciava aperto il dubbio sulla unicità o diversità delle indagini. «Se, come sostiene il RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE nel proprio ricorso (pg. 7), l’indagine aveva ad oggetto l’accertamento della veridicità della certificazione di servizio sottoscritta dal AVV_NOTAIO RAGIONE_SOCIALE AVV_NOTAIO, rilasciata all’indagata COGNOME, pare difficilmente sostenibile che vi sia identità dell’oggetto di indagine sol perché, per usare le parole del ricorso (come sopra riportate) si tratti di “condotte … strettamente connesse”. L’espressione, che cela una implicita contraddizione, è in conflitto con la giurisprudenza di legittimità, che in materia di “medesimezza” o identità delle indagini ai fini dell’art. 414 cod. proc. pen. ha anche di recente chiarito che “quando la richiesta di archiviazione del RAGIONE_SOCIALE ministero non abbia investito la notizia di reato nella sua interezza, ma abbia riguardato solo una
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parte di essa e, segnatamente, una parte delle prospettate qualificazioni giuridiche in relazione alle quali si sia proceduto alla iscrizione, non sussiste la necessità dell’autorizzazione alla riapertura delle indagini per il reato che non aveva formato oggetto della predetta richiesta di archiviazione e per il quale lo stesso RAGIONE_SOCIALE ministero aveva, invece, ritenuto di esercitare l’azione penale (Sez. 5, n. 18690 del 21/03/2022 Imp. Raucci Rv. 283015 – 01). Condizione, quella rappresentata nella sentenza ora menzionata, che pare materializzarsi nel caso concreto, data la differente prospettiva investigativa che ha ad oggetto una diversa fattispecie (il falso materiale della certificazione a firma apparente AVV_NOTAIO COGNOME) e una diversa ipotesi di reato (truffa aggravata)».
Alla luce del criterio indicato dalla sentenza rescindente, al fine di sciogliere il nodo sulla necessità o meno dell’autorizzazione per la riapertura delle indagini, dopo il precedente decreto di archiviazione, il Tribunale, nel provvedimento rescissorio, ha osservato che tale autorizzazione non era necessaria, atteso che «rispetto ai reati oggetto della precedente indagine, conclusasi con decreto di archiviazione, vi è una diversa prospettiva investigativa che ha ad oggetto una diversa fattispecie (il falso materiale della certificazione a firma apparente AVV_NOTAIO COGNOME) e una diversa ipotesi di reato (la truffa aggravata). Per tali ragioni, no vi è alcuna medesimezza o identità di indagini ai fini dell’art. 414 cod. proc. pen., secondo l’interpretazione che di tale nozione offre la giurisprudenza di legittimità».
2.2. Tale decisione del Tribunale è corretta.
Il procedimento conclusosi con decreto di archiviazione, secondo quanto indicato dalla stessa ricorrente (v. pagina 10 del ricorso, ove si afferma che si procedeva per i reati di cui all’art. 483 cod. pen. e 76 d.P.R. n. 445/2000) e come evidenziato dal RAGIONE_SOCIALE ministero nel precedente ricorso per cassazione proposto, aveva ad oggetto la falsità dell’autocertificazione relativa al servizio prestato negli anni scolastici. Il procedimento in questione, invece, riguarda la veridicità della certificazione del servizio sottoscritta dal AVV_NOTAIO RAGIONE_SOCIALE rilasciata all’indagata, certificazione prodotta in copia, la cui conformità all’originale era stata attestata dalla stessa indagata.
A tale ipotesi di reato, nel presente procedimento, si aggunge un altro reato, ossia la truffa, che, contrariamente a quanto pare sostenere la ricorrente, concorre con il falso. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte (Sez. 5, n. 2935 del 5/11/2018, Manzo, Rv. 274589 – 02), infatti, è configurabile il concorso materiale – e non l’assorbimento – tra il reato di falso in atto pubblico e quello di truffa quando la falsificazione costituisca artificio pe commettere la truffa; in tal caso, infatti, non ricorre l’ipotesi del reato complesso per la cui configurabilità non è sufficiente che le particolari modalità di
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realizzazione in concreto del fatto tipico determinino una occasionale convergenza di più norme e, quindi, un concorso di reati, ma è necessario che sia la legge a prevedere un reato come elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro.
Nel caso in esame, quindi, vengono in rilievo ipotesi di reato diverse, così che non vi era necessità alcuna di chiedere l’autorizzazione alla riapertura delle indagini.
Secondo la ricorrente, invece, si tratterebbe sempre del medesimo, identico fatto. Il contegno alla base dell’una o dell’altra contestazione sarebbe sempre il medesimo: la condotta decettiva dell’indagata, che le aveva consentito di partecipare al corso per l’abilitazione all’insegnamento. Nel primo procedimento, archiviato per infondatezza della notizia di reato, e nel secondo procedimento, ovvero quello in questione, si discuterebbe sempre della medesima falsa attestazione.
Le deduzioni della ricorrente non possono essere condivise.
E’ chiaro che le condotte, oggetto dell’uno e dell’altro procedimento, sono concatenate e finalizzate all’assunzione dell’indagata a tempo indeterminato nella scuola. In tema di indagini e di necessità di autorizzazione alla riapertura delle stesse, però, ciò che rileva è il fatto come fenomeno giuridico e non storico, cui, invece, pare alluere la ricorrente. In altri termini, il parametro, a cui v commisurata l’identità del fatto, che impone al pubblico ministero di chiedere l’autorizzazione alla riapertura delle indagini, ha diretta attinenza alle ipotesi d reato, oggetto di investigazione, e non al fatto storico, tant’è vero che l’art. 414 cod. proc. pen. non solo fa riferimento alle nuove investigazioni (e le investigazioni hanno ad oggetto ipotesi di reato) ma richiama anche l’art. 335 cod. proc. pen., laddove dispone che, autorizzata la riapertura delle indagini, il pubblico ministero procede a nuova iscrizione e ciò che si iscrive è, per l’appunto, un’ipotesi di reato e non un fatto.
Alla luce di quanto precede deve affermarsi, quindi, che correttamente è stata rigettata l’eccezione difensiva relativa all’inutilizzabilità degli atti procedimento, in difetto dell’autorizzazione alla riapertura delle indagini.
Anche il secondo motivo del ricorso, relativo alla contestata sussistenza dei presupposti applicativi della misura cautelare, deve essere disatteso.
Il Tribunale ha ravvisato la gravità indiziaria in ordine ai delitti ascri provvisoriamente alla ricorrente, avendo ritenuto accertata la falsità della documentazione, relativa all’espletamento di attività presso l’RAGIONE_SOCIALE Caserta, utilizzata per conseguire l’abilitazione
all’insegnamento e, di conseguenza, essere nominata insegnante di ruolo con contratto a tempo indeterminato.
Tale falsità è stata desunta: dal mancato rinvenimento del fascicolo personale della ricorrente presso l’anzidetto RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE di Caserta, relativo all’attività professionale che la medesima avrebbe svolto negli anni scolastici oggetto di accertamento; dall’assenza di contribuzione in suo favore nel periodo in argomento e dalle dichiarazioni testimoniali rese dai colleghi di lavoro della donna, che non ne avevano ricordato la presenza. Elementi, questi, non contrastati in modo efficace dalla difesa.
Quanto alle esigenze cautelari, la qualificazione della condotta come reato a consumazione prolungata rendeva evidente la concretezza del pericolo di reiterazione di reati, collocando all’attualità la protrazione della condotta.
A fronte delle argomentazioni formulate nel provvedimento impugnato, le censure sollevate dalla ricorrente sono tese ad ottenere una ricostruzione del quadro probatorio alternativa rispetto a quella congrua cui è pervenuto il Giudice della cautela.
Non è superfluo allora ribadire il consolidato insegnamento di questa Corte secondo cui, in tema di misure cautelari personali, il ricorso per cassazione, che deduca l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza o l’assenza delle esigenze cautelari, è ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando propone censure che riguardano la ricostruzione dei fatti, o che si risolvono in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice di merito (Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, Audino, Rv. 215828 – 01; Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Paviglianiti, Rv. 270628 – 01).
Correlativamente, allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, un vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del RAGIONE_SOCIALE in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza o alla sussistenza delle esigenze cautelari, alla Corte suprema spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che a esso ineriscono, s il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni della decisione, controllando la congruenza della motivazione rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie.
Oneri motivazionali, questi, rispettati dal RAGIONE_SOCIALE, che ha reso una motivazione non inficiata da errori di diritto o vizi logici.
L’ultimo motivo del ricorso, con cui si è censurata la qualificazione giuridica dei fatti, è manifestamente infondato.
Al riguardo giova premettere che, secondo il consolidato orientamento di legittimità, i poteri del giudice di rinvio sono diversi a seconda che l’annullamento sia stato pronunciato per violazione o erronea applicazione della legge penale, oppure per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, giacché, mentre nella prima ipotesi il giudice è vincolato al principio di diritto espresso dalla Corte di cassazione, restando ferma la valutazione dei fatti come accertati nel provvedimento impugnato, nella seconda ipotesi può effettuare un nuovo esame del compendio probatorio con il limite di non ripetere i vizi motivazionali del provvedimento annullato (Sez. 5, n. 24133 del 31/05/2022, RAGIONE_SOCIALE della Giustizia, Rv. 283440 – 01; Sez. 3, n. 7882 del 10/01/2012, COGNOME, Rv. 252333 – 01).
Siffatta delimitazione dell’ambito della devoluzione dispiega, all’evidenza, simmetrica rilevanza nella valutazione dell’impugnazione del provvedimento emesso nel giudizio di rinvio.
Con particolare riferimento all’annullamento per violazione di legge deve ricordarsi che il penultimo comma dell’art. 544 cod. proc. pen. dispone che «il giudice di rinvio giudica sui punti che furono oggetto dell’annullamento con gli stessi poteri che aveva il giudice la cui sentenza fu annullata, salve le limitazioni stabilite dalla legge», che vanno correlate al principio dell’inderogabilità ed insindacabilità delle decisioni di legittimità.
Come già affermato da questa Corte (Sez. 1, n. 710 del 15/03/1989, Costa, Rv. 181909 – 01), una di tali limitazioni riguarda i poteri decisionali del giudice di rinvio, che è obbligato «ad uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa». Limitazione, questa, che può venir meno solo in caso di intervenuto mutamento del fatto rispetto a quello tenuto presente nella sentenza di annullamento. Può, infatti, verificarsi il caso che, disposti nuovi accertamenti ed acquisite nuove prove, intervenga un mutamento degli elementi fattuali della fattispecie rispetto a quelli pendenti e, in tal caso, il giudice di merito può dare al fatto una diversa qualificazione giuridica ovvero risolvere le eventuali nuove questioni di diritto insorte senza essere vincolato dalla sentenza di annullamento.
Nel caso in esame, la sentenza rescindente ha qualificato i fatti come truffa a consumazione prolungata, rilevando, in particolare, che nella giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, n. 36278 del 16/09/2022, COGNOME, Rv. 283884 – 01; Sez. 2, n. 2576 del 17/12/2021, COGNOME, Rv. 282436 – 01), «per descrivere le ipotesi in cui all’inganno iniziale faccia seguito una serie di erogazioni vuoi nell’ambito di un rapporto di natura pubblicistica, vuoi nell’ambito dei rapporti tra privati, si fatto ricorso alla categoria concettuale della “truffa a consumazione prolungata”. L’enfasi è posta in tal caso sul fatto che, per effetto dell’originario inganno, l’ent
pubblico o il privato sia tenuto ad una serie (definita o indefinita) di erogazioni periodiche, collegate o meno allo svolgimento di una qualche prestazione sinallagmatica da parte del truffatore. Ciascuna di tali erogazioni integra il danno (conseguente al profitto illecito) richiesto dall’art. 640 cod. pen. quale elemento costitutivo del reato, così da “rinnovare” periodicamente il reato con conseguente differimento dell’incipit del tempo necessario alla prescrizione.
Nel caso specifico, la condotta dell’imputata – secondo la sentenza rescindente – ha generato effetti persistenti, in quanto causalmente utile alla formalizzazione di un rapporto pubblicistico stabile, dal quale derivava, pur a fronte dell’erogazione di una prestazione lavorativa (sinallagmatica, senza dubbio, ma non per questo idonea ad elidere l’illiceità iniziale), l’erogazione di emolumenti stipendiali e previdenziali indebiti. Si è verificata con ciò la protrazione nel tempo della situazione illecita, con la conseguenza che il reato perdura e comporta periodicamente un evento di danno per la persona offesa e un corrispondente evento di profitto per l’autrice.
La Corte della legittimità ha aggiunto che, vertendosi in ipotesi di erogazioni pubbliche a versamento rateizzato, riconducibili a un originario e unico comportamento fraudolento, e non in ipotesi di plurimi ed autonomi fatti di reato, che si configurano quando, per il conseguimento delle erogazioni successive alla prima, sia necessario il compimento di ulteriori attività fraudolente, ne conseguiva che, ai fini della prescrizione, il relativo termine decorre dalla percezione dell’ultima rata di finanziamento.
Questi rilievi, attinenti alla qualificazione del fatto e al termine prescrizione, in difetto di sopravvenuti elementi fattuali, erano vincolanti per il Tribunale, che, infatti, ad essi si è adeguato e ha ritenuto non maturata la prescrizione, in presenza di una truffa a consumazione prolungata.
Il vincolo in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, derivante dalla sentenza rescindente, comporta che, nel caso in esame, non ha rilievo alcuno il dedotto contrasto esistente in tema di truffa commessa in assunzioni nel RAGIONE_SOCIALE impiego, con la correlata richiesta di rimessione della questione alle Sezioni unite.
In definitiva, il ricorso è inammissibile e ciò comporta, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché – non sussistendo ragioni di esonero – della somma di euro tremila, equitativamente determinata, in favore della Cassa delle ammende a titolo di sanzione pecuniaria.
7. La Cancelleria è onerata di effettuare gli adempimenti di cui all’art. 28 Reg. esec. cod. proc. pen.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 28 Reg. esec. cod. proc. pen.
Così deciso il 12/6/2024