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Revoca misura alternativa: il divieto di 3 anni

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un condannato avverso il diniego di misure alternative. La decisione si fonda sulla legittimità della norma che impone un divieto di tre anni per richiedere nuovi benefici dopo la revoca misura alternativa, considerandola una scelta non irragionevole del legislatore e non in contrasto con la funzione rieducativa della pena.

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Pubblicato il 17 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Revoca Misura Alternativa: Legittimo il Divieto di 3 Anni per Nuove Richieste

Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su una questione cruciale nell’ambito dell’esecuzione della pena: il divieto triennale di accedere a nuove misure alternative a seguito della revoca misura alternativa precedentemente concessa. La Corte ha ribadito la piena legittimità costituzionale di tale preclusione, respingendo le censure sollevate da un condannato.

I Fatti del Caso

Un uomo, condannato in via definitiva, si era visto revocare una misura alternativa con un provvedimento del Tribunale di Sorveglianza. Successivamente, aveva presentato nuove istanze per ottenere l’affidamento in prova e la detenzione domiciliare. Il Presidente del Tribunale di Sorveglianza competente dichiarava tali richieste inammissibili, poiché non era ancora trascorso il periodo di tre anni dalla precedente revoca, come previsto dall’art. 58-quater dell’Ordinamento Penitenziario.

Contro questa decisione, il condannato proponeva ricorso per Cassazione, sollevando una questione di legittimità costituzionale della norma ostativa, ritenendola in contrasto con la funzione rieducativa della pena.

La Questione della Preclusione dopo la Revoca Misura Alternativa

Il cuore della controversia risiede nell’articolo 58-quater dell’Ordinamento Penitenziario. Questa disposizione stabilisce che un condannato, al quale sia stata revocata una misura alternativa, non può presentare una nuova richiesta per gli stessi benefici per un periodo di tre anni.

Il ricorrente sosteneva che questo automatismo fosse irragionevole e lesivo del principio costituzionale secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. A suo avviso, la norma creerebbe una presunzione assoluta di inaffidabilità, impedendo una valutazione attuale e personalizzata della sua situazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato e, di conseguenza, inammissibile. I giudici hanno chiarito che la questione di legittimità costituzionale era già stata affrontata e risolta in passato dalla Corte Costituzionale, che ha sempre ritenuto la norma conforme alla Costituzione.

Le Motivazioni della Decisione

La Cassazione ha spiegato che la preclusione triennale non è una misura irragionevole, ma rappresenta una scelta ponderata del legislatore. La revoca misura alternativa non è un evento casuale, ma la conseguenza di specifiche condotte del condannato che violano le prescrizioni imposte. Pertanto, il divieto non si basa su presunzioni legate al tipo di reato commesso o allo status di recidivo, ma sul percorso concreto del soggetto durante l’esecuzione della pena.

La Corte ha inoltre sottolineato come la normativa si sia evoluta. Oggi, di fronte a una violazione, il giudice di sorveglianza non ha come unica opzione la revoca. Può, infatti, disporre la prosecuzione della misura o la sua sostituzione con un’altra, riservando la revoca ai casi di violazione più grave. Questo rende la decisione di revocare un atto che certifica un fallimento significativo nel percorso rieducativo, giustificando così la preclusione temporanea a nuovi benefici.

Il rigore della disciplina, secondo la Corte, rientra nella discrezionalità del legislatore, al quale spetta valutare se e come attenuare tale divieto. La preclusione è quindi espressione di un bilanciamento tra la funzione rieducativa della pena e l’esigenza di responsabilizzare il condannato rispetto agli impegni assunti con la concessione della misura alternativa.

Le Conclusioni

L’ordinanza conferma un principio consolidato: la revoca misura alternativa comporta una conseguenza seria e non eludibile, ovvero l’impossibilità di accedere a benefici simili per un triennio. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma di 3.000 euro in favore della Cassa delle ammende. Questa decisione riafferma che la fiducia concessa dallo Stato attraverso le misure alternative deve essere corrisposta con un comportamento responsabile, la cui violazione giustifica un periodo di ‘sospensione’ dall’accesso a ulteriori benefici.

È possibile richiedere una nuova misura alternativa subito dopo che una precedente è stata revocata?
No, l’art. 58-quater dell’Ordinamento Penitenziario prevede un periodo di preclusione di tre anni. Durante questo lasso di tempo, il condannato non può presentare nuove istanze per ottenere gli stessi benefici.

Il divieto di tre anni dopo la revoca di una misura alternativa è contrario alla Costituzione?
No. Secondo la Corte di Cassazione, che richiama precedenti sentenze della Corte Costituzionale, questa preclusione è una scelta discrezionale e non irragionevole del legislatore, non in contrasto con la funzione rieducativa della pena, poiché consegue a un comportamento negativo del condannato stesso.

Quali sono le conseguenze se un ricorso contro il diniego basato su questa preclusione viene dichiarato inammissibile?
Il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di denaro (in questo caso, tremila euro) in favore della Cassa delle ammende, data la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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