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Revoca della confisca: quando il ricorso è inammissibile

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21985/2024, ha dichiarato inammissibile un ricorso per la revoca della confisca di due immobili. I ricorrenti avevano invocato una sentenza della Corte Costituzionale non pertinente al loro caso. La confisca originale era stata disposta per pericolosità sociale legata a proventi da attività delittuosa, una base legale non intaccata dalla pronuncia costituzionale citata. La Corte ha quindi confermato la decisione, condannando i ricorrenti al pagamento delle spese.

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Pubblicato il 22 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Revoca della Confisca: La Cassazione Chiarisce i Limiti dell’Appello

La revoca della confisca è un istituto giuridico che consente di annullare gli effetti di una misura patrimoniale. Tuttavia, l’istanza deve fondarsi su presupposti giuridici solidi e pertinenti. La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 21985 del 2024, offre un chiaro esempio di come un ricorso basato su un’errata interpretazione normativa sia destinato all’inammissibilità, con conseguente condanna alle spese.

I Fatti di Causa: La Richiesta di Revoca della Confisca

Il caso trae origine dalla richiesta di due soggetti di ottenere la revoca di un provvedimento di confisca emesso anni prima su due immobili di loro proprietà. La confisca era stata disposta dal Tribunale come misura di prevenzione, avendo accertato la pericolosità sociale di uno dei due, ritenuto soggetto dedito abitualmente a commettere delitti per trarne profitto.
I ricorrenti, nel tentativo di ottenere la restituzione dei beni, hanno presentato un’istanza basandola sugli effetti di una nota sentenza della Corte Costituzionale, la n. 24/2019, sostenendo che questa avesse fatto venire meno la base legale della confisca originale. La Corte d’appello di L’Aquila, però, aveva già rigettato la loro richiesta, confermando la decisione del Tribunale di Pescara.

L’Analisi della Corte d’Appello sulla Revoca della Confisca

La Corte di Cassazione ha confermato la correttezza della decisione dei giudici di merito. Il punto cruciale della controversia risiedeva nell’esatta individuazione della norma su cui si fondava la confisca originaria. La Corte ha chiarito che il provvedimento ablatorio era stato emesso sulla base della categoria di pericolosità sociale prevista dall’art. 1, comma 1, n. 2, della Legge 1423/1956 (oggi confluita nell’art. 1, lett. b, del D.Lgs. 159/2011). Questa norma si riferisce a “coloro che per condotta e tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 24/2019, invocata dai ricorrenti, aveva invece dichiarato l’illegittimità costituzionale di una diversa fattispecie di pericolosità, ovvero quella basata su meri sospetti o sulla presunzione di appartenenza a determinate associazioni. Di conseguenza, tale pronuncia non aveva alcun impatto sulla legittimità della confisca disposta nel caso di specie, che si basava su un accertamento concreto e fattuale della provenienza illecita dei redditi.

Le Motivazioni della Decisione

La Suprema Corte ha dichiarato i ricorsi inammissibili per diverse ragioni. In primo luogo, ha evidenziato la manifesta infondatezza delle argomentazioni difensive, che si basavano su un’errata interpretazione e applicazione della citata sentenza della Corte Costituzionale. Il provvedimento impugnato aveva infatti correttamente escluso la pertinenza di tale pronuncia.

In secondo luogo, i giudici hanno stigmatizzato la modalità di presentazione del ricorso, definendolo “caotico e scarsamente comprensibile”. La difesa aveva insistito sull’erroneo presupposto che la pericolosità sociale fosse stata attribuita per una categoria diversa da quella effettivamente contestata e accertata. La Corte ha ribadito che la motivazione del provvedimento originale era completa e adeguata, avendo accertato che il soggetto, in un determinato arco temporale, aveva tratto il proprio unico o principale reddito da attività delittuose commesse abitualmente.

Conclusioni: L’Inammissibilità del Ricorso e le Implicazioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale: per ottenere la revoca della confisca, non è sufficiente invocare una generica evoluzione normativa o giurisprudenziale, ma è necessario dimostrare che tale evoluzione incida specificamente sulla base giuridica del provvedimento originario. Un ricorso che manchi di centrare questo punto cruciale, e che si presenti confuso e basato su presupposti errati, non solo non ha possibilità di successo, ma espone i ricorrenti alla condanna per le spese processuali e al pagamento di una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende, come avvenuto nel caso di specie.

Perché è stata respinta la richiesta di revoca della confisca?
La richiesta è stata respinta perché si basava su una sentenza della Corte Costituzionale (n. 24/2019) non pertinente al caso specifico. La confisca originale era fondata sulla pericolosità sociale derivante da proventi di attività delittuose, una base legale che la sentenza citata non ha modificato.

Su quale presupposto era stata disposta la confisca originale?
La confisca era stata disposta in base alla qualifica del soggetto come persona socialmente pericolosa, in quanto si riteneva, sulla base di elementi di fatto, che vivesse abitualmente con i proventi di attività delittuose, secondo quanto previsto dalla legge sulle misure di prevenzione.

Quali sono state le conseguenze per i ricorrenti dopo la decisione della Cassazione?
La Corte di Cassazione ha dichiarato i ricorsi inammissibili e ha condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e di una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende, a causa della colpa nell’aver proposto un ricorso infondato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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