Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 46282 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 46282 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 29/11/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nato a San Cipriano D’Aversa il 10/07/1941
COGNOME NOME nata a Noia il 09/03/1941
NOME nato a San Cipriano D’Aversa il 30/05/1974
NOME NOME nata a Caserta il 11/01/1973
avverso il decreto del 24/04/2024 della Corte di appello di Napoli visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto di rigettare i ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con il decreto impugnato la Corte di appello di Napoli ha confermato, per quanto qui interessa, i decreti del 30 settembre 2019, 24 maggio 2021 e 28 gennaio 2022 con i quali il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha respinto l’istanza di revoca, ex art. 7 legge n. 1423 del 1956, della misura di prevenzione
patrimoniale della confisca disposta, ai sensi dell’art. 1 legge n. 575 del 1965, nei confronti di NOME NOME, quale persona indiziata di appartenere alla associazione camorristica dei cd. “casalesi”, misura avente ad oggetto i beni di proprietà dello stesso NOME o ritenuti nella sua disponibilità, benché formalmente intestati, tra gli altri, alla moglie NOME, ai figli NOME e NOME, nonché alla moglie di quest’ultimo NOME
Avverso il provvedimento ricorrono, con il medesimo atto a firma dei comuni difensori, il proposto NOME COGNOME, nonché i terzi intestatari dei beni confiscati –NOME, brio NOME, NOME anche nella veste di erede di NOME NOME (deceduto il 12 dicembre 2023) – articolando due motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Il primo motivo denuncia violazione di legge, evocando l’efficacia preclusiva svolta dalle sentenze di assoluzione rispetto alla sussistenza del requisito soggettivo per l’applicazione della misura di prevenzione.
2.1.1. Si sostiene che la confisca di prevenzione in rassegna è fondata sulla ritenuta appartenenza di NOME COGNOME alla associazione camorristica detta dei “casalesi”.
I fatti storici ai quali è stata ancorata la misura di prevenzione patrimoniale hanno formato oggetto di processi penali a carico di NOME COGNOME imputato dei reati di partecipazione ad associazione mafiosa, di concorso esterno in associazione mafiosa, di estorsione, di riciclaggio e intestazione fittizia.
Tutti i processi di cognizione si sono conclusi con sentenze irrevocabili di assoluzione che hanno accertato, in via definitiva, l’insussistenza di quei medesimi fatti storici posti a base delle misure di prevenzione.
A differenza di quanto ritenuto dalla Corte di appello, non si tratta di interpretare diversamente la rilevanza probatoria delle condotte in ambito di cognizione e in ambito di prevenzione ma di impedire che le emergenze fattuali escluse dal giudice della cognizione possano, invece, ritenersi esistenti nell’ambito della prevenzione.
Il ricorrente pone l’accento, in particolare, sulle sentenze di seguito indicate.
2.1.2. La pronuncia, resa dalla Corte di appello di Napoli il 20 settembre 2020 nel procedimento “Il Principe”, ha accertato che NOME Gaetano non avrebbe fornito “un solo metro cubo di calcestruzzo per le opere realizzate in detta iniziativa imprenditoriale” tanto da pervenire alla declaratoria di assoluzione dal delitto di cui agli artt. 110, 416-bis cod. pen.
A differenza di quanto affermato dal giudice investito della revoca, il giudice che ebbe ad applicare la misura di prevenzione non era a conoscenza
dell’assoluzione, poiché, nell’indicare l’esito del processo “Il Principe”, fa riferimento a una condanna.
Non condurrebbe a diversa conclusione la sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 18 luglio 2023 che ha prosciolto NOME COGNOME e la moglie NOME dal delitto di cui all’art. 12 quinquies d.l. n. 306 del 1992, perché estinto per prescrizione, previa esclusione della aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. Le affermazioni incidentali, contenute in questa sentenza, sulla valenza accusatoria delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, non possono, per la natura incidentale delle stesse, superare il dato della esclusione di un apporto concorsuale esterno dello Iorio al clan quale oggetto dell’accertamento principale svolto dalla sentenza cd. “Il Principe” (peraltro basata sul medesimo materiale probatorio), né possono costituire salde basi decisorie in quanto gli imputati hanno impugnato la dichiarazione di prescrizione reclamando una assoluzione nel merito.
2.1.3. La sentenza di assoluzione resa in data 10 aprile 2014 all’esito del processo cd. Spartacus 1.
COGNOME NOME, chiamato a rispondere del reato di partecipazione ad associazione mafiosa, è stato condannato in primo e secondo grado per “concorso esterno”; a seguito dell’annullamento della condanna ad opera della Corte di cassazione, il giudice di rinvio ha assolto l’imputato.
La condotta concorsuale di NOME era collegata alla esistenza di utilità derivanti dalla partecipazione del consorzio RAGIONE_SOCIALE.
Nel processo di cognizione la Corte di cassazione aveva incaricato il giudice di rinvio di verificare se NOME fosse un concorrente esterno del clan oppure una vittima, costretta a versare tangenti al clan.
Il giudice di rinvio era pervenuto ad una assoluzione in mancanza di prova circa “l’esistenza dello scambio sinallagmatico di reciproca utilità che aveva originato l’imputazione”.
Nel procedimento di prevenzione, il decreto impugnato rilegge la decisione dalla quale trae elementi a sostegno della appartenenza di COGNOME al clan camorristico, finendo per sovvertire immotivatamente l’accertamento compiuto dal giudicato penale: il giudice della cognizione ha escluso che COGNOME traesse vantaggi dalla partecipazione al consorzio, dal che discende l’assenza di qualunque collegamento giuridicamente rilevante in termini di appartenenza alla associazione mafiosa.
In merito al favoreggiamento della latitanza del boss NOME COGNOME il giudice della prevenzione avrebbe richiamato in maniera generica le dichiarazioni dei
i
collaboratori di giustizia (ritenute prive di riscontri esterni individualizzanti dal giudice della cognizione), senza alcun concreto ed effettivo approfondimento.
2.1.4. I difensori dei ricorrenti svolgono poi ulteriori considerazioni sul fronte del travisamento della prova in cui sarebbe incorso il giudice di merito circa la disamina di vari accadimenti.
2.2. Il secondo motivo attiene alla denuncia di violazioni di legge quanto al rigetto della istanza di revoca formulata dai terzi interessati.
Si sostiene che figli e moglie del proposto disponessero di proprie autonome entrate patrimoniali idonee a consentire l’acquisto dei beni loro intestati.
2.2.1. NOME aveva costituito la società RAGIONE_SOCIALE con capitale iniziale di 10mila euro, versato grazie alle risorse familiari, che comprendevano anche una cospicua eredità ricevuta dalla moglie.
Detta società aveva acquistato il capannone oggetto di confisca mediante accensione di un mutuo, le cui rate venivano onorate impiegando i compensi percepiti a titolo di locazione dell’immobile stesso.
Il decreto impugnato omette del tutto di valutare “i momenti essenziali della vicenda patrimoniale”, senza neppure dare seguito alla richiesta difensiva di istituire perizia contabile.
Inoltre NOME era stato assolto all’esito di un processo penale a suo carico per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa. In quel processo era stato espletato un accertamento peritale che definiva la posizione economica dell’imputato “congrua” rispetto alle accumulazioni rilevate.
La risposta fornita sul tema dalla Corte di appello, che ha ritenuto irrilevante la circostanza, sarebbe meramente apparente.
2.2.2. La decisione sulle posizioni dei terzi intestatari si porrebbe in conflitto con quella assunta in altro procedimento di prevenzione, all’esito del quale è stata disposta la revoca ex tunc della confisca inizialmente adottata nei confronti di NOME SalvatoreCOGNOME revoca che, secondo i ricorrenti, “destruttura qualsiasi valutazione necessaria alla riconducibilità a brio Gaetano del patrimonio di terzi”.
2.2.3. Risulterebbe completamente omessa la motivazione sulle rivendicazioni sollevate dagli eredi di NOME
2.2.4. In ogni caso, nei confronti di tutti i componenti della famiglia brio, rileverebbe l’insussistenza dei presupposti soggettivi di pericolosità sociale in capo al proposto.
In data 19 novembre 2024 i difensori degli imputati hanno trasmesso una memoria di replica alle richieste del Procuratore generale.
Evidenziano che la parte pubblica ha omesso di affrontare il tema principale concernente il rapporto tra procedimento penale e procedimento di prevenzione. Sintetizzano gli esiti dei processi penali, ne valutano le conseguenze sul procedimento in rassegna, esaminano la posizione dei terzi interessati.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono infondati.
L’esatto inquadramento del procedimento impone di svolgere alcune considerazioni di carattere preliminare.
2.1. Il procedimento di revoca e i suoi presupposti.
NOME COGNOME è stato sottoposto alla misura di prevenzione patrimoniale della confisca, quale persona indiziata di appartenere alla associazione camorristica dei c.d. “casalesi” nel periodo dal 1988 al 2004 (ex art. 1 legge n. 575 del 1965 applicabile ratione temporis). Nell’ambito di quel procedimento sono stati sottoposti a vincolo ablativo anche beni formalmente intestati a familiari (tra cui la moglie NOME COGNOME, i figli NOME COGNOME e NOME COGNOME, la moglie del primo NOME COGNOME), in quanto ritenuti nella disponibilità del proposto.
Il decreto di confisca è divenuto definitivo a seguito del rigetto dei ricorsi con sentenza della Corte di cassazione Sez. 1, n. 6276 del 11 giugno 2014.
NOME COGNOME e i familiari che hanno partecipato al procedimento di confisca hanno formulato varie istanze di revoca ex tunc che hanno dato vita al presente procedimento.
La norma di riferimento va individuata nel disposto di cui all’art. 7, secondo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 che, prima dell’entrata in vigore del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159), costituiva l’unico modello normativo di riferimento per costruire una impugnazione straordinaria corrispondente a quella della revisione del giudicato penale.
Così le Sezioni Unite (Sez. U, n. 57 del 19/12/2006, dep. 2007, COGNOME, Rv. 234955 – 01) hanno stabilito che il provvedimento di confisca deliberato ai sensi dell’art. 2-ter, comma terzo, L. 31 maggio 1975 n. 575 (disposizioni contro la mafia) è suscettibile di revoca ex tunc a norma dell’art. 7, comma secondo, L. 27 dicembre 1956 n. 1423 (misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), allorché sia affetto da invalidità genetica e debba, conseguentemente, essere rimosso per rendere effettivo il diritto, costituzionalmente garantito, alla riparazione dell’errore
giudiziario, non ostando al relativo riconoscimento l’irreversibilità dell’ablazione determinatasi, che non esclude la possibilità della restituzione del bene confiscato all’avente diritto o forme comunque riparatorie della perdita patrimoniale da lui ingiustificatamente subita.
La revoca della confisca di prevenzione, per il periodo antecedente la tipizzazione normativa introdotta dal d.lgs. n. 159 del 2011, è stata dunque costruita in via pretoria sulla falsa riga della revisione penale; e costituisce un mezzo di impugnazione straordinaria che postula, in primo luogo, l’emergere di una prova nuova (così in motivazione Sez. 6, n. 2190 del 29/10/2020, dep. 2021, Notaro).
2.2. I vizi deducibili con il ricorso per cassazione.
Nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge.
Secondo il consolidato orientamento della Corte di legittimità – asseverato anche dal giudice delle leggi con le sentenze n. 321 del 2004, n. 80 del 2011 e n. 106 del 2015 – in tema di misure di prevenzione, la riserva del sindacato di legittimità alla violazione di legge non consente di dedurre il vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., sicché il controllo del provvedimento consiste solo nella verifica della rispondenza degli elementi esaminati (se necessario acquisiti ex officio dal giudice) ai parametri legali, imposti per l’applicazione delle singole misure e vincolanti, in assenza della quale ricorre la violazione di legge sub specie di motivazione apparente (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246).
Il principio è stato ripreso dalle Sezioni Unite anche in una pronuncia successiva e così declinato: «È del tutto pacifico che sia possibile svolgere in sede di legittimità il controllo inerente all’esatta applicazione della legge, sui provvedimenti applicativi della misura di prevenzione, ove si profila la totale esclusione di argomentazione su un elemento costitutivo della fattispecie che legittima l’applicazione della misura, configurandosi, in caso di radicale mancanza di argomentazione su punto essenziale, la nullità del provvedimento ai sensi delle disposizioni di cui agli artt. 111, sesto comma, Cost., 125, comma 3, cod. proc. pen., 7, comma 1, d. Igs 06/09/2011, n. 159, poiché l’apparato giustificativo costituisce l’essenza indefettibile del provvedimento giurisdizionale» (Sez U. n. 111 del 30/11/2017, dep. 2018, Gattuso, in motivazione).
Tale regola opera anche nel procedimento di prevenzione regolato dalla disciplina anteriore al c.d. “codice antimafia” di cui al d. Igs. n. 159 del 2011, secondo il disposto dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall’art. 3 ter, secondo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575; ne consegue
che, in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi dell’illogicità manifesta di cui all’art. 606, lett. cod. proc. pen., potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello dal nono comma del predetto art. 4 legge n.1423 del 56, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (cfr. tra le altre Sez. 6, n. 20816 del 28/02/2013, COGNOME, Rv. 257007).
2.3. Il contenuto dei ricorsi.
La ragione principale dedotta dai ricorrenti fa leva sul novum rappresentato dalla assoluzione di NOME COGNOME dalla imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa e da vari delitti scopo (primo motivo di ricorso).
I familiari reclamano la proprietà effettiva dei beni acquisiti con mezzi leciti rientranti nelle loro capacità reddituali (secondo motivo)
3. Il primo motivo è infondato.
3.1. Le doglianze devono essere deputate da tutte le censure di fatto o, comunque, da quelle che denunciano vizi della motivazione (spesso sub specie di travisamento della prova) che non sono deducibili nel procedimento di prevenzione (cfr. sopra paragrafo 2.2.).
3.2. Va ricordato che si verte nell’ambito di una impugnazione straordinaria fondata sulla illegittimità genetica del provvedimento applicativo dimostrato da una prova nuova decisiva.
Nella specie non è in discussione il carattere di novità degli elementi rappresentati dalle pronunce assolutorie, che la Corte di appello riconosce espressamente (cfr. pag. 6 decreto impugnato).
La questione posta all’esame di questo collegio si incentra, invece, sulla incisività/decisività degli accertamenti contenuti nelle sentenze di assoluzione rispetto al presupposto soggettivo della misura di prevenzione in rassegna.
La decisività della nuova prova può essere apprezzata, attesa la connotazione finalistica che deve orientare la richiesta di revoca, solo nella prospettiva della sua stretta correlazione all’accertamento di un vizio genetico del provvedimento definitivo, ossia di un difetto originario dei presupposti per l’applicazione della misura patrimoniale (così in motivazione Sez. U, n. 43668 del 26/05/2022, COGNOME, Rv. 283707 – 01).
In particolare, nella specie, il connotato della decisività implica che l’accertamento del giudice della cognizione, da cui è scaturita l’assoluzione, sia idoneo ad inficiare il requisito soggettivo della pericolosità c.d. qualificata,
rappresentato dall’essere NOME COGNOME persona indiziata di appartenere al clan camorristico dei cd. Casalesi.
In questa prospettiva, al fine di comprendere l’effettiva rilevanza della problematica sollevata in ricorso, occorre muovere dalla nozione di “appartenenza” ad una associazione mafiosa che fonda la categoria di pericolosità sociale in rilievo e considerare poi l’effetto del giudicato penale di assoluzione rispetto a tale specifica categoria.
Questo duplice profilo non si trova perfettamente inquadrato nel primo motivo di ricorso, mentre è recepito, in modo corretto, dalla Corte di appello, che se ne mostra pienamente consapevole (cfr. in particolare pag. 10 decreto impugnato).
3.2.1. Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite COGNOME (Sez. U n. 111 del 30/11/2017, dep. 2018, Rv. 271512 – 01) il concetto di “appartenenza” ad una associazione mafiosa, rilevante per l’applicazione delle misure di prevenzione, comprende anche condotte che, sebbene non riconducibili alla “partecipazione”, si sostanzino in un’azione, anche isolata, funzionale agli scopi associativi; mentre esulano da tale nozione le situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale.
La nozione di appartenenza ricomprende, quindi, oltre alle condotte di partecipazione, anche quelle astrattamente inquadrabili nella figura del concorso esterno di cui agli artt. 110, 416-bis cod. pen., per definizione caratterizzata da una collaborazione occasionale, espressa in unico o diluito contesto temporale, che si realizza con riferimento a circoscritte esigenze del gruppo, in correlazione con la loro insorgenza. Ma non si esaurisce nei reati tipizzati, poiché abbraccia anche condotte di collaborazione che si manifestino in un apporto storicamente individuabile alla vita della compagine mafiosa, fermo restando che il giudice della prevenzione è chiamato a svolgere una “verifica circa l’esistenza di un complesso di elementi fattuali idonei in concreto a legittimare la considerazione del proposto come indiziato di appartenenza all’associazione mafiosa” (Sez. 1, n. 7937 del 03/02/2010, Russo, Rv. 246308 – 01), in quanto dotati di sicuro valore sintomatico (Sez. 6, n. 921 del 11/11/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 261842 – 01).
Come insegna la Corte Costituzionale (sent. n. 24/2019) l’attività criminosa – descritta nelle varie fattispecie elencate oggi nell’art. 4 del d.lgs. n. 159 del 2011, e il cui riscontro probatorio funge da base sulla quale sviluppare il giudizio in ordine alla pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica – deve risultare da evidenze che la legge indica ora come «elementi di fatto», più spesso come «indizi»; evidenze che debbono essere vagliate dal tribunale nell’ambito di un procedimento retto da regole probatorie e di giudizio diverse da quelle proprie del processo penale.
3.2.2. Il particolare archetipo della persona indiziata di appartenere a un’associazione di tipo mafioso si riverbera anche sulla materia degli effetti degli esiti del giudizio di cognizione sul procedimento di prevenzione.
In questo ambito, la giurisprudenza di legittimità è attestata sul principio di autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale.
Le stesse Sezioni Unite COGNOME, sopra citate, hanno ribadito che, al fine dell’accertamento di pericolosità, non deve negarsi la possibilità di valorizzare specifiche circostanze di fatto che emergano da pronunce liberatorie, condizione che risulta fisiologicamente connessa alla mancanza di correlazione tra le misure di prevenzione e la consumazione di reati, posto che proprio la finalità preventiva consente l’intervento in presenza di fatti espressivi di una elevata pericolosità, sui quali è dato intervenire previamente per evitare la commissione di reati.
Invero la categoria criminologica in oggetto (soggetto indiziato di appartenenza all’organismo mafioso) tollera, per la sua diversità ontologica dalla prova della condotta partecipativa in senso pieno (art. 416-bis), la diversità di apprezzamento, nei due settori dell’ordinamento, delle medesime circostanze di fatto (così in motivazione Sez. 5, n. 182 del 30/11/2020, dep. 2021, COGNOME).
Nel medesimo senso si è espressa Sez. 1, n. 4489 del 26/10/2022, dep. 2023, COGNOME, che rileva come nel caso di appartenenza ad associazione mafiosa, la descrizione della condotta è operata «in termini meno stringenti» rispetto alla categoria della pericolosità generica, evocandosi «l’indizio di appartenenza», che è nozione più ampia rispetto alla «partecipazione» di cui all’art. 416-bis cod. pen.; pertanto nell’ipotesi di pericolosità qualificata è possibile rinvenire indizi di appartenenza ad associazione mafiosa, anche in caso di sentenza di assoluzione per il reato associativo emessa in ambito penale, ferma restando la necessità di attenta considerazione delle ragioni dell’assoluzione.
L’unico limite posto all’autonomia valutativa del giudice della prevenzione (oltre alla impossibilità di avvalersi di prove vietate) è quello per cui i fatti storici ritenuti sintomatici della pericolosità del proposto non devono essere stati smentiti in sede di cognizione penale, ciò in quanto la negazione penale irrevocabile di un determinato fatto (inteso come accadimento storico, non come fatto-reato) impedisce di ritenerlo esistente e quindi di assumerlo come elemento iniziale del giudizio di pericolosità sociale (Sez. 2, n. 30974 del 01/03/2018, COGNOME).
3.3. La Corte di appello ha fatto corretta applicazione dei principi sopra esposti.
La motivazione del decreto impugnato risulta coerente con le emergenze processuali e non è riconducibile né all’area semantica della motivazione “assente” né a quella della motivazione “apparente”.
Invero, con una motivazione insindacabile in questa sede, il giudice di secondo grado si è confrontato con gli esiti delle sentenze di assoluzione, ha appurato che gli elementi raccolti, seppur insufficienti a fondare un giudizio di responsabilità, non compromettono l’originaria verifica di pericolosità sociale di NOME COGNOME quale “appartenente” al clan dei casalesi, secondo l’ampia accezione sopra ricordata.
3.3.1. La Corte di appello ha preso in esame la sentenza della Corte di appello di Napoli n. 5942 del 29 settembre 2020 che ha assolto Gaetano lodo dal delitto di partecipazione alla cosca casalese a partire dall’anno 2000; nonché la sentenza n. 3924 del 18 luglio 2023 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che ha dichiarato estinto per prescrizione il delitto di cui all’art. 12 quinquies dl n. 306 del 1002 (ora art. 512 bis cod. pen.), aggravato ai sensi dell’art. 7 legge n. 203 del 1991 (ora art. 416-bis.1 cod. pen.).
Ha osservato che la prima decisione, al di là dell’esito, ha dato atto, comunque, che NOME COGNOMEera stato certamente in passato titolare di una impresa protetta dal clan dei casalesi” (pag. 8).
Ha rilevato che la seconda decisione, pur concludendosi con un proscioglimento, ha espressamente affermato che dall’istruttoria svolta è emerso che NOME COGNOME è stato un imprenditore nel settore del calcestruzzo “colluso” con il clan dei casalesi: egli “attraverso la COGNOME costruzioni riusciva ad imporsi come oligopolista prima con COGNOME e poi con gli COGNOME e dominare nel redditizio settore della produzione e della commercializzazione dei calcestruzzo, come univocamente ci hanno riferito i collaboratori di giustizia, anche quelli che all’epoca dei fatti in contestazione ricoprivano ruoli apicali nelle rispettive fazioni di appartenenza del clan” (pag. 9).
In forza di tanto la Corte distrettuale evidenzia come i dati accertati con le citate pronunce non introducono elementi in grado di inficiare il giudizio di appartenenza di NOME COGNOME al clan dei casalesi (pag. 9).
3.3.2. La medesima Corte svolge considerazioni analoghe in relazione alla sentenza del 10 aprile 2014 con cui la Corte di Assise di Napoli, quale giudice di rinvio, ha assolto l’imputato dal reato di cui agli artt. 110-416 bis cod. pen.
Nel decreto impugnato si osserva che la decisione in rassegna ha acclarato elementi di fatto particolarmente significativi: ha ritenuto dimostrato che il consorzio Cedic era asservito alle logiche mafiose e che NOME COGNOME, socio fondatore del consorzio, ha ottenuto commesse grazie all’ente consortile operante in regime di oligopolio (pagg. 12 e ss.); ha rinvenuto un punto di coincidenza nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia circa il prodigarsi di NOME COGNOME per favorire la latitanza di NOME bovine (pag. 17).
Secondo il giudice della cognizione questi elementi non consentono di integrare i presupposti del concorso esterno.
Osserva il giudice della prevenzione che l’esito assolutorio del giudizio cognitivo, così motivato, non entra in conflitto con la categoria della “appartenenza”, semmai contribuisce a suffragarla.
3.4. In definitiva le censure mosse dai ricorrenti non colgono nel segno, poiché non si pongono nell’ottica della revoca: la confisca è stata applicata con provvedimento definitivo; nel procedimento di revoca occorre verificare se emergano, in positivo, prove nuove capaci di elidere in radice i presupposti fattuali fondanti la riconducibilità dell’imputato alla categoria delle persone “appartenenti” a un sodalizio mafioso.
La Corte di appello lo ha motivatamente escluso, ponendo in rilievo che le sentenze di cognizione esaminate, al di là dell’esito assolutorio, non hanno accertato fatti storici incompatibili con quelli che sorreggono la misura di prevenzione patrimoniale fondata sul concetto di appartenenza (in senso ampio) al clan dei casalesi attraverso lo svolgimento di un’attività imprenditoriale funzionale agli scopi associativi.
La conclusione si pone in coerenza logica e fattuale con il dato che tra i fini della associazione camorristica – normativamente tipizzati – vi è anche quello di «acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazione per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri» (art. 416-bis, comma 3, cod. pen.).
4. Il secondo motivo è inammissibile.
Le doglianze devolvono questioni di fatto già vagliate e disattese dal giudice di merito (pagg. 22 e ss.).
I ricorsi evocano censure riconducibili, al più, a ipotetici vizi di motivazione.
Quanto alla consulenza, va riaffermato il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui ai fini della revoca della confisca definitiva di prevenzione, che si muove nello stesso ambito della revisione del giudicato penale di condanna, non costituisce prova nuova una diversa valutazione tecnicoscientifica di dati già valutati, che si tradurrebbe in apprezzamento critico di emergenze oggettive già conosciute e delibate nel procedimento (Sez. 2, n. 25577 del 14/05/2009, COGNOME, Rv. 244152; Sez. 1, n. 36224 del 22/09/2010, COGNOME, Rv. 248296; Sez. 6, n. 3943 del 15/01/2016, COGNOME, Rv. 267016).
5. La memoria difensiva non scalfisce l’esito della decisione, dato che si limita a sintetizzare gli argomenti già ampiamente esposti con i motivi principali.
Deriva il rigetto dei ricorsi e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 29/11/2024