Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 45293 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 45293 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 05/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Lizzano il 24/04/1973
avverso il decreto emesso il 06/06/2024 dalla Corte di appello di Potenza visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con decreto emesso il 6 giugno 2024 la Corte di appello di Potenza resffingeva il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME finalizzato a ottenere la revoca della confisca dei beni oggetto dell’originaria ablazione, disposta dal Tribunale di Lecce e confermata dalla Corte di appello di Lecce il 4 febbraio 2021.
Il respingimento del ricorso veniva giustificato dalla Corte territoriale per l’assenza di elementi di novità processuale, rilevanti ai sensi dell’art. 28 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (cod. antimafia), idonei a determinare una rivalutazione complessiva del compendio probatorio che aveva legittimato l’originaria ablazione dei beni intestati a NOME COGNOME fondata sull’assunto che le risorse economiche del proposto derivavano dalle sue attività illecite, collegate a delitti di usura.
Ps 2. Avveriyoquesto decreto NOME COGNOME a mezzo dell’avv. NOME COGNOME ricorreva per cassazione, deducendo la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto della doglianza relativa all’intervenuta assoluzione del prevenuto dal reato di cui all’art. 12-quinquies decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, pronunciata dal Tribunale di Taranto il 9 gennaio 2023, che costituiva uno dei presupposti dell’originaria ablazione, disposta dal Tribunale di Lecce, sulla quale si registrava una carenza assoluta di motivazione.
Si deduceva, in proposito, che tale assoluzione riguardava il delitto di cui all’art. 12-quinquies decreto-legge n. 356 del 1992, accertato a Lizzano e Fragagnano tra il 9 gennaio 2014 e I’l gennaio 2024, per difetto dell’elemento soggettivo, non essendo emerso, nel procedimento penale conclusosi con la citata sentenza, l’intento di impedire che i beni intestati a terzi potessero essere sottoposti ad ablazione.
Secondo la difesa del ricorrente, la richiamata assoluzione assumeva un rilievo decisivo, imponendo di riqualificare come generica, ex art. 1, comma 1, lett. b), cod. antimafia, la condizione di pericolosità sociale del ricorrente e non consentendo di ritenere sussistente alcuna correlazione temporale tra .tale condizione – definitivamente interrottasi nel 2009 – e l’acquisto dei beni sottoposti ad ablazione, in violazione del canone di ragionevolezza temporale consacrato dalla giurisprudenza di legittimità (recte Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, COGNOME, Rv. 262605 – 01).
Le considerazioni esposte imponevano l’annullamento del decreto impugnato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso proposto da NOME COGNOME è infondato.
In via preliminare, deve rilevarsi che, nel procedimento di prevenzione, il ricorso per cassazione, secondo quanto previsto dall’art. 4, comma 2, legge 27 dicembre 1956, n. 1423, così come richiamato dall’art. 3 -ter, comma 2, legge 31 maggio 1965, n. 575, è ammesso soltanto per violazione di legge.
Ne discende che devono escludersi dall’ambito dei vizi deducibili in sede di legittimità le ipotesi previste dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., potendosi denunciare, ai sensi della lett. c) della stessa disposizione, soltanto la motivazione inesistente o meramente apparente, integrante la violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato.
In sede di legittimità, dunque, non è deducibile il vizio di motivazione, a meno che questa non sia del tutto carente, presentando difetti tali da renderla meramente apparente e in realtà inesistente, ossia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità; ovvero quando la motivazione stessa si ponga come assolutamente inidonea a rendere comprensibile il percorso logico seguito dal giudice di merito nell’adozione del provvedimento; ovvero, ancora, quando le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da fare risultare oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione adottata, non consentendo la verifica giurisdizionale della sua legittimità (tra le altre, Sez. 2, n. 20968 del 06/07/2020, COGNOME, Rv. 279435 01; Sez. 6, n. 20816 del 28/02/2013, COGNOME, Rv. 257007 – 01; Sez. 6, n. 24272 del 15/01/2013, COGNOME, Rv. 256805 – 01; Sez. 6, n. 15107 del 17/12/2003, dep. 2004, COGNOME, Rv. 229305 – 01).
Questo orientamento ermeneutico ha ricevuto l’ulteriore avallo delle Sezioni Unite, che, nel solco della giurisprudenza di legittimità che si è richiamata, hanno affermato il seguente principio di diritto: «Nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto dell’art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall’art. 3 -ter, secondo comma, legge 31 maggio 1965, n. 575; ne consegue che, in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi dell’illogicità manifesta di cui all’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al
giudice d’appello dal nono comma del predetto art. 4 legge n. 1423 del 56, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente» (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246 – 01).
Tale approdo giurisprudenziale, infine, è stato suggellato dalla Corte costituzionale, che, con la sentenza 15 aprile 2015, n. 106 – nel rigettare la questione di legittimità costituzionale proposta con riferimento all’art. 3 -ter legge n. 575 del 1965 -, ha, tra l’altro, affermato che «il sistema delle misure di prevenzione ha una sua autonomia e una sua coerenza interna, mirando ad accertare una fattispecie di pericolosità, che ha rilievo sia per le misure di prevenzione personali, sia per la confisca di prevenzione, della quale costituisce presupposto ineludibile» (Corte cost., sent. n. 106 del 2015).
Secondo la Corte costituzionale, non sarebbe ipotizzabile una diversa opzione ermeneutica, essendo irrazionale «il sistema che si verrebbe a delineare ». Si determinerebbe, infatti, una differente «estensione del sindacato della Corte di cassazione sul provvedimento impugnato, anche in relazione al medesimo presupposto della pericolosità del proposto, a seconda che venga in rilievo una misura personale o una misura patrimoniale, e l’irrazionalità sarebbe evidente qualora le due misure fossero adottate con lo stesso provvedimento » (Corte cost., sent. n. 106 del 2015, cit.).
2.1. Quanto, invece, alla revoca della confisca disposta ex art. 28 cod. antimafia, richiesta nell’interesse di NOME COGNOME – della cui applicazione al caso di specie si controverte -, deve rilevarsi che la giurisprudenza di legittimità, da tempo, l’ha ritenuta ammissibile, chiarendo che l’istituto revocatorio è «diretto a che al giudicato sia sostituita una nuova, diversa pronuncia, all’esito di un nuovo, diverso, giudizio; affinché il giudizio sia ritenuto “nuovo”, esso deve necessariamente fondarsi su elementi di indagine diversi da quelli compresi nel processo conclusosi con il giudizio precedente» (Sez. 6, n. 28267 del 10/05/2017, COGNOME, Rv. 270414 – 01).
Occorre, pertanto, fondare il nuovo giudizio invocato dall’inciso su elementi probatori connotati da novità, per l’inquadramento dei quali è opportuno richiamare il principio di diritto affermato da Sez. U, n. 43668 del 26/05/2022, Lo Duca, n. 283707 – 01, secondo cui: «In tema di confisca di prevenzione, la prova nuova, rilevante ai fini della revocazione della misura ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 159, è sia quella sopravvenuta alla conclusione del procedimento di prevenzione, essendosi formata dopo di essa, sia quella preesistente ma incolpevolmente scoperta dopo che la misura è divenuta definitiva, mentre non lo è quella deducibile e non dedotta nell’ambito del suddetto procedimento, salvo che l’interessato dimostri l’impossibilità di tempestiva deduzione per forza maggiore».
Questo orientamento ermeneutico, com’è noto, si inserisce in un filone giurisprudenziale che, a sua volta, trae origine dal risalente intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, espresso in Sez. U, n. 57 del 19/12/2006, dep. 2007, COGNOME, Rv. 234955 – 01, secondo cui: «Il provvedimento di confisca deliberato ai sensi dell’art. 2-ter, .comma terzo, L. 31 maggio 1975 n. 575 (disposizioni contro la mafia) è suscettibile di revoca “ex tunc” a norma dell’art. 7, comma secondo, L. 27 dicembre 1956 n. 1423 (misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), allorché sia affetto da invalidità genetica e debba, conseguentemente, essere rimosso per rendere effettivo il diritto, costituzionalmente garantito, alla riparazione dell’errore giudiziario, non ostando al relativo riconoscimento l’irreversibilità dell’ablazione determinatasi, che non esclude la possibilità della restituzione del bene confiscato all’avente diritto o forme comunque riparatorie della perdita patrimoniale da lui ingiustificatamente subita».
Nella cornice ermeneutica descritta nei paragrafi precedenti deve rilevarsi anzitutto che, nel caso di specie, la parte ricorrente prospettava, quale elemento di novità, l’intervenuta assoluzione del prevenuto dal reato di cui all’art. 12quinquies decreto-legge n. 306 del 1992, pronunciata dal Tribunale di Taranto il 9 gennaio 2023, che costituiva uno dei presupposti dell’originaria ablazione, sul quale si registrava una carenza assoluta di motivazione.
Si trascurava, in questo modo, che l’assoluzione pronunciata dal Tribunale di Taranto, con la decisione sopra citata -, riguardante il delitto di cui all’art. 12quinquies decreto-legge n. 356 del 1992, accertato a Lizzano e Fragagnano tra il 9 gennaio 2014 e I’l gennaio 2024 -, derivava dall’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato, non essendo emerso, nel relativo processo di cognizione, l’intento di impedire che i beni intestati a terzi potessero essere sottoposti ad ablazione.
Osserva, in proposito, il Collegio che l’originaria ablazione dei beni intestati a NOME COGNOME, disposta dal Tribunale di Lecce e confermata dalla Corte di appello di Lecce il 4 febbraio 2021, non si fondava sulla sola ipotesi delittuosa di cui all’art. 12-quinquies decreto-legge n. 356 del 1992. Infatti, nell’originario procedimento ablatorio, oltre a tale fattispecie, si richiamavano le due condanne irrevocabili per il delitto di cui all’art. 644 cod. pen., che imponevano di ribadire i giudizio di pericolosità sociale del prevenuto, pur dovendosi riqualificare la condizione pericolosa del ricorrente come generica, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. b), cod. antimafia.
Il giudizio di pericolosità sociale di COGNOME, dunque, non può ritenersi venuto meno per effetto dell’intervenuta assoluzione del prevenuto da uno dei reati costituenti la preesistente piattaforma valutativa, il cui nucleo essenziale occorre ribadirlo non era costituito dalla fattispecie 12-quinquies decreto-legge n. 306 del 1992, ma da quelle di cui all’art. 644 cod. pen., come evidenziato dalla Corte di merito a pagina 3 del decreto impugnato, nel quale si affermava che, nell’originario provvedimento ablatorio, si «riteneva espressamente che il proposto vivesse in gran parte di redditi di provenienza delittuosa (delitti di usura), con una evidente sproporzione reddituale rispetto alle entrate lecite di mero dipendente della ditta Lucchese».
Da questo punto di vista, non sussistono i presupposti per ritenere connotati da novità gli elementi processuali addotti dalla difesa del ricorrente, in linea con il principio di diritto affermato da Sez. 1, n. 1649 del 28/09/2021, COGNOME, Rv. 282485 – 01, secondo cui: «In tema di confisca di prevenzione, la prova nuova, rilevante ai fini della revoca “ex tunc” della misura, è sia quella preesistente e scoperta dopo che la misura è divenuta definitiva, sia quella sopravvenuta rispetto alla conclusione del procedimento di prevenzione, essendosi formata dopo di essa, ma non anche quella deducibile e non dedotta nell’ambito del suddetto procedimento, salvo che si adduca l’impossibilità di tempestiva deduzione per la riscontrata sussistenza di ragioni di forza maggiore».
Né potrebbe essere diversamente, atteso che è possibile disporre la revoca della confisca di prevenzione, ex art. 28 cod. antimafia, a condizione che con l’incidente proposto per la rimozione del provvedimento non vengano dedotte situazioni di fatto costituenti condizioni di legittimità della misura di prevenzione, ma proposte prove nuove, per tali dovendosi intendere solo quelle, preesistenti o sopravvenute, che consentono di ritenere l’originaria ablazione adottata in assenza delle condizioni legittimanti (tra le altre, Sez. 1, n. 27367 del 28/01/2021, COGNOME, Rv. 281634 – 01; Sez. 1, n. 4196 del 09/01/2009, COGNOME, Rv. 242844 – 01).
Quanto alla correlata doglianza, relativa all’insussistenza di correlazione temporale tra l’acquisto dei beni sottoposti ad ablazione e la condizione di pericolosità sociale generica, rilevante ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. b), cod. antimafia, deve rilevarsi che i due momenti – quello oggettivo e quello soggettivo – non devono essere cronologicamente coincidenti, dovendo essere valutati con criteri di ragionevolezza temporale.
Osserva il Collegio che, pur essendo pacifico che sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquisiti nell’arco di tempo in cui si è manifestata la
condizione pericolosa del prevenuto, tale condizione deve essere valutata in termini di ragionevole flessibilità.
È, infatti, evidente che laddove, come nel caso in esame, emerga che il bene è stato acquistato con i proventi di un’attività illecita, non occorre che l’acquisizione patrimoniale sia cronologicamente coincidente con la manifestazione di pericolosità, atteso che diversamente si frusterebbe la natura preventiva della misura ablativa. Se così non fosse, si arriverebbe alla conclusione, paradossale oltre che contrastante con la natura preventiva dello strumento ablatorio, che i beni acquistati con provviste accumulate illecitamente con lo svolgimento di attività delittuose, rilevanti ex art. 1, comma 1, lett. b), cod. antimafia, non possono essere confiscate laddove, come nel caso di Berdicchia, l’acquisizione sia intervenuta in un momento successivo a quello in cui sia stata accertata la condizione di pericolosità generica (tra le altre, Sez 1, n. 48882 del 08/10/2013, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 257605 – 01; Sez 1, n. 16806 del 21/04/2010, Monachino, 247072 – 01).
Questo significa che presupposto ineludibile di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale continua a essere la pericolosità sociale del soggetto passivo del provvedimento ablatorio, ossia la sua riconducibilità a una delle categorie soggettive tipizzate dal legislatore, nel nostro caso prevista dall’art. 1, comma 1, lett. b), cod. antimafia, ma tale collegamento deve essere valutato in termini di correlazione temporale e non di contestualità cronologica, tenendo conto del rapporto tra la res confiscata e le provviste impiegate per il suo acquisto. Non può, del resto, non ribadirsi che questa Corte ha costantemente affermato che il giudice della prevenzione deve valutare – sia nelle ipotesi di pericolosità qualificata sia nelle ipotesi di pericolosità generica – la condizione del soggetto nei cui confronti sono esercitati poteri ablatori, in quanto, nel nostro ordinamento, non è configurabile un’azione diretta sulla res incisa, restando imprescindibile il rapporto tra il soggetto passivo dell’ablazione e gli incrementi patrimoniali conseguiti (tra le altre, Sez. 6, n. 5536 del 15/01/2016, COGNOME, Rv. 265957 – 01; Sez. 2, n. 30395 del 07/05/2015, COGNOME, Rv. 264296 – 01; Sez. 5, n. 3914 del 17/11/2011, COGNOME, Rv. 251719 – 01; Sez. 1, n. 26751 del 26/05/2009, COGNOME, Rv. 244790 – 01).
In questa ermeneutica, il richiamo delle condanne irrevocabili per l’attività usuraria svolta da NOME COGNOME che davano origine alla formazione della provvista necessaria all’acquisto dei beni confiscati – che non poteva essere ricondotta all’attività lavorativa svolta dal ricorrente quale dipendente della ditta RAGIONE_SOCIALE -, costituisce un indice fattuale certamente idoneo a legittimare l’ablazione censurata, anche ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. b), cod. antimafia, come, da ultimo, evidenziato da Sez. 6, n. 36421 del 06/09/2021,
COGNOME, Rv. 281990 – 01, secondo cui: «In tema di confisca di prevenzione, è legittimo disporre la misura ablatoria delle utilità acquisite in un periodo successivo a quello per cui è stata asseverata la pericolosità sociale, purché il giudice dia atto della sussistenza di una pluralità di indici fattuali dimostrativi della derivazione delle acquisizioni patrimoniali dalla provvista formatasi nel periodo di compimento della attività illecita, e tali indici devono essere tanto più rigorosi ed univoci quanto maggiore è il lasso di tempo decorso dalla cessazione della pericolosità».
4.1. Residua, a questo punto, un’ultima questione, relativa alle modalità con cui è possibile fornire la dimostrazione della, eventuale, legittimità dell’acquisizione dei beni sottoposti ad ablazione, nelle ipotesi, analoghe a quella in esame, in cui è stato attivato lo strumento revocatorio di cui all’art. 28 cod. antimafia.
Occorre, in proposito, ribadire, in linea con quanto si è già affermato nel paragrafo 2.1, cui si rinvia, che l’introduzione dell’art. 28 cod. antimafia, sotto il profilo della valutazione della condizione di pericolosità del soggetto proposto, non ha modificato l’inquadramento dello strumento ablatorio. Ne consegue che a tale strumento deve continuare a riconoscersi una finalità eminentemente preventiva, tale da non offuscarne l’essenza di mezzo inteso a dissuadere l’inciso dalla commissione di ulteriori reati e dall’intrattenere stili di vita contrastanti con parametri di legalità, come affermato da Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, COGNOME, cit.
D’altra parte, la confiscabilità anche in danno degli eredi e degli aventi causa dei beni costituisce la più eloquente conferma della persistente connotazione preventiva dello strumento ablatorio, valendone a escluderne la natura sanzionatoria.
Queste conclusioni si pongono in termini consequenziali con lo stesso presupposto delle misure di prevenzione, rappresentato dalla pericolosità sociale del soggetto proposto. Di conseguenza, la pericolosità sociale, anche nelle ipotesi di cui all’art. 28 cod. antimafia, continua a segnare la misura temporale dell’ablazione, impedendo ogni esercizio di poteri retroattivi e dimensionando l’ablazione sotto il profilo personale e temporale, in linea con quanto affermato dalle Sezioni Unite nell’arresto richiamato (Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, COGNOME, cit.).
In questo contesto, a differenza di quanto è riscontrabile in tema di pericolosità qualificata, la pericolosità sociale generica – propria dei soggetti dediti abitualmente a traffici delittuosi o che vivono abitualmente, anche in parte, con il ricavato di attività illecite – non offre, di regola, particolari diffic nell’individuazione dell’arco temporale di riferimento, trattandosi di determinare,
sulla base dei parametri ai quali ci si è riferiti nel paragrafo precedente, il periodo in cui si è manifestata l’abituale dedizione al crimine del proposto.
Occorre precisare ulteriormente che l’esercizio di poteri ablatori nei confronti dei soggetti rientranti nel novero soggettivo di cui dell’art. 1, comma 1, lett. b), cod. antimafia non presuppone, in senso stretto, la commissione di reati, ma postula una condizione esistenziale, rappresentata da condotte di vita reputate estranee ai canoni legali della civile convivenza, che – in linea con i parametri affermati da Corte EDU, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia – devono essere valutate sulla base di un accertamento rigoroso, fondato su dati oggettivi (tra le altre, Sez. 1, n. 36080 del 11/09/2020, COGNOME, Rv. 280207 – 01: Sez. 5, n. 27656 del 08/01/2019, NOME, Rv. 277313 – 01; Sez. 2, n. 9517 del 07/02/2018, COGNOME, Rv. 275522 – 01).
Ne discende che, verificata la condizione di pericolosità sociale generica, consistente nel fatto che ci si riferisca a soggetti ritenuti abitualmente dediti a traffici illeciti ovvero che vivano abitualmente con i proventi di crimini, può essere applicato lo strumento ablatbrio nei confronti dei beni che si presumano acquistati, secondo i canoni di ragionevole flessibilità richiamati nel paragrafo precedente, con tali provviste.
Alle ragioni che legittimano l’esercizio dei poteri ablatori fa da contrappeso il riconoscimento, in capo al prevenuto, della facoltà di prova contraria, che deve essere governata dallo stesso inciso, che assicura la tenuta del sistema e la sua conformità costituzionale.
Tuttavia, nelle ipotesi in cui si intende ottenere una pronuncia revocatoria, ai sensi dell’art. 28 cod. antimafia, la facoltà di prova contraria riconosciuta al prevenuto assume una valenza ancora più stringente rispetto al procedimento di prevenzione ordinario, atteso che, in questo caso, l’inciso chiede di eliminare, allegando elementi probatori connotati da novità, un vaglio di pericolosità sociale, qualificata o generica, consacrato da una pronuncia irrevocabile (tra le altre, Sez. 2, n. 28941 del 24/09/2020, COGNOME, Rv. 279809 – 01; Sez. 2, n. 23928 del 14/07/2020, COGNOME, Rv. 279488 – 01; Sez. 6, n. 26341 del 09/05/2019, COGNOME, Rv. 276075 – 01).
Si tratta, allora, di comprendere che, in tali ipotesi, ci si trova di fronte a una presunzione relativa di illecita acquisizione dei beni, rilevante iuris tantum, che è vincibile da parte del soggetto passivo dell’incisione, ma soltanto attraverso l’esercizio di poteri probatori cogenti, che non appaiono attivati nel caso di specie, essendosi limitato COGNOME a effettuare censure di carattere cronologico, disancorate da dati oggettivi, sulla sussistenza della condizione di pericolosità sociale generica, rilevante ex art. 1, comma 1, lett. b), cod. antimafia.
Ne discende che l’onus probandi a carico del soggetto inciso, nei cui confronti era stato formulato un giudizio di pericolosità generica, che intende avvalersi dello strumento revocatorio di cui all’art. 28 cod. antimafia, pur non potendo assurgere al rango di probatio diabolica, non può che essere calibrato sui canoni di uno statuto probatorio cogente, governato dall’inciso. Per il corretto assolvimento di tale onere probatorio, quindi, occorre un’allegazione di situazioni o eventi, connotati da novità, rilevanti sia sul piano fattuale sia sul piano cronologico, non riscontrabile nel caso in esame, che, ragionevolmente e plausibilmente, siano idonei a dimostrare la provenienza lecita delle acquisizioni patrimoniali sottoposte ad ablazione con un provvedimento consacrato da irrevocabilità.
Per queste ragioni, il ricorso proposto da NOME COGNOME deve ritenersi infondato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 5 novembre 2024.