Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 9981 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 9981 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 29/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a Limbadi il 27/8/1961
avverso l’ordinanza della Corte d’Appello di Salerno del 3/9/2024
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso*
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza in data 3.9.2024, la Corte d’Appello di Salerno ha dichiarato l’inammissibilità dell’istanza di revisione della sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro del 12.6.2006 (irrevocabile 1’8.1.2007), che confermava la sentenza di condanna di COGNOME del g.u.p. del Tribunale di Catanzaro del 15.3.2005 per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., rideterminando la pena nei suoi confronti in tre anni e otto mesi di reclusione.
1.1 L’ordinanza ha riassunto in premessa l’istanza difensiva nei termini di seguito esposti.
Il difensore di COGNOME rappresentava che, con la sentenza del 2006, il proprio assistito era stato ritenuto responsabile del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, in quanto partecipe del clan COGNOME, nella ramificazione che operava nella provincia di Vibo Valentia e che era dedita alla commissione di delitti contro il patrimonio e contro la persona dall’ottobre del 2001 all’ottobre del 2003.
L’istanza evidenziava, in particolare, che gli esiti delle intercettazioni disposte nel procedimento sorreggevano, oltre alla contestazione del reato associativo, anche i reati di cui al capo 57), per il quale si era poi proceduto separatamente nel proc. n. 2758/17 definito con sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro dell’11.10.2017, e i reati di cui ai capi 58), 59), 60), 61) e 62). Per tali ultimi rea era intervenuta la assoluzione del ricorrente nel medesimo procedimento del reato associativo, mentre per l’estorsione di cui al capo 57) in danno dei fratelli COGNOME, COGNOME era stato assolto nel separato procedimento, dopo l’annullamento con rinvio della iniziale condanna della Corte di Appello di Catanzaro, essenzialmente in base ad un giudizio negativo sulla credibilità delle persone offese.
In definitiva, l’unica vicenda – secondo la difesa – che aveva rivelato un rapporto di cointeressenza tra il ricorrente e COGNOME, promotore dell’associazione, era appunto l’estorsione in danno dei COGNOME, per la quale COGNOME era stato infine assolto; sotto questo profilo, non potevano altrimenti valorizzarsi le dichiarazioni di altri soggetti ritenuti appartenenti al stesso nucleo familiare, perché si limitavano a commentare la notizia dell’arresto di COGNOME nelle intercettazioni.
Di conseguenza, ricorreva la situazione di conflitto prevista dall’art. 630, comma 1, cod. proc. pen., in quanto la sentenza del 2017 aveva privato la sentenza del 2006 dell’elemento fattuale da cui era stata fatta discendere la prova della condotta associativa del ricorrente.
1.2 Ciò detto, l’ordinanza impugnata ha proceduto ad un vaglio preliminare di ammissibilità ex art. 634 cod. proc. pen. e ha osservato che, in astratto, il contrasto di giudicati rilevante ai fini della revocabilità di un provvedimento definitivo non ricorre nel caso in cui i diversi giudici attribuiscono una diversa valutazione giuridica e/o probatoria a fatti ricostruiti in maniera identica sotto il profilo oggettivo nei due processi.
Di conseguenza, ha richiamato le fonti di prova e le valutazioni poste a fondamento della sentenza di condanna di cui si era stata chiesta la revisione.
Ha ritenuto palesemente infondato l’assunto difensivo, in quanto l’imputazione da cui COGNOME è stato assolto nel secondo giudizio non costituisce un fatto storico allegato a sostegno dell’imputazione associativa, basandosi il compendio probatorio che ha giustificato la condanna per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. sulle intercettazioni richiamate nelle sentenze di primo e
secondo grado, che registravano i commenti di soggetti inseriti nell’associazione, i quali descrivevano il soggetto denominato “Scarpuni” (o “Luni Scarpuni”), da identificarsi secondo lo stesso ricorrente in COGNOME, come il braccio destro del capo NOME COGNOME; in particolare, “COGNOME” operava per conto di NOME COGNOME, poteva contare sull’aiuto di “soldati”, proteggeva i commercianti della zona, controllava nevralgiche attività economiche nel vibonese, si ingeriva negli appalti di opere pubbliche e cercava di intromettersi nelle estorsioni gestite dall’altro sottogruppo del clan COGNOME. In questo passo della sentenza, si richiamavano le fonti di prova emerse nel procedimento relativo all’estorsione ai danni di COGNOME, ma, in realtà, la vicenda in questione, nella sentenza di condanna, rilevava solo al fine dell’identificazione di COGNOME come il soggetto denominato “COGNOME“. Viceversa, la verificazione o meno dell’estorsione ai danni di COGNOME è da ritenersi irrilevante ai fini della condanna.
Secondo la Corte d’Appello di Salerno, in definitiva, la sentenza del 2017, nella parte in cui afferma che non vi è prova dell’estorsione per la inattendibilità delle persone offese, non contrasta con i fatti affermati nella sentenza di condanna per l’art. 416-bis cod. pen. Nemmeno può accedersi alla tesi difensiva per cui non possono comunque valorizzarsi le dichiarazioni di altri soggetti appartenenti allo stesso nucleo familiare, perché quelle dichiarazioni erano oggetto di intercettazione e descrivevano COGNOME come membro organico dell’articolazione associativa facente capo a NOME COGNOME: si tratta del nucleo centrale della sentenza della Corte di Appello di Catanzaro, passata in giudicato e, quindi, non sindacabile nella sede della revisione.
Pertanto, la seconda sentenza non è incompatibile con la prima perché non affronta affatto i temi di prova valorizzati nella pronuncia di condanna, né rileva argomentare che COGNOME è stato assolto da tutte le imputazioni in relazione ai reati fine, in quanto l’appartenenza all’associazione può prescindere dalla commissione dei singoli reati fine, di regola essendo invece sufficiente la prova della collocazione in un dato organigramma con date mansioni e della condivisione degli scopi criminali associativi.
Avverso la predetta ordinanza, ha proposto ricorso il difensore di COGNOME condannato, articolando un unico motivo, con il quale deduce la violazione degli artt. 630, comma 1, lett. a), 631 e 634 cod. proc. pen.
Il ricorso rileva che, in materia di giudizio di revisione, costituisce ipotesi di contrasto di giudicati quella in cui i due pronunciamenti risultano incompatibili rispetto a una circostanza di fatto oggetto di ricostruzione e non già rispetto alla valutazione che della circostanza hanno reso i due provvedimenti giurisdizionali.
Tuttavia, la Corte di Appello di Salerno, pur enunciando tale principio di diritto all’inizio della sua analisi, lo ha poi totalmente disatteso.
Infatti, con l’istanza di revisione si era evidenziato che la sentenza di condanna collocava COGNOME nell’associazione che operava nel vibonese e si erano richiamate le considerazioni secondo cui l’imputato era stato riconosciuto come l’affiliato dotato di maggiore carisma culturale, immediato destinatario delle direttive di COGNOME, a cui dava specifica esecuzione avvalendosi di un gruppo di “soldati”. Anche le altre contestazioni dei capi da 58) a 62) dell’imputazione esplicitavano il ruolo di COGNOME come sovraordinato rispetto COGNOME che del primo recepiva le direttive per la commissione degli illeciti orientati alla realizzazione dei fini associativi.
Con la istanza di revisione era stata segnalata, in senso diametralmente opposto, la inconciliabilità di tali affermazioni rispetto all’assoluzione di COGNOME per la estorsione in danno di COGNOME, imputazione per la quale egualmente era stato contestato al ricorrente di avere agito in esecuzione di direttive impartite da COGNOME. Dunque, dalla affermazione della insussistenza del fatto di estorsione, risultava evidentemente anche l’insussistenza dell’ingerenza di COGNOME da cui provenivano le direttive per l’odierno ricorrente.
A fronte di tale evenienza, la Corte d’Appello è incorsa in un errore avente ad oggetto sia la violazione dei criteri di valutazione in punto di ammissibilità della revisione, sia il travisamento della prova.
In primo luogo, la Corte ha omesso di considerare che l’assoluzione ha una diretta interdipendenza rispetto al procedimento principale, dal quale l’imputazione di cui al capo 57) era stata non a caso stralciata. In secondo luogo, non ha considerato che la stessa piattaforma probatoria, che sosteneva le imputazioni di cui ai capi da 58) a 62), ha condotto a un giudizio assolutorio anche nella prima sentenza. Dunque, è ancor più palese l’errore in cui è incorsa l’ordinanza laddove ha omesso di considerare che, venute meno quelle contestazioni, l’unica vicenda che residuava era quella di cui al capo 57), avente ad oggetto l’estorsione in danno di COGNOME.
Di conseguenza, è frutto di un chiaro errore di apprezzamento giuridico l’affermazione dell’ordinanza secondo cui il giudizio assolutorio non scalfisce il giudizio di condanna e la posizione rivestita da COGNOME nell’associazione.
Questa conclusione si basa su valutazioni di merito che non possono avere ingresso nella fase della mera valutazione di ammissibilità dell’istanza di revisione. Costituisce principio interpretativo consolidato, infatti, quello secondo cui la delibazione preliminare di inammissibilità può intervenire solo quando non abbia determinato alcun apprezzamento di merito della regiudicanda. A questa fase di preliminare apprezzamento, rimane del tutto estranea la valutazione concernente l’effettiva capacità delle allegazioni difensive di travolgere il giudicato. L’ordinanza
impugnata, invece, fonda il giudizio di inammissibilità su una valutazione nel merito del contenuto dell’accertamento operato nell’ambito del processo definito con sentenza passata in giudicato.
Con requisitoria scritta trasmessa il 31.10.2024, il Sostituto Procuratore Generale ha chiesto il rigetto del ricorso, osservando che la critica rivolta dal ricorrente al provvedimento impugnato non coglie nel segno perché la Corte d’appello non delinea il rapporto tra i due giudicati in termini di incompatibilità ricostruttiva di fatti storici (l’appartenenza all’associazione e la condotta estorsiva), ma in termini di autonomia valutativa delle prove a base di essi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e deve essere disatteso.
Le doglianze difensive devono essere esaminate in relazione alla pronuncia di inammissibilità della istanza di revisione di COGNOME e, perciò, vanno evidentemente rapportate alla verifica della sussistenza dei requisiti per la declaratoria specificamente prevista dall’art. 634 cod, proc. pen.
Il ricorso contesta che la delibazione di inammissibilità abbia richiesto alla Corte d’Appello di Salerno di operare una valutazione nel merito, che non sarebbe consentita in questa fase di preliminare apprezzamento della istanza di revisione.
A tal proposito, deve tenersi conto che, laddove la prospettazione della parte istante sia quella della inconciliabilità di giudicati ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., il giudizio sull’ammissibilità o meno della domanda di revoca della sentenza non può prescindere, sin dalla fase preliminare, da una pur sommaria valutazione e comparazione tra le due sentenze che si assumono in contrasto (Sez. 2, n. 29373 del 18/9/2020, Rv. 280002 – 01).
Tale controllo è finalizzato alla verifica, tra l’altro, della pertinenza della decisione che avrebbe introdotto il fatto antagonista, rispetto ai fatti oggetto del giudizio di condanna che si chiede di sottoporre a revisione (Sez. 1, n. 50460 del 25/05/2017, Rv. 271821 – 01).
In questa prospettiva, va considerato che il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili di cui all’art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., deve essere inteso come una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici stabiliti a fondamento delle diverse sentenze, non già alla contraddittorietà logica tra le valutazioni operate nelle due decisioni (v. Sez. 1, n. 8419 del 14/10/2016, Rv. 269757 – 01); ne consegue che gli elementi in base ai quali si chiede la revisione devono essere, a pena di inammissibilità, tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto.
E’ stato evidenziato, a tal riguardo, che, nella disamina richiesta in tema di revisione, occorre, innanzitutto, che i fatti storici – vale a dire gli accadimenti materiali su cui si radica la nozione di “fatto” penalmente significativa sul versante del ne bis in idem – siano gli stessi e che, in secondo luogo, risultino “fondamentali” ai fini delle decisioni poste in comparazione, giacché, ove mancasse il requisito della necessaria decisività, la diversa ricostruzione degli stessi fatti non potrebbe mai fungere da elemento che travolge la “tenuta” intrinseca della decisione oggetto di revisione; infine, è essenziale il requisito della inconciliabilità, il quale significa che la diversa ricostruzione del medesimo fatto deve pervenire ad approdi fra loro alternativi (Sez. 2, n. 11453 del 10/3/2015, Rv. 263162 – 01; cfr., da ultimo, anche Sez. 4, n. 154714 dell’11/1/2014, non mass.; Sez. 5, n. 26619 del 22/2/2019, non mass.).
Muovendosi nel solco di questi criteri ermeneutici, l’ordinanza della Corte d’Appello di Salerno è pervenuta alla declaratoria di inammissibilità dell’istanza di revisione di COGNOME COGNOME in modo immune da censure.
L’apprezzamento dei giudici, infatti, ha preso le mosse dalla prima fase della sequenza procedimentale sopra delineata, consistita nella verifica che sul piano meramente astratto sussistesse una inconciliabilità di contenuti tra le sentenze in questione.
Si tratta di una condizione in mancanza della quale non è possibile accedere al secondo segmento procedimentale. L’esistenza di una sentenza penale revocabile, che affermi fatti inconciliabili con quelli posti a fondamento della sentenza di condanna di cui si chiede la revisione, costituisce condizione necessaria e sufficiente per la declaratoria di ammissibilità del giudizio di revisione (Sez. 1, n. 31263 del 30/5/2014, Rv. 260238 – 01).
Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata ha correttamente dato atto che le due sentenze hanno ad oggetto imputazioni diverse.
I giudici della Corte d’Appello, cioè, hanno evidenziato che, ad una mera lettura delle sentenze stesse, non fosse ravvisabile contrasto, in quanto l’estorsione per cui è intervenuta l’assoluzione non costituiva un fatto storico a sostegno della condanna per il reato di associazione, la quale si è basata invece sugli esiti delle intercettazioni e non ha mai richiamato le fonti di prova impiegate nel processo relativo all’estorsione, né ha mai ritenuto la condotta da cui COGNOME COGNOME è stato assolto nell’altro processo come caratterizzante la sua partecipazione all’associazione di stampo mafioso.
Inoltre, l’ordinanza ha condivisibilmente puntualizzato che la prova su cui si è fondata l’assoluzione per il reato-fine è, in definitiva, irrilevante per la prova della partecipazione al reato associativo, tenuto conto che, in materia di reati associativi, la commissione dei “reati-fine” non è necessaria ai fini della prova della
sussistenza della condotta di partecipazione (da ultimo, Sez. 4, n. 11470 del 9/3/2021, Rv. 280703 – 02).
Si tratta di una motivazione adeguata e non illogica, che bene si conforma al principio secondo cui il ricorso all’istituto della revisione è ammissibile solo ove si intenda emendare un errore sulla ricostruzione del fatto e non sulla valutazione dello stesso, che costituisce l’essenza stessa della giurisdizione (Sez. 4, n. 46885 del 7/11/2019, Rv. 277902 – 01): per questo motivo, è stato più volte ribadito che la norma dell’art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. non si riferisce ad un’inconciliabilità di natura logica tra due decisioni, bensì all’accertamento dei fatti stabiliti a fondamento della sentenza, che non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra decisione irrevocabile.
A fronte di tale motivazione, il ricorso si risolve essenzialmente nella richiesta di una non consentita rivalutazione nel merito di elementi già scrutinati dalla Corte d’Appello, mediante l’adozione di parametri diversi di ricostruzione dei fatti, in funzione della dimostrazione, non già della identità dei fatti giudicati con le due sentenze, bensì della loro pretesa interdipendenza e della conseguente valenza riduttiva che sarebbe derivata alla prova del reato associativo dall’assoluzione per l’estorsione.
Ma, in questo modo, l’impugnazione tende a far coincidere l’inconciliabilità dei giudicati con una valutazione di contraddittorietà logica tra le valutazioni operate nelle due sentenze, anziché con una oggettiva incompatibilità tra fatti storici.
Quella dell’inconciliabilità dei giudicati è, in definitiva, una quaestio facti, che, dunque, richiede innanzitutto di verificare che i fatti storici oggetto delle decisioni in comparazione siano gli stessi.
L’ordinanza impugnata, avendo in modo congruo escluso che sussistesse l’inconciliabilità tra la sentenza di condanna per il reato associativo e la sentenza di assoluzione per il reato-fine di estorsione, si è ragionevolmente arrestata alla declaratoria di inammissibilità dell’istanza difensiva per il difetto del presupposto per proseguire oltre nella sequenza procedimentale prevista per il giudizio di revisione.
Ne consegue, pertanto, che il ricorso deve essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M. GLYPH
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. co e
Così deciso il 29.11.2024
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