Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 38457 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 38457 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 10/07/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a ROMA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 25/03/2024 della CORTE APPELLO di GENOVA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;
Letta la memoria del difensore;
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 25 marzo 2024 la Corte di appello di Genova ha dichiarato inammissibile l’istanza di revisione proposta nell’interesse di NOME COGNOME avverso la sentenza del Tribunale di Pistoia n. 1604/2014 del 4 dicembre 2014, irrevocabile in data 23 settembre 2022, limitatamente alla pena comminata per la riconosciuta aggravante di cui all’articolo 99, comma quarto, cod. pen.
La richiesta era funzionale ad ottenere la declaratoria di estinzione dei reati contestati per essere intervenuta la prescrizione prima della sentenza della Corte di appello e, conseguentemente, la rettifica della sentenza di condanna con eliminazione della quota pena determinata ai sensi dell’art. 99, comma quarto, cod. pen. e, infine, la revoca dell’ordinanza emessa in data 8 febbraio 2023 dal Tribunale di Pistoia, in funzione di giudice dell’esecuzione, limitatamente alla disposta revoca dell’indulto già riconosciuto sul cumulo di pene concorrenti emesso dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma il 23 settembre 2009.
Con l’istanza originaria era stata prospettata l’erronea applicazione della recidiva, secondo parametri valutabili sin dal giudizio di primo grado e, in secondo luogo, l’illegittima applicazione dell’aggravante, tenuto conto delle decisioni della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, quale effetto automatico derivante dalla sua contestazione, anziché all’esito di una valutazione di merito in punto di rapporto tra ricaduta nel reato e pericolosità sociale.
In particolare, alla luce della disamina dei precedenti presenti sul certificato del Casellario e gravanti su COGNOME al momento della pronuncia della sentenza della quale è stata chiesta la revisione, avrebbe potuto essere contestata allo stesso la sola recidiva di cui all’art. 99, comma terzo, cod. pen. (recidiva specifica infraquinquennale), non quella di cui all’art. 99, comma quarto, cod. pen. (recidiva reiterata specifica infraquinquennale).
Ciò, tenuto conto del provvedimento di cumulo sopra citato, della conseguente applicazione dell’indulto su una porzione di pena unificata e della estinzione di altra porzione di pena per effetto dell’affidamento in prova al servizio sociale.
La pena inflitta con la precedente (alla sentenza del Tribunale di Pistoia) condanna si era estinta a seguito del positivo espletamento dell’affidamento in prova al servizio sociale e, quindi, non avrebbe potuto essere considerata ai fini della recidiva.
Ex ante, quindi, avrebbe potuto essere contestata la sola recidiva di cui all’art. 99, comma terzo, cod. pen., mentre, ex post, l’applicazione dell’aggravante avrebbe potuto avvenire solo previa valutazione nel merito del giudice competente.
Dalla combinata applicazione di tali parametri, sarebbe derivata l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, tenuto conto del tenore della contestazione.
Così riassunti i complessi termini della questione posta dal ricorrente, il giudice dell’esecuzione ha ritenuto, pur nella segnalata rilevanza dei temi sollevati, l’inammissibilità dell’istanza a ragione della tassatività dei presupposti della revisione e della mancanza di una clausola residuale nell’art. 630 cod. pen. che consenta un’interpretazione estensiva delle ipotesi ivi contemplate.
La Corte di appello ha ritenuto la questione più propriamente scrutinabile nelle forme dell’incidente di esecuzione, ovvero, dalla Corte di cassazione in sede di ricorso per errore di fatto ai sensi dell’art. 625b1s cod. pen.
Avverso il provvedimento ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME, a mezzo del proprio difensore AVV_NOTAIO, articolando un motivo con il quale ha eccepito il vizio di contraddittorietà della motivazione.
Pur avendo affermato la sussistenza degli errores in iudicando in punto di contestazione della recidiva e la rilevanza delle questioni sollevate nell’istanza di revisione, la stessa è stata dichiarata inammissibile senza un adeguato confronto con le motivazioni a sostegno dell’idoneità delle circostanze addotte al superamento del giudicato.
L’elemento nuovo a supporto della richiesta era stato introdotto con riferimento a quanto deciso da Sezioni Unite n. 32318 del 2023 in punto di recidiva reiterata ed obbligo motivazionale del giudice che la ritiene configurabile.
Tale statuizione costituirebbe il novum idoneo a scardinare il giudicato e, a catena, a determinare tutti gli effetti sui provvedimenti successivi alla sentenza del Tribunale di Pistoia.
Ha ampiamente motivato in punto di ratio del giudizio di revisione in termini di conformazione dei pronunciamenti giurisdizionali ai superiori principi sanciti dalla Corte costituzionale e dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, inclusi i mutamenti giurisprudenziali.
In tal senso sono state richiamate le sentenze delle Sezioni Unite che hanno ampliato la nozione di revisione e la rilevanza, nel caso di specie, del tema della illegalità della pena.
Il Procuratore generale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
Nell’interesse del ricorrente è stata depositata memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile e in tal senso depongono plurime ragioni.
In primo luogo, si osserva che l’istanza è finalizzata, tenuto conto delle conclusioni rassegnate nell’atto introduttivo, a far valere la prescrizione in sede di revisione e ciò non è consentito, stante l’orientamento, qui condiviso, secondo cui «è inammissibile la richiesta di revisione intesa a far valere l’estinzione per prescrizione del reato maturata durante il giudizio, ma non rilevata d’ufficio né dedotta dalla parte. (Conf. S.U. n. 6019/93, Rv. 193421)» (Sez. 1, n. 8250 del 14/12/2018, dep. 2019, Pisano, Rv. 274919).
La richiesta di revisione è stata proposta con riferimento all’errata applicazione della recidiva di cui all’art. 99, comma quarto, cod. pen. nell’ambito del procedimento definito con sentenza del Tribunale di Pistoia del 4 dicembre 2014, irrevocabile il 23 settembre 2022.
Il tema è stato sollevato sotto un duplice profilo che, logicamente, è quello di seguito esposto.
In primo luogo, a seguito dell’esito favorevole della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, una delle due condanne precedentemente subite dal ricorrente, non avrebbe potuto essere considerata ai fini della ritenuta recidiva che, pertanto, avrebbe dovuto essere qualificata, semmai, ai sensi dell’art. 99, comma terzo, cod. pen. e non del comma successivo.
Ci si riferisce alla condanna indicata sub n. 6) del certificato del casellario giudiziale.
Quale conseguenza di tale corretta qualificazione della recidiva, in conformità a quelli che sono gli arresti costanti e recenti della giurisprudenza di legittimità e della Corte costituzionale, sarebbe stato onere del giudice fornire adeguata motivazione dell’incidenza dei precedenti penali (dell’unico, a quel punto, pregiudizio residuato) ai fini della valutazione della maggiore pericolosità sociale del reo.
3.1. La decisione della Corte di appello di Genova assunta con il provvedimento impugnato sarebbe affetta da contraddittorietà in quanto, pur avendo dato atto della rilevanza dei temi, il giudice ha ritenuto l’inammissibilità dell’istanza omettendo di confrontarsi con il merito della stessa.
Viene richiamato, quale elemento nuovo introdotto con l’istanza di revisione l’orientamento giurisprudenziale secondo cui «in tema di recidiva reiterata contestata nel giudizio di cognizione, ai fini della relativa applicazione è sufficiente che, al momento della consumazione del reato, l’imputato risulti gravato da più sentenze definitive per reati precedentemente commessi ed espressivi di una maggiore pericolosità sociale, oggetto di specifica ed adeguata motivazione, senza la necessità di una previa dichiarazione di recidiva semplice» (Sez. U, n. 32318 del 30/03/2023, Sabbatini, Rv. 284878).
L’arresto si riferisce, quindi, alla recidiva reiterata di cui al quarto comma dell’ad. 99 cod. pen. che, a dire del ricorrente, non dovrebbe trovare applicazione, vedendosi in tema di recidiva ai sensi dell’art. 99, comma terzo, cod. pen.
Peraltro, l’elemento di novità introdotto con la decisione delle Sezioni Unite invocate dal ricorrente è solo apparentemente tale.
Invero sul punto della motivazione ai fini della recidiva lo stato dell’elaborazione giurisprudenziale è consolidato da tempo e, sul punto, non si registrano né scostamenti di sorta, né novità di rilievo.
Giova segnalare come nel fondamentale arresto costituito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 192 del 2007 siano state dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’ad. 69, comma quarto, cod. pen., in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, 101, secondo comma, e 111, primo e sesto comma, della Costituzione nella parte in cui, nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee, stabilisce il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata prevista dall’ad. 99, comma quarto., cod. pen.
Le questioni erano state sollevate sulla premessa che la norma avrebbe introdotto «una indebita limitazione del potere-dovere del giudice di adeguamento della pena al caso concreto – adeguamento funzionale alla realizzazione dei principi di eguaglianza, di necessaria offensività del reato, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena introducendo un «automatismo sanzionatorio», correlato ad una presunzione iuris et de iure di pericolosità sociale del recidivo reiterato».
Nel dichiarare inammissibili le questioni, la Corte costituzionale ha segnalato la plausibilità di una lettura alternativa e costituzionalmente conforme della norma censurata avendo i rimettenti dato per presupposta la tesi della obbligatorietà della recidiva reiterata.
In sostanza, non può escludersi la possibilità di una interpretazione della disciplina della recidiva reiterata nel senso che l’obbligatorietà riguarda la misura dell’aumento della pena da applicare nel caso in cui la stessa venga ritenuta
sussistente e non anche la sua automatica configurabilità nel caso della ricaduta nel delitto da parte di chi ne abbia commessi altri in precedenza.
Una prima applicazione significativa di tale prospettiva interpretativa si è avuta con l’affermazione del principio di diritto per cui «la recidiva, operando come circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole, va obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero, in ossequio al principio del contraddittorio, ma può non essere ritenuta configurabile dal giudice, a meno che non si tratti dell’ipotesi di recidiva reiterata prevista dall’art. 99, comma quinto, cod. pen., nel qual caso va anche obbligatoriamente applicata. (Nell’enunciare tale principio, la Corte ha precisato che, in presenza di contestazione della recidiva a norma di uno dei primi quattro commi dell’art. 99 cod. pen., è compito del giudice quello di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all’eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali)». (Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247838).
La necessità di una valutazione idonea a formulare un accertamento specifico della relazione qualificata tra condizione e fatto è stata ribadita da Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664, nell’ottica del «ripudio di qualsiasi automatismo, ossia dell’instaurazione presuntiva di una relazione qualificata tra status della persona e reato commesso e il recupero della valutazione discrezionale cui è correlato uno specifico obbligo motivazionale».
Si tratta di percorso interpretativo che ha trovato ulteriore conferma in altra decisione della Corte costituzionale che, con sentenza n. 185 del 2015, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 99, comma quinto, cod. pen. che, per l’ipotesi di reati di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen. prevedeva l’obbligatorietà della recidiva, avendo ravvisato in tale disposizione, per l’automatismo sanzionatorio in essa definito alla luce del titolo del nuovo reato, un contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.
Parimenti è stata esclusa la possibilità di giustificare la previsione in ragione di una presunzione assoluta di più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo che non può trovare fondamento in un dato di esperienza generalizzato.
Altra violazione è stata ravvisata in ordine all’art. 27, comma terzo, Cost., per la violazione del principio di proporzione tra offesa e sanzione.
Si tratta di profilo ribadito, più di recente, da a Sez. U, n. 3585 del 24/09/2020, dep. 2021, Li Trenta, Rv. 280262 ove, ancora una volta e nell’ottica dell’abbandono di ogni teoria e orientamento tesi a ritenere la recidiva uno status soggettivo suscettibile di verifica meramente documentale, è stato precisato che la recidiva produce i propri effetti solo se il giudice ne accerta i requisiti costitutivi e la dichiara verificando la presenza della precedente condanna «ma anche il presupposto sostanziale, costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere del reo da accertarsi discrezionalmente, con obbligo specifico di motivazione sia nel caso che venga riconosciuta sia nell’ipotesi che venga esclusa».
L’obbligo della motivazione, in punto di recidiva, costituisce acquisizione della giurisprudenza di legittimità e parametro di valutazione della conformità dell’assetto codicistico alla Costituzione, secondo orientamenti privi del connotato della novità.
3.2. Ulteriore profilo di manifesta inammissibilità del ricorso, risiede nella natura tassativa delle ipotesi di cui all’art. 630 cod. proc. pen che non contempla la fattispecie del mutamento giurisprudenziale fra i presupposti legittimanti la revisione.
In disparte la non secondaria considerazione che il ricorso continua a non spiegare in quale tra le ipotesi di cui all’art. 630 cod. proc. pen. dovrebbe rientrare quella sottoposta alla Corte di appello di Genova, occorre svolgere qualche breve considerazione generale in punto di rilevanza della giurisprudenza ai fini del sovvertimento del giudicato.
Sono trancianti ed assorbenti le considerazioni svolte dalla sentenza della Corte costituzionale n. 230 del 2012 che, a proposito della parallela fattispecie dell’art. 673 cod. proc. pen. ha ampiamente affrontato il tema dell’efficacia del mutamento giurisprudenziale, del rapporto con il principio di legalità in materia penale e della sostanziale inidoneità dello stesso a sovvertire il giudicato penale.
La Corte ha deciso la questione di legittimità relativa all’art. 673 cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede l’ipotesi di revoca della sentenza di condanna (o di decreto penale di condanna o di sentenza di applicazione della pena su concorde richiesta delle parti) in caso di mutamento giurisprudenziale intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge penale come reato».
La Corte costituzionale, a proposito dell’affermazione secondo cui l’art. 7 CEDU sancisce, implicitamente il principio di retroattività della legge penale più mite, ha evidenziato come la Corte EDU si sia occupata del principio di irretroattività della legge sfavorevole, ritenendo contraria alla norma convenzionale l’applicazione, a fatti anteriormente commessi, di un indirizzo
giurisprudenziale estensivo della sfera operativa di una fattispecie criminosa.
Da tale riconoscimento, tuttavia, non può automaticamente ricavarsi l’esigenza convenzionale di rimuovere, in nome del principio di retroattività della lex mitior, le decisioni giudiziali definitive non sintoniche con il sopravvenuto mutamento giurisprudenziale in bonam partem (peraltro, nel caso di specie, in materia processuale), in quanto i due principi hanno diverso fondamento.
Sul punto, è stato precisato che «La Corte di Strasburgo non ha mai sinora riferito, in modo specifico, il principio di retroattività della lex mitior mutamenti di giurisprudenza. I giudici europei si sono occupati di questi ultimi oltre che nella generale prospettiva della verifica dei requisiti di «accessibilità» e «prevedibilità» della legge penale, ritenuti insiti nella previsione dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU – solo con riferimento al diverso principio dell’irretroattività della norma sfavorevole: ritenendo, in particolare, contraria alla norma convenzionale l’applicazione a fatti anteriormente commessi di un indirizzo giurisprudenziale estensivo della sfera operativa di una fattispecie criminosa, ove la nuova interpretazione non rappresenti un’evoluzione ragionevolmente prevedibile della giurisprudenza anteriore (su tale premessa, per soluzioni opposte nei casi esaminati, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenze 10 ottobre 2006, COGNOME contro Francia e 22 novembre 1995, S.W. contro Regno Unito; nonché, più di recente, sentenza 10 luglio 2012, COGNOME contro Spagna, nei limiti in cui i principi interpretativi siano applicabili al nostro ordinamento)».
La Corte costituzionale ha ritenuto, a proposito della nozione di diritto di cui all’art. 7 CEDU, che, proprio sulla base di questa interpretazione convenzionale, si debba rilevare “che il principio di legalità penale convenzionale sia meno comprensivo” di quello accolto dal nostro ordinamento, in quanto ad esso resta estraneo il principio di riserva di legge così come stabilito dall’art. 25 comma secondo, Cost., il quale attribuisce la funzione legislativa unicamente al Parlamento, eletto a suffragio universale dalla collettività nazionale, al fine di garantire un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche.
Sul punto ha precisato che «l’irretroattività della norma penale sfavorevole rappresenta uno strumento di garanzia del cittadino contro persecuzioni arbitrarie, espressivo dell’esigenza di «calcolabilità» delle conseguenze giuridicopenali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale: esigenza con la quale contrasta un successivo mutamento peggiorativo “a sorpresa” del trattamento penale della fattispecie. Nessun collegamento con la predetta libertà ha, per converso, il principio di retroattività della norma più favorevole, in quanto la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, cui l’autore si era liberamente e consapevolmente
autodeterminato in base al panorama normativo (e giurisprudenziale) dell’epoca: trovando detto principio fondamento piuttosto in quello di eguaglianza, che richiede, in linea di massima, di estendere la modifica mitigatrice della legge penale, espressiva di un mutato apprezzamento del disvalore del fatto, anche a coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore».
Il percorso motivazionale attraverso il quale la Corte costituzionale ha sostanzialmente escluso l’assimilabilità dei mutamenti giurisprudenziali, nel settore penale, alle modifiche normative e, quindi, l’assoggettabilità di tali mutamenti ai principi di retroattività per quelli in melius e di irretroattività per quelli in malam partem (prospective overruling) si è snodato attraverso altri fondamentali passaggi.
Nella prospettiva della Corte costituzionale, gli orientamenti giurisprudenziali espressi dalle Sezioni Unite sono istituzionalmente diretti ad acquisire il carattere della stabilità, ma si tratta di una connotazione solo tendenziale, trattandosi di una efficacia non cogente ma di «tipo essenzialmente “persuasivo”».
E così, il nuovo orientamento proposto dalla Suprema Corte, sarebbe potenzialmente suscettibile di essere disatteso in qualunque tempo e da qualunque giudice, sia pure con l’onere di adeguata motivazione.
In questa logica, ha concluso la Corte costituzionale, si giustifica «il mancato riconoscimento all’overruling giurisprudenziale favorevole della capacità di travolgere il principio di intangibilità della res iudicata, espressivo dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici esauriti: esigenza il cui fondamentale rilievo è ampiamente riconosciuto anche nell’ambito dell’Unione europea».
La Corte costituzionale, con riguardo al principio di retroattività della legge più favorevole al reo, lo ha circoscritto alla successione delle leggi, affermando che la sua estensione ai mutamenti giurisprudenziali dovrebbe passare, necessariamente, dalla dimostrazione che il rapporto tra due diverse interpretazioni giurisprudenziali equivale a quello tra diverse fonti di natura normativa.
Il contrasto della disposizione sottoposta all’esame della Corte con gli artt. 13 e 27, comma terzo, Cost. è stato escluso in ragione della infondatezza della pretesa che «la consecutio tra diversi orientamenti giurisprudenziali equivalga ad una operazione creativa di nuovo diritto (oggettivo), così da giustificare il richiesto intervento dilatativo del perimetro di applicazione dell’istituto delineato dall’art. 673 cod. proc. pen.».
Tale interpretazione, secondo la Corte costituzionale, «comporterebbe la consegna al giudice, organo designato all’esercizio della funzione giurisdizionale, di una funzione legislativa, in radicale contrasto con i profili fondamentali dell’ordinamento costituzionale».
Allo stesso modo deve escludersi, stante l’esigenza prioritaria della stabilità degli accertamenti giurisdizionali, la possibilità che un orientamento giurisprudenziale, sempre suscettibile di essere rivisitato nonostante provenga dalle Sezioni Unite (art. 618, comma lbis, cod. proc. pen.), possa essere posto a fondamento di una istanza di revisione, ossia di una richiesta funzionale a sovvertire un accertamento coperto da giudicato.
Peraltro, la stabilità del giudicato pure a fronte dei mutamenti giurisprudenziali a Sezioni Unite è stata affermata anche da altri arresti di seguito indicati.
S’intende fare riferimento al costante insegnamento di legittimità con riferimento alla richiesta di revoca della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen.: la sentenza di condanna passata in giudicato non può essere revocata nell’ipotesi in cui, in assenza di innovazione legislativa ovvero di declaratoria di incostituzionalità, si verifichi un mutamento dell’interpretazione giurisprudenziale di una disposizione rimasta invariata, in quanto tale mutamento – anche se sancito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – non determina alcun effetto abrogativo della disposizione interpretata ((Sez. U, Sentenza n. 26259 del 29/10/2015,dep. 2016, Mradi, Rv. 266872, in motivazione; Sez. 7, n. 10458 del 25/01/2019, Petullà, Rv. 276294; Sez. 1, n. 11076 del 15/11/2016, dep. 2017, Bibo, Rv. 269759); analogamente, con riferimento alle norme processuali, è stato affermato che non può essere addotta, a fondamento di una richiesta di ineseguibilità del giudicato ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen., la violazione dei principi espressi dalle Sezioni unite della Corte dì cassazione nella sentenza n. 27620 del 2016, Dasgupta, in tema di necessaria rinnovazione in appello della prova dichiarativa nel caso di riforma di sentenza assolutoria, rappresentando essi l’esito di un percorso interpretativo che, pur traendo spunto dalla giurisprudenza della Corte EDU, ha ad oggetto il sistema processuale interno ed è destinato ad uniformare solo per il futuro l’orientamento giurisprudenziale, in ragione del suo valore nomofilattico, senza possibilità di incidere retroattivamente ab extrinseco nei casi in cui già si sia formato il giudicato (Sez. 1, n. 53389 del 16/01/2018, Topo, Rv. 274554). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Si tratta di orientamento del tutto coerente a quanto, da tempo, deciso delle Sezioni Unite con l’arresto con il quale è stato affermato che «l’obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi alla sentenza della Corte di Cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa è assoluto ed inderogabile anche se sia intervenuto un mutamento di giurisprudenza dopo la detta sentenza. (Nella specie il mutamento di giurisprudenza atteneva al criterio cui deve aversi riguardo per individuare la violazione da ritenersi più grave ai fini della determinazione della pena per il reato continuato). (Sez. U, n. 4460 del
19/01/1994, COGNOME, Rv. 196893).
Va ulteriormente precisato che il tema della recidiva, con riferimento alla rilevanza dell’affidamento in prova e del condono, è stato preso in considerazione dalla sentenza della Corte di cassazione nel procedimento definito in primo grado dalla sentenza del Tribunale di Pistoia del 4 dicembre 2014.
Nella sentenza n. 45085 del 23/09/2023, di legge quanto segue: «2. Il secondo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza. È certamente esatto che laddove la causa di estinzione della pena, anche se parziale, estingua anche gli effetti penali, non può tenersi conto della condanna ai fini della recidiva e della dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato (Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011, dep. 2012, Marcianò, Rv. 251689 – 01). Ma nel caso di specie, le considerazioni della Corte territoriale attengono ad altro profilo: ossia il fatto che l’affidamento in prova non ha riguardato i reati per i quali la pena è stata condonata. Quanto al profilo -introdotto soltanto in sede di discussione orale della sussistenza dei presupposti di applicabilità della recidiva reiterata, nel senso che non sarebbe stata ritenuta in precedente giudizio la recidiva, può solo rilevarsi che la doglianza denuncia una violazione di legge che non è stata prospettata con il ricorso per cassazione e che non riguarda il tema della legalità della pena, nei termini che giustificano l’intervento officioso del giudice dell’impugnazione. Al riguardo, va ribadito che a tali fini va individuata una nozione circoscritta di pena illegale che, senza investire i modi del concreto esercizio del potere discrezionale assegnato al giudice di merito (e, pertanto, senza coinvolgere i profili di erronea applicazione dei criteri commisurativi), ha riguardo ai confini che segnano, nel quadro della legalità costituzionale, il fondamento della potestà punitiva, imponendo, rispetto al risultato di tutela dei diritti fondamentali, una coerente lettura del sistema processuale. Rientra pertanto in tale nozione la sanzione non prevista dall’ordinamento giuridico ovvero superiore ai limiti previsti dalla legge o ancora più grave per genere o specie di quella individuata in astratto dal legislatore. Tale non è il caso del quale si discute, come conferma la giurisprudenza secondo la quale, in tema di concordato in appello, ai sensi dell’art. 599-bis cod. proc. pen., è inammissibile il ricorso per cassazione con il quale, pur essendo stata formalmente dedotta l’illegalità della pena, in realtà si contesta l’errato riconoscimento della recidiva reiterata infraquinquennale ritenendone insussistenti i presupposti (Sez. 1, n. 30403 del 09/09/2020, Bellobuono, Rv. 279788 – 01; v. anche, in tema di patteggiamento, le stesse conclusioni per il caso che, pur essendo stata formalmente dedotta l’illegalità della pena, in realtà si contesti l’errato riconoscimento della recidiva reiterata infraquinquennale ritenendone Corte di Cassazione – copia non ufficiale
insussistenti i presupposti: Sez. 6, n. 25273 del 23/05/2018, COGNOME, Rv. 273392 – 01)»,
A ben vedere, quindi, anche il profilo dell’illegalità della pena, pure sollevato dal ricorrente nell’impugnazione in esame, è stato già affrontato e risolto in sede di cognizione con la conseguenza che non può essere riproposto nel giudizio di revisione.
Né può assumere rilievo decisivo, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, quanto esposto da questa Corte nella sentenza n. 50126 del 14/11/2023 pronunciata nel giudizio promosso avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione in tema di revoca dell’indulto concesso a Portacelo ove pure era stata posta la questione della rilevanza, ai fini della recidiva, della condanna espiata in regime di affidamento in prova al servizio sociale.
In quel caso, questa Corte, nel ritenere inammissibile la relativa doglianza, ha prospettato la possibilità di far valere le relative ragioni del ricorrente in sede di ricorso straordinario o revisione «sempre che ne sussistessero le condizioni».
Non è quindi ipotizzabile alcun contrasto tra la presente decisione e quella precedente ora citata.
Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile.
Alla dichiarazione di inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuale e, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186 della Corte costituzionale e in mancanza di elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità» al versamento della somma, equitativannente fissata in euro tremila, in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 10/07/2024