Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 22283 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 22283 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME, nata a Cles il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 18/09/2023 della Corte di appello di Trieste visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME AVV_NOTAIO; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; letta la memoria di replica, nell’interesse della ricorrente, depositata dal difensore, AVV_NOTAIO.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Trieste, con ordinanza del 18 settembre 2023 resa in esito a udienza camerale partecipata, ha dichiarato inammissibile per manifesta
infondatezza l’istanza di revisione proposta da NOME COGNOME avverso la sentenza di patteggiamento del giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di RAGIONE_SOCIALE del 17 giugno 2020.
La sentenza di patteggiamento a carico della RAGIONE_SOCIALE è relativa ad una pluralità di reati di truffa, peculato e altro fra i quali il reato di tentato abuso in atti di contestato al capo a), (artt. 56, 110, 323 cod. pen.), in concorso con NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, per i quali si era proceduto separatamente.
Secondo l’imputazione COGNOME NOME, in qualità di dirigente del RAGIONE_SOCIALE, successivamente nominata presidente della commissione giudicatrice, nell’ambito della procedura concorsuale indetta per l’assunzione a tempo indeterminato di “un funzionario tecnico”, intenzionalmente poneva in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a procurare ingiusto vantaggio patrimoniale a NOME COGNOME e a NOME COGNOME risultati primo e secondo classificato -, non riuscendo a portare a consumazione il reato per fatti indipendenti dalla sua volontà. Secondo la contestazione l’imputata aveva agito in concorso con NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, ricercatori e membri della RAGIONE_SOCIALE – una struttura dell’RAGIONE_SOCIALE che aveva rapporti di lavoro con il RAGIONE_SOCIALE CUE e con i quali collaborava sistematicamente -, in violazione di norme di legge e regolamento (artt. 37, legge n. 7 della Provincia Autonoma di RAGIONE_SOCIALE del 3 aprile 1997, e 3, comma 1, lett. a) del decreto del n. 22/102/leg. del 12 ottobre 2007 del Presidente della Provincia autonoma di RAGIONE_SOCIALE e 51 cod. proc. civ.), che ne imponevano l’astensione anche perché sia COGNOME che NOME erano coautori di produzioni scientifiche con la COGNOME,
2.1 coimputati della COGNOME, con sentenza del giudice dell’udienza preliminare del 17 giugno 2020, emessa a seguito di rito abbreviato, erano stati condannati per il medesimo reato, ma con sentenza della Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE del 12 novembre 2021 sono stati assolti perché il fatto non sussiste.
La sentenza di appello ha rilevato che emergevano indici distonici sul punto del confezionamento a misura di COGNOME e COGNOME dei requisiti del bando del concorso, al quale avevano partecipato numerosi candidati, concorso bandito in forza di titoli non abbastanza selettivi (la laurea in ingegneria delle telecomunicazioni) e che non erano, di per sè, indici rivelatori della surrettizia scelta di restringere la cerch dei candidati in modo da favorire i due prescelti, tanto è vero che, esclusi i cinque candidati che non avevano il titolo richiesto, al concorso avevano partecipato altri dodici candidati, ammessi alla prova d’esame. Evidenziava, altresì, che non si era in presenza di un concorso per soli titoli ma di un concorso per titoli e esami, con
prova scritta e orale, giudicati da una commissione esaminatrice attraverso una procedura nella quale non risulta accertata alcuna ingerenza indebita della COGNOME.
3.La Corte di appello di Trieste, con l’ordinanza impugnata, ha ritenuto condivisibile, in via AVV_NOTAIO, la tesi della inammissibilità della richiesta di revisio della sentenza di applicazione pena fondata sulla fattispecie di cui all’art. 630, lett a) cod. proc. pen. poiché nella sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. non vi è il riferimento ai fatti storici sui quali dovrebbe fondarsi la sentenza medesima ed è insufficiente, al fine di ricostruire la motivazione, il riferimento, del giudice che pronuncia la sentenza, alla insussistenza di elementi sui quali dovrebbe fondarsi l’applicazione dell’art. 129 cod. proc. pen.
In prosieguo, tuttavia, la Corte territoriale ha esaminato l’istanza di revisione facendo applicazione dell’orientamento secondo cui non sussiste una pregiudiziale preclusione alla possibilità di sottoporre a revisione la sentenza di applicazione pena anche ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. a) cod. proc. pen., pervenendo alla conclusione che non sussiste contrasto tra giudicati, agli effetti dell’art. 630 comma 1, lett. a) cod. proc. pen., poiché i fatti posti a base delle due decisioni sono stati identicamente ricostruiti dal punto di vista del loro accadimento oggettivo ed il diverso epilogo giudiziale è frutto di difformi valutazioni.
4.Con i motivi di ricorso, sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. pro nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione, la ricorrent denuncia:
4.1. violazione di legge, in relazione all’art. 629 cod. proc. pen. e agli artt 3,13,24, comma 4, 25, comma 2, 27 Cost. e 7 Cedu, nella parte in cui l’ordinanza impugnata ha escluso la possibilità di accedere alla revisione in caso di sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. La tesi sostenuta dalla Corte di appello di Trieste, generalizzando affermazioni contenute nelle sentenze che ha richiamato, ma che si riferiscono a temi diversi, omette di esaminare la incidenza della modifica dell’art. 629 cod. proc. pen. che, a seguito della legge del 12 giugno 2003 n. 134, assoggetta espressamente a revisione le sentenze emesse a sensi dell’art. 444 cd. proc., modifica seguita da giurisprudenza ormai assestata nel senso di ammettere, a determinate condizioni, la revisione della sentenza di applicazione pena. La giurisprudenza si è occupata, specificamente, del caso in cui sia allegato il contrasto della sentenza di patteggiamento con la sentenza di merito, nei confronti di coimputato: in tal caso la inammissibilità non può innestarsi sulla diversità del rito e delle valutazioni compiute nell’una e nell’altr decisione ma la inconciliabilità deve riferirsi ai fatti stabiliti a fondamento del sentenza di condanna pronunciata nel giudizio ordinario.
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La dichiarazione di inammissibilità della revisione di una sentenza di applicazione pena, alla luce dalla giurisprudenza di legittimità, è adottata in violazione dell’art. 629 cod. proc. pen., e dei principi innanzi richiamati risolvendosi nell’applicazione di una pena illegale perché priva di base legale e di giustificazione, secondo il percorso tracciato dalla Corte EDU, nel caso COGNOME, e dalla giurisprudenza di legittimità.
Né è condivisibile l’affermazione dell’ordinanza impugnata secondo cui “l’assenza nella motivazione della sentenza di patteagmento di un riferimento, anche minimo, agli elementi di fatto sui quali poggia la condanna patteggiata, crea non poche difficoltà di ordine logico con riferimento alla dedotta ipotesi di revisione della sentenza ex art. 444 cod. poc. pen.”, tenuto conto che, nel caso in esame, il giudice aveva escluso la sussistenza dell’ipotesi di cui all’art. 129 cod. proc. pen. “alla luce degli elementi probatori, univoci e concordanti, rispetto alla realizzazione del reato contestato e alla sua attribuibilità all’imputata”, precisandoli, alla streg delle condotte descritte nell’imputazione, e delle fonti di prova;
4.2. violazione di legge (in relazione all’art. 630 lett. a) cod. proc. pen.) cumulativi vizi di motivazione nella parte in cui l’ordinanza impugnata ha utilizzato una erronea accezione del “fatto”, motivando illogicamente sull’asserito contrasto tra i diversi fatti ricostruiti e nella parte in cui ha assunto a termine di confro non la sentenza patteggiata e quella di assoluzione ma la sentenza di primo grado nei confronti dei coimputati e quella successiva, resa in appello, nel medesimo procedimento. Rileva che la giurisprudenza ha precisamente enucleato la portata del contrasto tra giudicati sulla base della nozione di fatto che, secondo l’accezione individuata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 200 del 2016, non può individuarsi nel “mero accadimento storico” ma “nella sua dimensione giuridica”, che costituisce la risultante di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi e, quindi, quando vi sia corrispondenza storiconaturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona. In sintesi, tenuto conto della natura del reato di abuso di ufficio, il fatto deve essere considerato quale risultato dell’addizione di elementi selezionati secondo criteri normativi, tipizzando, una precisa species facti, indicandone i segmenti di interesse sotto il profilo normativo, ossia giuridico penale, comprensivi della condotta materiale e tali per cui, al modificarsi di uno solo di essi, si otterrà un fatto diverso su cui innestare (medesime) valutazioni giuridiche.
L’ordinanza impugnata ha errato nella individuazione della sentenza oggetto di confronto (non era, infatti, quella divenuta irrevocabile e definitiva) e ha valorizzato aspetti della vicenda che non sono il fatto processuale ma accadimenti
specifici (i requisiti previsti per la partecipazione al concorso; la bozza di bando, poi non pubblicato; il criterio di selezione dei candidati; le esigenze di personale richieste dalla COGNOME), trascurando che il reato di cui all’art. 323 cod. pen. è fattispecie intrisa di elementi normativi che rendono punibile un medesimo accadimento storico che, altrimenti, sarebbe pienamente lecito. Gli elementi di fatto valorizzati nell’ordinanza impugnata al fine di verificare se, effettivamente, fosse ravvisabile un abuso nella indizione del bando per il reclutamento del persona1e, hanno stravolto la prospettiva fattuale a base della sentenza di patteggiamento, ciò che non può essere irrilevante ai fini della revisione.
5.11 difensore della ricorrente ha fatto pervenire memoria di replica evidenziando, in particolare, che la sentenza di appello a carico dei coimputati ha diversamente ricostruito i fatti con riferimento alle distinte procedure di selezione del personale, e, quindi, sulla individuazione del fatto storico che è a base, rispettivamente, delle sentenze di condanna e di assoluzione e che tale fatto, così come ricostruito nella sentenza di assoluzione, è inconciliabile con la ricostruzione in fatto che è alla base della sentenza di patteggiamento a carico della ricorrente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato e l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte di appello di Bologna per il giudizio di revisione.
2.Deve essere esaminato preliminarmente il primo motivo di ricorso perché l’ordinanza impugnata si pone in contrasto con la disposizione recata dall’art. 629, comma 1, cod. proc. pen. e con la più recente e maggioritaria giurisprudenza di legittimità che ammette, in presenza di inconciliabilità tra i fatti stabili fondamento della sentenza di applicazione pena e quelli oggetto del giudicato formatosi nel giudizio nei confronti di coimputato, la revisione della sentenza di applicazione pena ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. a) cod. proc. pen.
La lettera della disposizione recata dall’art. 629 comma 1, cod. proc. pen., a seguito della modifica apportata con l’art. 3, comma 1, della I. 12 giugno 2003 n. 134, che ha ampliato la tipologia di sentenze soggette a revisione prevedendo espressamente la revisione delle sentenze emesse ai sensi dell’art. 444 comma 2, cod. proc. pen., non è suscettibile, per la generalità della previsione, di una interpretazione che la priverebbe di risultati concreti qualora si dovesse seguire la tesi sostenuta nell’ordinanza impugnata, che esclude tout court l’ammissibilità
della revisione della sentenza di patteggiannento in relazione ad uno dei casi previsti dall’art. 630 cod. proc. pen.
La Corte di appello di Trieste, a sostegno della tesi della inammissibilità, rileva che nella sentenza di applicazione pena non vi è alcun riferimento ai fatti storici sui quali dovrebbe fondarsi la sentenza medesima e, inoltre, che la struttura stessa dell’accertamento giudiziario che caratterizza il giudizio di applicazione pena, in quanto pronunciato all’esito di una procedura priva della ricostruzione probatoria del fatto e dell’accertamento della responsabilità penale dell’autore, risulta incompatibile con la verifica di inconciliabilità con i fatti stabiliti in altra sent irrevocabile.
Tali argomenti, condivisi anche da una parte della giurisprudenza di legittimità contraria all’ammissibilità della revisione della sentenza di applicazione pena per contrasto di giudicati (Sez. 1, n. 4417 del 17/10/2017, dep. 2018, Gjini, Rv. 272293; conf. Sez. 3, n. 13032 del 18/12/2013, dep. 2014, Tosi, Rv. 258687), sono, ad avviso del Collegio, erronei e cedevoli se confrontati con la ratio che giustifica l’istituto della revisione, che è quella di emendare l’errore di fatto c emerge dal confronto fra i giudicati.
Le Sezioni Unite, occupandosi delle condizioni della revisione, hanno sottolineato la necessità di superare la tradizionale concezione del giudicato e di privilegiare le esigenze di giustizia, rispetto a quella formale della intangibilità della certezza del giudicato, il cui fondamento giustificativo, per quanto rilevante, è di natura eminentemente pratica, così che ben può essere sacrificato in nome di esigenze che rappresentano l’espressione di superiori valori costituzionali (S.U. n. 624 del 26/09/2011, dep. 2002, Pisano, Rv. 220443): una esigenza comune a tutte le tipologie di sentenze, anche quelle di applicazione pena, rispetto alle quali, si è osservato che “è proprio la natura ontologicamente “debole” dell’accertamento sotteso alla sentenza di applicazione della pena a rendere più acuta l’istanza di garanzia assecondata dalla revisione, sicché dato normativo e considerazione sistematica convergono nel far ritenere la sentenza di patteggiamento suscettibile di revisione per inconciliabilità dei giudicati” (Sez. 5, n. 43631 del 05/10/2023, Riva, Rv. 275320).
Vanno segnalate ulteriori sentenze delle Sezioni Unite di questa Corte che, sia pure incidentalmente, hanno richiamato la riforma del 2003 ricostruendo la natura delle sentenze di applicazione pena ed esaminandone gli effetti (S.U., n. 36084 del 06/10/2005, COGNOME; n. 17781 del 29/11/2005 (dep. 2006), COGNOME; n. 6141 del 25/10/2018, COGNOME). Si tratta di riferimenti certamente non esaustivi ma che corroborano la conclusione che la sentenza di applicazione pena è resa in danno di una persona condannata, sicché è giustificata la previsione di assoggettarla a revisione.
Particolarmente significativo, a questo fine, il principio che la sentenza di patteggiamento, in ragione dell’equiparazione legislativa ad una sentenza di condanna in mancanza di un’espressa previsione di deroga, costituisce titolo idoneo per la revoca, a norma dell’art. 168, comma primo, n. 1 cod. pen., della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa (Sez. U, n. 17781, COGNOME, Rv. 233518) e la ricostruzione sistematica dell’istituto della revisione, contenuta nella sentenza COGNOME.
A tal fine si è affermato che la necessità della previsione di un giudizio di revisione è contemplata dall’art. 24, quarto comma, della Costituzione, che, nell’imporre al legislatore ordinario di determinare «le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari», ineludibilmente ha costituzionalizzato anche lo strumento processuale finalizzato alla revoca delle sentenze di condanna frutto dei predetti errori, e trova conferma ulteriore nell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, poiché la «rieducazione del condannato», cui le pene devono tendere, non deve aver luogo nei confronti di un innocente. Il diritto alla revisione, quale inalienabile diritto della persona, trova riconoscimento anche in plurime fonti sovranazionali poste a tutela dei diritti umani: l’art. 4, VII Protocollo a Convenzione EDU prevede – in deroga al divieto di bis in idem la possibilità della riapertura del processo «se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta» e nell’art. 14, § 6, del Patto internazionale relativo ai diritti civ politici (S.U. n. 6141 del 25/10/2018, cit.).
3.Ciò premesso, può passarsi all’esame del secondo motivo.
3.1. L’ordinanza impugnata, nella parte in cui ha esaminato la sussistenza della inconciliabilità tra i fatti posti a fondamento della sentenza di applicazione pena nei confronti di NOME COGNOME e i fatti sui quali si è fondata la sentenza di assoluzione della Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE nei confronti dei coimputati, ha travalicato dal perimetro del giudizio di inammissibilità per manifesta infondatezza, ai sensi dell’art. 634 cod. proc. pen., spingendosi ad una valutazione riservata alla fase di merito in cui, sulla base della diversa realtà fattuale irrevocabilmente accertata in altra sentenza passata in giudicato, deve essere verificato che il compendio probatorio sul quale si è basata la sentenza di condanna impugnata sia irrimediabilmente compromesso (Sez. 1, n. 31263 del 30/05/2014, COGNOME, Rv. 260238).
I giudici della Corte di appello di Trieste, ai fini della individuazione dei fa oggetto della sentenza di patteggiamento – cioè dei fatti rilevanti da confrontare con quelli oggetto della sentenza di assoluzione dei coimputati intervenuta in grado di appello – hanno completamente trascurato i fatti emergenti dalla contestazione
e riportati nella imputazione della sentenza ex art. 444 cod. proc. pen., limitandosi ad esaminare i fatti come ricostruiti nella sentenza di condanna di primo grado a carico dei coimputati, che, resa in esito a giudizio abbreviato, si fondano, in tesi, sul medesimo compendio probatorio.
In particolare, muovendo dall’assunto pregiudiziale secondo cui la sentenza di applicazione pena non contiene i fatti oggetto di addebito, i giudici di appello hanno messo a confronto la sentenza di condanna in primo grado degli imputati e la sentenza di assoluzione omettendo, tuttavia, di esaminare i fatti a carico della COGNOME, desumibili con chiarezza dall’imputazione (ampia ed estesa) e nella quale erano enunciati non solo la condotta e l’evento del reato ma anche le pregresse intese e i contatti volti al confezionamento del bando, adattato ai requisiti professionali dei candidati che si voleva favorire, intese e contatti che, secondo la contestazione richiamata, avevano determinato la illegittimità della procedura di selezione.
Si tratta, in conclusione, di una prospettiva erronea poiché, ai fini del contrasto tra giudicati, la verifica del giudice della revisione non può prescindere dai fatti addebitati all’imputato quali risultano dalla sentenza oggetto della domanda di revisione.
Il punto centrale censurabile della decisione impugnata è costituito dalla individuazione della nozione di fatto a base del giudizio di revisione.
L’ordinanza ha richiamato, a questo riguardo, i fatti che sono a base delle contrapposte sentenze (di condanna e assoluzione) nei confronti dei correi concludendo che si tratta dei medesimi fatti, oggetto di differente valutazione da parte dei diversi giudici.
In particolare, ha ritenuto che:
il contenuto del bando era stato sì “ampliato”, rispetto alla bozza predisposta dalla COGNOME, dato questo evidenziato dalla sentenza assolutoria, ma per iniziativa dell’ufficio del personale permettendo, così, rispetto ai requisi confezionati a misura dei soggetti che si voleva favorire, una più ampia platea di partecipanti;
b. la previsione della prova per esami era stata oggetto di valutazione anche del giudice dell’udienza preliminare che aveva condannato i coimputati (e, anzi, la tipologia di concorso era indicata fin nel capo di imputazione) e, quindi, tale dato costituisce elemento valutato diversamente dalla Corte di appello che ha evidenziato come il favoritismo verso i candidati “preferiti” avrebbe dovuto essere concertato anche con gli altri componenti della commissione (circostanza non provata) e non costituisce fatto storico diverso;
c. è frutto di diversa valutazione l’apprezzamento della continuità fra i bandi, aspetto che il giudice dell’udienza preliminare aveva esaminato per inferirne la maggiore responsabilità della COGNOME, che aveva preferito l’assunzione a tempo indeterminato, mentre la Corte di appello aveva valorizzato che fin dal 2015 la COGNOME aveva manifestato l’esigenza di assunzione di personale a tempo indeterminato.
Invero, il punto controverso è proprio quello della nozione di fatto da porre a base del giudizio di inconciliabilità poiché, in relazione al reato di cui all’art. cod. pen., secondo la condivisibile tesi svolta nel ricorso, il fatto accertato non s identifica in un mero accadimento materiale ma costituisce il risultato dell’addizione di elementi normativi della fattispecie richiamati nel precetto penale.
Il Collegio non ignora i precedenti che, in materia di revisione, fondano il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili precisando che tale concetto deve essere inteso con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici stabiliti a fondamento delle diverse sentenze e non alle divergenti valutazioni in ordine ad elementi normativi della fattispecie, fondate sulla medesima ricostruzione in punto di fatto (Sez. 6, n. 34927 del 17/04/2018, Delbono, Rv. 273749).
Si tratta, tuttavia, di una conclusione che, ferma restando la necessità di distinguere tra l’inconciliabilità di fatti e la divergenza di valutazioni giuridic che resta fuori da perimetro censurabile attraverso la revisione – non è condivisibile alla stregua delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza n. 200 del 2016 della Corte costituzionale nella quale ai fini del divieto di bis in idem si è affermato che l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storiconaturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale), con la conseguenza che gli elementi normativi della fattispecie sono stati individuati come elementi che concorrono a delineare la nozione di fatto.
Nel giudizio di revisione di cui all’art. 630, comma 1, lett. a) cod. proc. pen., in relazione al reato di abuso di ufficio, la individuazione dei “fatti” rilevanti ai della valutazione di inconciliabilità implica non solo la verifica degli accadimenti storici o fattuali, apprezzati ineludibilmente nella loro connotazione storiconaturalistica (o empirica), ma anche l’accertamento, che è giuridico-fattuale, degli elementi normativi che concorrono ad integrare la condotta.
Detto in altre parole, ai fini della revisione, il giudizio di inconciliabilità può esaurirsi nella verifica di un mero accadimento storico (ad es., nel caso in esame, il contenuto del bando), che è dato di per sé neutro, implicando un’analisi che va condotta alla stregua degli elementi – la violazione dell’obbligo di
astensione e, in AVV_NOTAIO, la violazione di legge – che, sulla base della contestazione, concorrono a delinearne la illiceità.
In relazione al reato di abuso di ufficio, il fatto deve essere considerato quale risultato dell’addizione di elementi selezionati secondo criteri normativi, tipizzando una species facti, che costituisce la piattaforma sulla quale si innestano le valutazioni in diritto, come correttamente evidenziato nel ricorso.
L’interpretazione consolidatasi sull’art. 630, comma 1, lett. a) cod. proc. pen., secondo cui non sussiste una pregiudiziale preclusione alla possibilità di sottoporre a revisione la sentenza di applicazione pena anche ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. a) cod. proc. pen., dovendosi intendere il concetto di inconciliabilità f sentenze irrevocabili non in termini di mero contrasto di principio tra le decisioni, bensì con riferimento ad un’oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui ess si fondano (Sez. 6, n. 16477 del 15/02/2022, Frisullo, Rv. 283317), non collide con la possibilità che la revisione possa applicarsi alle ipotesi in cui l’elemento che concorre alla definizione dell’illecito – qual è nel delitto di abuso d’ufficio violazione della normativa in materia di astensione o la violazione di legge – venga successivamente smentito per effetto di una ricostruzione dei fatti che sia incompatibile con la prospettata illegittimità dell’atto, e, dunque, sulla base di una sentenza che ha escluso la sussistenza dei fatti-reato in contestazione. Di conseguenza, vi sarà inconciliabilità tra i fatti, e non mera divergenza di valutazioni giuridiche, qualora tra la prima e la seconda decisione non via sia corrispondenza storico naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suo elementi costitutivi.
5.Secondo le conclusioni dell’ordinanza impugnata non emergevano dalla sentenza di assoluzione fatti inconciliabili con quelli a base della sentenza di patteggiamento in merito al reato di tentativo di abuso in atti di ufficio ascritto all COGNOME che, in estrema sintesi, era consistito nella predisposizione di un bando di concorso confezionato a seguito delle intese con i candidati risultati vincitori e cucito sui requisiti di NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Si tratta, tuttavia, di un errore che discende dalla limitata accezione del fatto che l’ordinanza impugnata ha posto a fondamento della decisione e in cui la selezione del fatto rilevante ai fini del giudizio di inconciliabilità è rimasta confina ai meri accadimenti storico-naturalistico (il contenuto del bando; la previsione della prova per esami; la sequenza delle procedure), accadimenti slegati dalla loro dimensione giuridica laddove, secondo la stessa contestazione, il contenuto del bando era illecito perché frutto della concertazione del suo contenuto con i candidati e della maliziosa sovrapposizione tra le due procedure (quella di
reclutamento di personale a tempo determinato e quella di reclutamento a tempo indeterminato).
Tali connotati sono stati, invece, esclusi dalla sentenza di asscluzione nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME per effetto di una ricostruzione dell’iter del procedimento in cui è stato accertato un antefatto (la richiesta dell’agosto 2015, cd. job prescription) al quale erano estranei i predetti candidati e la sequenza di due diverse procedure (una relativa al cd. progetto comunitario IHero), che aveva giustificato il concerto tra la RAGIONE_SOCIALE e la società RAGIONE_SOCIALE nella indicazione dei criteri di selezione del personale che avrebbe dovuto partecipare al bando.
Anche sul secondo punto (relativo al superamento della selezione per titoli), la Corte d’Appello ha escluso che la COGNOME abbia esercitato qualsiasi controllo in commissione, così introducendo un fatto diverso e confliggente con quello posto a fondamento della contestazione.
Inoltre la Corte di appello ha ritenuto che la collegialità della decisione fosse «incompatibile, in assenza di contestazioni a carico degli altri commissari, con l’idoneità delle azioni messe in campo a favorire i due ricercatori risultati poi vincitori», mentre il giudice dell’udienza preliminare aveva ritenuto irrilevante la collegialità in ragione della «primazia esercitata dalla COGNOME non soltanto in ragione del suo ruolo di Presidente ma anche in considerazione delle competenze specialistiche».
La diversa valutazione, discende, evidentemente, dalla differente ricostruzione del fatto che ne funge da presupposto e che, come anticipato, la Corte di appello di Trieste, con l’ordinanza impugnata, ha ritenuto riconducibile esclusivamente al fatto storico-naturalistico, privo di tutti i suoi connotati giuridic fattuali e, così, dilatando oltremodo il perimetro della valutazione del giudice, che resta al di fuori del giudizio di revisione, valutazione nella quale è stato assorbito ogni connotato del fatto, in quanto riconducibile agli indici normativi della fattispecie penale di abuso di ufficio.
6. Consegue che l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio, per il giudizio di revisione, alla Corte di appello di Bologna che sulla base della descritta nozione di fatto, dovrà procedere al giudizio di revisione e verificare se i fatti, cos come accertati nella sentenza di patteggiamento, si pongano su un piano di insanabile inconciliabilità logica con i fatti così come accertati nella sentenza di assoluzione a carico dei concorrenti nel reato così da far venire meno gli elementi costitutivi del reato ascritto all’imputata che ha definito la sua posizione con il ri speciale e che ha promosso l’impugnazione straordinaria.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per il giudizio di revisione alla Corte di appello di Bologna.
Così deciso il 7 febbraio 2024
La Consigliera relatrice
Il Presidente