Revisione della Sentenza per Contrasto di Giudicati: il Caso dell’Autocalunnia
L’istituto della revisione della sentenza rappresenta un baluardo fondamentale del nostro sistema giuridico, uno strumento eccezionale per porre rimedio a eventuali errori giudiziari anche dopo che una condanna è divenuta definitiva. Tuttavia, le condizioni per accedervi sono estremamente rigorose. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ci offre un’interessante analisi su uno dei presupposti per la revisione: il contrasto di giudicati, in un caso che coinvolge una condanna per rapina e una successiva, paradossale, condanna per autocalunnia.
Il Fatto: Una Condanna per Rapina e una Successiva per Autocalunnia
La vicenda giudiziaria ha origine da una sentenza di condanna per rapina, divenuta irrevocabile, emessa nei confronti di un imputato. Tale condanna si basava, tra gli altri elementi, sulle dichiarazioni di una testimone.
Successivamente, la stessa testimone si era autodenunciata per il reato di calunnia, sostenendo di aver falsamente accusato l’imputato. Tuttavia, il procedimento scaturito da questa autodenuncia si è concluso con una sentenza di patteggiamento non per calunnia, ma per il reato di autocalunnia. In pratica, i giudici hanno ritenuto che la donna avesse falsamente accusato sé stessa di aver commesso una calunnia, confermando indirettamente la veridicità della sua accusa originaria.
L’Istanza di Revisione della Sentenza
Forte di questa seconda sentenza, il condannato per rapina ha presentato un’istanza di revisione della sentenza alla Corte di appello, sostenendo la sussistenza di un ‘contrasto di giudicati’ ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. a) del codice di procedura penale. Secondo la sua tesi, la condanna della sua accusatrice dimostrava l’inattendibilità delle sue dichiarazioni originali, minando così le fondamenta della propria condanna. La Corte di appello, però, ha dichiarato l’istanza inammissibile, decisione contro cui l’uomo ha proposto ricorso in Cassazione.
Le Motivazioni della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, definendolo ‘manifestamente infondato’ e confermando la decisione dei giudici d’appello. Il cuore della motivazione risiede in una rigorosa analisi logico-giuridica delle due sentenze messe a confronto.
I giudici hanno spiegato che, lungi dall’esserci un contrasto, le due decisioni sono perfettamente coerenti. La sentenza di condanna per autocalunnia nei confronti della donna non smentisce le sue accuse iniziali contro il rapinatore, ma, al contrario, le conferma. Il reato di autocalunnia (art. 369 c.p.p.) si configura quando una persona accusa sé stessa di un reato che sa non essere mai avvenuto. Nel caso specifico, la donna è stata condannata per essersi falsamente accusata del reato di calunnia. Questo, per deduzione logica, significa che l’accusa di rapina che lei aveva originariamente mosso non era una calunnia, bensì era veritiera.
Di conseguenza, la seconda sentenza non costituisce un ‘novum’ capace di incrinare il giudicato della prima condanna, ma ne rafforza la validità. Non può quindi sussistere un ‘contrasto di giudicati’, poiché non vi è alcuna inconciliabilità tra l’affermare che Tizio è colpevole di rapina e che Caia è colpevole per aver falsamente tentato di ritrattare la sua veritiera accusa.
Conclusioni: Nessun Contrasto di Giudicati
La pronuncia della Cassazione ribadisce un principio fondamentale: la revisione della sentenza non è un quarto grado di giudizio, ma un rimedio eccezionale attivabile solo in presenza di presupposti tassativi e inequivocabili. Un presunto contrasto di giudicati deve essere reale, insanabile e logico, non solo apparente o basato su un’interpretazione errata degli esiti processuali.
Questo caso dimostra come una lettura attenta e logica dei provvedimenti giudiziari sia essenziale. Una condanna per autocalunnia, in un contesto simile, non indebolisce l’impianto accusatorio originario, ma lo consolida. La decisione della Corte, dichiarando inammissibile il ricorso e condannando il ricorrente al pagamento delle spese, chiude definitivamente la porta a un tentativo di revisione basato su un presupposto giuridicamente e logicamente insussistente.
Una condanna per autocalunnia può giustificare la revisione della sentenza di condanna originaria?
No, anzi, la rafforza. La Corte di Cassazione ha chiarito che la condanna per autocalunnia presuppone che l’accusa originaria (quella che si è tentato di ritrattare) fosse veritiera. Pertanto, non solo non crea un contrasto di giudicati, ma conferma la colpevolezza dell’imputato originario.
Cos’è il ‘contrasto di giudicati’ necessario per la revisione della sentenza?
Si ha un contrasto di giudicati quando due sentenze irrevocabili, riguardanti lo stesso fatto e la stessa persona, giungono a conclusioni inconciliabili. In questo caso, la Corte ha stabilito che le due sentenze non erano affatto inconciliabili, ma logicamente coerenti.
Perché l’istanza di revisione è stata dichiarata inammissibile?
L’istanza è stata dichiarata inammissibile perché manifestamente infondata. Non sussisteva il presupposto del contrasto di giudicati invocato dal ricorrente, in quanto la sentenza per autocalunnia non smentiva, ma confermava, la fondatezza dell’accusa che aveva portato alla condanna per rapina.
Testo del provvedimento
Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 1284 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 1284 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 20/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME COGNOME nato il 29/0§/1990 a Taranto
avverso l’ordinanza in data 08/05/2024 della Corte di appello di Potenza visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza dell’08/05/2024 la Corte di appello di Potenza ha dichiarato inammissibile l’istanza di revisione della sentenza di condanna pronunciata nei confronti di NOME COGNOME per il delitto di rapina dal G.u.p. del Tribunale di Taranto in data 05/11/2020, confermata dalla Corte di appello di Lecce e divenuta infine irrevocabile.
In particolare, la Corte di appello ha escluso che fosse ravvisabile contrasto di giudicati rilevante ex art. 630, comma 1, lett. a) cod. proc. peri. rispetto al sentenza emessa ai sensi dell’a rt. 444 cod. proc. pen. per il delitto di cui all’art 369 cod. proc. pen. nei confronti di NOME COGNOME che aveva accusato Pulpito del delitto di rapina.
Ha proposto ricorso COGNOME tramite il suo difensore.
Deduce violazione di legge e vizio di motivazione.
Contesta l’assunto della Corte secondo cui non ricorrerebbe il requisito della medesimezza del fatto: in realtà la condanna di COGNOME si fondava sulle dichiarazioni di COGNOME condannata per il delitto di cui all’art. 369 cod. pen. per essersi autodenunciata per il reato di calunnia avendo falsamente incolpato COGNOME di quello di cui all’art. 628 cod. pen. Il fatto non poteva che inerire alla denunci calunniatrice, che non poteva che provenire da altro soggetto poi condannato.
Contesta inoltre l’affermazione secondo cui la sentenza di condanna si fondava non solo sulle dichiarazioni accusatorie, poi ritrattate, quanto sull’esame visivo da parte dei testi di P.G. intervenuti nell’immediatezza: tale rilievo implicava che vi fosse necessità di motivazione per superare l’effetto sentenza-calunnia.
Infine, segnala che anche la sentenza di patteggiamento può dar luogo a conflitto di giudicati, fermo restando che il Giudice aveva dato atto della sussistenza dei fatti e della penale responsabilità.
L’istanza si fondava dunque su elemento sopravvenuto da ritenersi rilevante.
Il Procuratore generale (NOME COGNOME ha inviato la requisitoria concludendo per l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è manifestamente infondato.
Il novum invocato a fondamento dell’istanza di revisione è costituito dalla sentenza pronunciata nei confronti di NOME COGNOME ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. in relazione al reato di cui all’art. 369 cod. pen. contestato nei termini seguenti: «perché con denunzia presentata presso la Questura di Taranto incolpava se stessa del reato di calunnia, sapendo che lo stesso non era avvenuto, ovvero affermava di aver incolpato falsamente NOME NOME del reato di cui all’art. 628 cod. pen., circostanza smentita dai riscontri effettuati in sede indagini preliminari che comprovavano l’avvenuta consumazione della rapina».
E’ di tutta evidenza, a prescindere da ogni altra considerazione, che la sentenza di applicazione di pena nei confronti di NOME COGNOME non smentisce le accuse a carico di COGNOME ma le conferma, in quanto muove dal presupposto che fosse calunniosa l’accusa mossa da COGNOME a se stessa di aver falsamente accusato COGNOME: ciò infatti equivale a dire che l’accusa originaria era veritiera e che per questo può dirsi ravvisabile il delitto di autocalunnia, avverso il quale COGNOME ha palesato acquiescenza con la richiesta di applicazione di pena.
A ben guardare dunque non è neppure in astratto configurabile il presupposto del contrasto di giudicati, con ogni conseguenza in ordine all’inammissibilità del ricorso, da cui discende la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in relazione ai profili di colpa sottesi alla causa dell’inammissibilità, a quello della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 20/11/2024