Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 13796 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 13796 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 19/12/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOMECOGNOMENOME nato a PALERMO il 02/06/1966
avverso la sentenza del 04/06/2024 della CORTE APPELLO di CALTANISSETTA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria con la quale il Pubblico Ministero, in persona del Sostitut Procuratore generale NOME COGNOME ha concluso per il rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 4 giugno 2024 la Corte di appello di Caltanissetta rigettava l’istanza proposta nell’interesse di NOME COGNOME per ottenere la revisione della sentenza n. 2748 emessa dal Tribunale di Palermo in data 1° luglio 2020, irrevocabile il 19 giugno 2023, con la quale l’imputato era stato condannato alla pena di cinque anni e sei mesi di reclusione per aver concorso, in qualità di agente della Polizia Municipale di Palermo, nella commissione di diversi reati, unificati dal medesimo disegno criminoso, di falso ideologico in atti fidefacenti.
L’istanza di revisione si riferiva, specificamente, al capo I) dell’imputazione (artt. 81 cpv., 479 e 476, secondo comma, cod. pen.), ascritto al COGNOME per avere egli falsamente attestato, nella relazione di servizio redatta in data 29 maggio 2012, di essere stato avvicinato, con la collega NOME COGNOME il giorno 16 agosto 2011, da NOME COGNOME e NOME COGNOME i quali, a bordo dell’autovettura TARGA_VEICOLO targata TARGA_VEICOLO, gli chiesero “che venisse loro notificata un’infrazione all’art. 7 del Codice della strada rilevata con avviso n. H1956960 del 16 agosto 2011 alle ore 11.46 in INDIRIZZO.e veniva di conseguenza redatto alle ore 12.15 del 16.8.2011 v.c. n. 8564376 a carico di NOME in qualità di trasgressore, come lo stesso dichiarava di essere e della NOME in qualità di responsabile in solido…”.
La richiesta di revisione si fondava sulle seguenti tre prove documentali sopravvenute alla irrevocabilità della sentenza e allegate dalla difesa: 1) nota attestante che in data 16 marzo 2012.1a Questura di Palermo aveva trasmesso alla Procura della Repubblica e alla Polizia Municipale copia della querela che il COGNOME aveva sporto nei confronti dell’imputato in data 13 marzo 2012; 2) nota del 13 giugno 2012 con la quale il Comando della Polizia Municipale di Palermo, in riscontro alla richiesta del 16 marzo 2012, aveva inoltrato alla Questura di Palermo copia della relazione di servizio redatta il 29 maggio 2012 dal COGNOME; 3) comunicazione del 18 luglio 2012 inviata dal dott. NOME COGNOME al comandante NOME COGNOME attestante che tale relazione era finalizzata solo ad acquisire prove da utilizzare nei confronti del COGNOME nell’ambito dell’indagine penale già avviata nei suoi confronti.
Da tali documenti sarebbe risultato che la relazione di servizio redatta dall’imputato gli era stata richiesta non anche a fini istituzionali, ma, piuttosto, a fi investigativi.
La difesa, pertanto, invocava l’applicazione dell’ad 51 cod. pen., in quanto il COGNOME essendo soggetto coinvolto nell’accertamento penale promosso dal COGNOME, vantava il diritto a non contribuire alla propria incolpazione.
La Corte di appello di Caltanissetta fondava il rigetto della revisione sull’inapplicabilità della scriminante di cui all’art. 51 cod. pen. alla fattispecie di fa in atto pubblico, vertendosi, di fatto, nell’ipotesi in cui alcun procedimento penakl era stato attivato nei confronti dell’imputato.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’interessato, per il tramite del suo difensore, deducendo, quale unico motivo di ricorso, violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 51, 479, 476, primo e secondo comma, cod. pen. e 125 cod. proc. pen.
Ad avviso della difesa, dalle nuove prove documentali sarebbe risultato che, alla data della relazione di servizio, nonostante la mancata iscrizione del COGNOME nel registro degli indagati, questi era già stato individuato quale autore delle condotte denunciate dal COGNOME con la conseguenza che non poteva escludersi la pendenza di un procedimento penale a suo carico.
In particolare, la difesa contesta, in un’ottica di tutela delle garanzie difensive, il mancato riconoscimento della scriminante di cui all’art. 51 cod. pen.
Il Procuratore generale di questa Corte, nella sua requisitoria scritta, ha concluso per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso va dichiarato inammissibile.
Giova rammentare e ribadire in questa sede che, in tema di revisione, attesa la natura straordinaria del mezzo di impugnazione, è inammissibile la richiesta fondata su motivi già esaminati nel corso del giudizio (Sez. 5, n. 9169 del 31/01/2017, COGNOME, Rv. 269060 – 01).
In altri termini, se è consentito, a particolari condizioni, opporre il “deducibile”, non è, invece, compatibile con la struttura del mezzo lamentare nuovamente il già interamente “dedotto” nel giudizio di condanna, visto che, altrimenti, la revisione si troverebbe ad assumere l’improprio ruolo di ulteriore grado di impugnazione ordinaria.
2.1. Va, altresì, ricordato che è inapplicabile la scriminante dell’esercizio del diritto, ex art. 51 cod. pen. sub specie del principio “nemo tenetur se detegere” ai reati di falso in atto pubblico; né, in tal caso, sussiste la violazione dell’art. 6 CEDU, i quale nel riconoscere al soggetto il diritto a tacere e a non contribuire alla propria incriminazione a conferma e garanzia irrinunciabile dell’equo processo, opera esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale già attivato e non nella fase ad esso precedente e relativa alla commissione di un reato, stante la sua “ratio” consistente nella protezione dell’imputato da coercizioni abusive da parte dell’autorità (Sez. 3, n. 53656 del 03/10/2018, A., Rv. 275452 – 01; Sez. 5, n. 12697 del 20/11/2014, dep. 2015, COGNOME e altri, Rv. 263034 – 01).
Tanto premesso, occorre rilevare che, incontestata la circostanza di fatto per cui, quando compilò la relazione già menzionata, il ricorrente non era indagato e il relativo procedimento era stato aperto contro ignoti, la questione riproposta dalla difesa attiene a un tema di diritto che era stato già affrontato e risolto nella fase di legittimità del giudizio che ha portato alla condanna del COGNOMENOME COGNOME 2
Nella sentenza Sez. 5, n. 36947 del 19/06/2023, che ha determinato l’irrevocabilità della condanna in esame, si legge, infatti, sul punto, al par. 2 del
‘Considerato in diritto’:
«Il secondo motivo di censura è manifestamente infondato. Ed è sufficiente ribadire il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui la scriminante di cui
all’art. 51 cod. pen., nella forma del principio nemo tenetur se detegere
(per aver il pubblico ufficiale estensore dell’atto attestato il falso in ordine a quanto iv
rappresentato, al fine di non far emergere la propria responsabilità), non è applicabile ai reati di falso, non potendo la finalità probatoria dell’atto pubblico essere sacrificata
all’interesse del singolo di sottrarsi alle conseguenze di un delitto (Sez. 5, n. 23672 del
19/04/2021, Rv. 281406, con particolare riferimento alla falsa attestazione riferita ad una relazione di servizio; Sez. 5, n. 8579 del 30/11/2011, dep. 2012, Marino, Rv.
251945; Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012, COGNOME, Rv. 253545; Sez. 5, n. 12697 del
20/11/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 263034). Il conseguente diritto di non esporre circostanze autoincriminanti va, dunque, considerato recessivo ove si tratti della falsità
di un atto pubblico la cui rilevanza documentale, in altri termini, non può essere sacrificata all’interesse singolo, sia pure di tipo difensivo».
4. Il ricorso, reiterativo di una questione di diritto già ritenuta manifestamente infondata nel giudizio di condanna, va, in conclusione, dichiarato inammissibile, dal che discende, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del proponente al pagamento delle spese processuali e al versamento della ulteriore somma, ritenuta congrua, di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso (Corte Cost. n. 186 del 2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 30 ottobre 2024
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