Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 10127 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 10127 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: TRIPICCIONE DEBORA
Data Udienza: 31/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME nato a Foggia il DATA_NASCITA avverso l’ordinanza emessa il 10 agosto 2023 dal Tribunale di Bari visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; udite le richieste del difensore, AVV_NOTAIO, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME ricorre per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale di Bari che, in parziale accoglimento della richiesta di riesame, ha escluso l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. contestata ai capi 70 e 73 dell’imputazione
provvisoria e confermato nel resto la misura della custodia cautelare in carcere applicata per i reati di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 (capo 1), e 73 d.P.R. n. 309 del 1990 (capi 70 e 73).
Con un unico motivo di ricorso censura il punto della decisione relativo alla esclusione dell’operatività dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen.,, in quanto affetto da violazione di legge e da vizio della motivazione. La censura investe le argomentazioni poste a sostegno della esclusione dei presupposti della “desumibilità dagli atti”, della connessione qualificata e della “anteriorità” dei fatti per cui procede. Quanto al primo profilo, si rileva che l’ordinanza custodiale in esecuzione è stata emessa sulla base dei medesimi elementi indiziari posti a fondamento della prima ordinanza del 22/11/2018 per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. (dichiarazioni di COGNOME, esito dell’attività di perquisizione e sequestro e conversazioni intercettate ai RIT 1998/2017 e 586/2017). Quanto al secondo profilo, deduce il ricorrente che nell’imputazione cautelare relativa alla prima ordinanza si indicava espressamente che la “RAGIONE_SOCIALE” si era imposta nel controllo delle attività illecite della città di Foggia e zone limitrofe, mentre nell’ordinanza in esame si afferma che il traffico di droga era la linfa vitale del sodalizio mafioso e che i provento di tale attività era necessario per la vita del sodalizio. Quanto all’ultimo profilo dell'”anteriorità”, rileva il ricorrente che il Tribunale ha omesso di considerare che nonostante la formulazione aperta della contestazione associativa di cui al capo 1), di fatto questa ha cessato di operare nel marzo del 2018.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile in quanto il motivo dedotto è generico, manifestamente infondato e, laddove sollecita l’individuazione di una diversa data di consumazione del reato associativo contestato al capo 1, pone una questione di merito non deducibile in sede di legittimità.
Per un corretto inquadramento della questione è opportuno richiamare gli approdi della giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione dell’istituto della retrodatazione dei termini che, come chiarito dalle Sezioni Unite blazzitelli, consiste «nel “riallineamento” tra misure cautelari che, pur dovendo essere coeve, sono state separatamente adottate, ovvero in uno “slittamento all’indietro” della data di esecuzione del provvedimento cautelare successivo fino alla data di esecuzione di quello iniziale.» (Sez. U., n. 23166 del 28/5/2020, COGNOME, in motivazione).
L’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., come modificato dalla legge 8 agosto 1995, n. 302, delimita l’ambito di operatività del meccanismo della retrodatazione dei termini di durata delle misure cautelari alle sole ipotesi in cui i titoli cautelari abbia ad oggetto il medesimo fatto, diversamente circostanziato o qualificato, ovvero fatti diversi tra cui sussiste una connessione qualificata ai sensi dell’art. 12, lett. b) e c) cod. proc. pen., limitatamente ai casi dei reati connessi per eseguire gli altri. La portata applicativa della norma in esame è stata successivamente ampliata per effetto della sentenza additiva n. 408 del 2005, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. nella parte in cui “non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento dell’emissione della precedente ordinanza”. Con la sentenza n. 233 del 2011, la Corte costituzionale ha, inoltre, dichiarato la illegittimità dello stesso art. 297, comma 3, cod. proc. pen. nella parte in cui, con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi, non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura.
Secondo la costante esegesi della norma, tracciata dalle due sentenze delle Sezioni Unite Rahulia e Librato (rispettivamente, n. 21957 del 22/03/2005, Rv. 231057-8-9 e n. 14535 del 19/12/2006, dep. 2007, Rv. 235909-10-11), sono ravvisabili tre distinte ipotesi di contestazione a catena in cui può riconoscersi l’operatività della norma:
-la prima ipotesi attiene al caso di emissione nello stesso procedimento di più ordinanze che dispongono nei confronti di un imputato la medesima misura cautelare per lo stesso fatto, diversamente circostanziato o qualificato, ovvero per fatti diversi, commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza, legati da concorso formale, da continuazione o da connessione teleologica. In entrambe le situazioni, la retrodatazione della decorrenza dei termini delle misure disposte con le ordinanze successive, prevista dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., opera automaticamente, ovvero senza dipendere dalla possibilità, al momento dell’emissione della prima ordinanza, di desumere dagli atti, al momento dell’emissione della prima ordinanza, l’esistenza degli elementi idonei a giustificare le successive misure (art. 297, comma 3, prima parte cod. proc. pen.).
-La seconda ipotesi riguarda, invece, il caso in cui, in procedimenti diversi, vengano emesse più ordinanze cautelari per fatti diversi in relazione ai quali esiste
una delle tre forme di connessione qualificata sopra indicate in cui la retrodatazione opera solo per i fatti desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stata emessa la prima ordinanza (art. 297, comma 3, seconda parte, cod. proc. pen.)
-La terza ipotesi riguarda, infine, il caso di emissione di più ordinanze cautelari relativa a fatti tra i quali o non sussiste alcuna connessione ovvero sia configurabile una connessione non qualificata, nel senso sopra indicato. In tali ipotesi, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 408 del 1995, la retrodatazione opera solo se al momento dell’emissione della prima ordinanza esistevano elementi idonei a giustificare le misure applicate con le ordinanze successive. Tale regola vale solo se le ordinanze sono state emesse nello stesso procedimento. Le Sezioni Unite Librato, hanno, infatti, chiarito che, qualora i titoli cautelari siano stati emessi procedimenti diversi, occorre verificare, oltre che al momento della emissione della prima ordinanza vi fossero gli elementi idonei a giustificare l’applicazione della misura disposta con la seconda ordinanza, che i due procedimenti siano in corso dinanzi alla stessa autorità giudiziaria e che la separazione possa essere stata il frutto di una scelta del pubblico ministero (Rv. 235909).
Da ultimo, le Sezioni Unite hanno, infine, chiarito che qualora la pluralità di misure cautelari riguardi procedimenti pendenti dinanzi a uffici giudiziari diversi, la retrodatazione del termine di durata può riconoscersi esclusivamente qualora, tra i fatti oggetto dei due provvedimenti cautelari, sussista una delle ipotesi di connessione qualificata previste dall’art.297, comma 3, cod. proc. pen., consistente nel concorso formale di reati, nel reato continuato o nella connessione teleologica, limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri (Sez. U., n. 23166 del 28/05/2020, COGNOME, Rv. 279347 – 02).
2.1 In tutti e tre i casi è, comunque, necessario, perché si possa parlare di “contestazione a catena” ed applicare la disciplina della retrodatazione della decorrenza del termine di durata massima della custodia cautelare, che i reati oggetto della ordinanza cautelare cronologicamente posteriore siano stati commessi in data anteriore a quella di emissione della prima ordinanza cautelare. È solo rispetto a condotte illecite anteriori all’inizio della custodia cautelare disposta con la prima ordinanza che può ragionevolmente operarsi la retrodatazione di misure adottate in un momento successivo, come si desume dalla lettera dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., che prende in considerazione solo i “fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza”. Nella fattispecie delineata dalla disposizione in questione, l’ordinanza cautelare segna, dunque, il momento entro il quale la condotta
illecita deve essere cessata, perché il provvedimento non può “coprire”, attraverso la retrodatazione, fatti o parti di fatti successivi alla sua emissione.
Con riferimento alla tematica delle contestazioni a catena relative anche a reati associativi, le Sezioni Unite Librato hanno, inoltre, escluso la sussistenza di tale condizione nell’ipotesi in cui l’ordinanza successiva abbia ad oggetto la contestazione del reato di associazione di stampo mafioso con descrizione del momento temporale di commissione mediante una formula cosiddetta aperta, che faccia uso di locuzioni tali da indicare la persistente commissione del reato pur dopo l’emissione della prima ordinanza (negli stessi termini, Sez. 6, n. 31441 del 24/04/2012 , COGNOME, Rv. 253237; Sez. 6, n. 15821 del 03/04/2014 COGNOME, Rv. 259771; Sez. 6, n. 52015 del 17/10/2018, COGNOME, Rv. 274511 ). Ciò, ovviamente, a meno che gli elementi acquisiti non consentano di ritenere l’intervenuta cessazione della permanenza quanto meno alla data di emissione della prima ordinanza (Sez. 2 , n. 16595 del 06/05/2020, COGNOME, Rv. 279222).
2.2 Inoltre, quanto al requisito della anteriore “desumibilità” dagli atti inerenti alla prima ordinanza cautelare delle fonti indiziarie poste a fondamento dell’ordinanza cautelare successiva, la giurisprudenza di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, ha chiarito che questa consiste non nella mera conoscibilità storica di determinate evenienze fattuali, ma nella condizione di conoscenza derivata da un determinato compendio documentale o dichiarativo che consenta al pubblico ministero di esprimere un meditato apprezzamento prognostico della concludenza e gravità degli indizi, suscettibile di dare luogo, in presenza di concrete esigenze cautelari, alla richiesta e alla adozione di una nuova misura cautelare (Sez. 3, n. 48034 del 25/10/2019, COGNOME, Rv. 277351 – 02; si veda anche: Sez. 4, n. 16343 del 29/03/2023, COGNOME, Rv. 284464 secondo cui la nozione di “anteriore desumibilità”, dagli atti inerenti alla prima ordinanza cautelare, delle fonti indiziarie poste a fondamento dell’ordinanza cautelare successiva, richiede che, al momento del rinvio a giudizio nel primo procedimento, l’autorità giudiziaria sia in grado di desumere, e non solo di conoscere, la specifica significanza processuale, intesa come idoneità a fondare una richiesta di misura cautelare, degli elementi relativi al reato sul quale si fonda l’adozione del successivo provvedimento cautelare per reato connesso, il cui compendio indiziario deve manifestare già la propria portata dimostrativa e non richiedere ulteriori indagini o elaborazione degli elementi probatori acquisiti, che rendano necessaria la separazione o la distinta iscrizione delle notizie di reato connesso).
2.3 Con riferimento, infine, alla prova della sussistenza dei presupposti dell’istituto in esame, secondo la giurisprudenza di questa Corte, dal Collegio condivisa e ribadita, grava sulla parte che invoca l’applicazione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare l’onere di fornire la prova della esistenza di una connessione qualificata e della desumibilità dagli atti del fatto oggetto della seconda ordinanza già al momento dell’emissione del primo provvedimento (Sez. 3, n. 18671 del 15/01/2015, COGNOME, Rv. 263511; Sez. 2, n. 6374 del 28/01/2015, COGNOME, Rv. 262577, in cui la Corte ha precisato che, a tal fine, la parte deve provare il deposito, all’interno del procedimento nel quale è stata emessa la prima ordinanza e al momento di emissione della stessa, dell’informativa finale della polizia giudiziaria, contenente il compendio dei risultati investigativi, ovvero di note di Polizia Giudiziaria, rispetto alle quali la successiva informativa finale non presenti elementi di novità).
L’ordinanza impugnata ha fatto buon governo di tali coordinate ermeneutiche escludendo la sussistenza dei presupposti per l’operatività del meccanismo della retrodatazione con argomentazioni immuni da vizi logici o giuridici (cfr. le pagine da 37 a 39) rispetto alle quali il ricorrente si limita ad esprimere un generico dissenso insistendo sull’istanza presentata.
Con riferimento al reato di cui al capo 1, appare, infatti, dirimente l’esclusione del requisito dell’anteriorità del reato associativo oggetto del presente procedimento rispetto a quello contestato nella prima ordinanza cautelare (in quanto contestato «fino al 19 dicembre 2019» mentre la prima ordinanza cautelare è stata eseguita il 30 novembre 2018), in relazione alla quale, come anticipato, il ricorrente, senza dedurre alcun vizio di legittimità, si limita a porre al Collegio una non consentita questione di merito, sollecitando l’individuazione di una data di consumazione del reato diversa da quella indicata nel capo di imputazione provvisoria. Con argomentazioni parimenti ineccepibili in questa Sede il Tribunale ha escluso la sussistenza del requisito della desumibilità dagli atti al momento del rinvio a giudizio nel primo procedimento (23/9/19), sottolineando che le conversazioni su cui si basa la seconda ordinanza cautelare non erano presenti nell’informativa conclusiva depositata nel primo procedimento e sono state trascritte solo il 14/1/22. A tale riguardo, il ricorrente ha, peraltro, omesso di considerare l’ulteriore argomentazione a sostegno della insussistenza del requisito in esame, ovvero che gli indizi del reato associativo di cui al capo 1 sono stati desunti anche da elementi acquisiti
successivamente (perquisizioni, sequestri, rinvenimento delle liste e dichiarazioni dei collaboratoti di giustizia).
E’, infine, immune da vizi la motivazione, rispetto alla quale, peraltro, il ricorrente non oppone specifiche censure, in ordine alla esclusione dei presupposti del meccanismo dello retrodatazione rispetto ai due reati di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 contestati ai capi 70 e 73, avendo il Tribunale escluso, con motivazione adeguata e persuasiva, sia la sussistenza di una connessione qualificata con il reato di cui alla prima ordinanza cautelare che il requisito della desurnibilità dagli atti al momento della emissione della prima ordinanza.
4.All’inanimissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila da versare in favore della cassa delle ammende, non potendosi ritenere che lo stesso abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. n. 186 del 2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 31 gennaio 2024
Il Consiqliere estensore
Il Pr sidente