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Retrodatazione termini: quando non si applica?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10127/2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato che chiedeva la retrodatazione termini custodia cautelare. La Suprema Corte ha chiarito che tale meccanismo non si applica se il reato associativo è contestato come permanente e protratto oltre l’emissione della prima ordinanza, e se gli elementi a base della seconda misura non erano concretamente ‘desumibili’ dagli atti del primo procedimento al momento della sua emissione.

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Pubblicato il 6 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Retrodatazione Termini Custodia Cautelare: i paletti della Cassazione

La retrodatazione termini custodia cautelare è un istituto fondamentale per la tutela della libertà personale, volto a evitare che i termini massimi di carcerazione preventiva vengano elusi attraverso l’emissione di più ordinanze cautelari in momenti diversi. Con la sentenza n. 10127 del 2024, la Corte di Cassazione torna su questo tema delicato, chiarendo i rigidi presupposti per la sua applicazione, specialmente in contesti di criminalità organizzata.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda un imputato, già detenuto in base a una prima ordinanza del 2018 per associazione di tipo mafioso, che viene raggiunto da una seconda ordinanza cautelare per reati di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti e singole cessioni. La difesa presenta ricorso al Tribunale del Riesame chiedendo l’applicazione della retrodatazione, sostenendo che i nuovi fatti fossero anteriori e già desumibili dagli atti del primo procedimento.

Il Tribunale accoglie solo parzialmente la richiesta, escludendo alcune aggravanti, ma conferma la misura cautelare e nega la retrodatazione. Contro questa decisione, l’imputato propone ricorso per cassazione, lamentando una violazione di legge e un vizio di motivazione sul punto specifico della mancata applicazione dell’art. 297, comma 3, del codice di procedura penale.

Retrodatazione termini custodia cautelare: i presupposti negati dalla Corte

La Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile, ritenendolo generico e infondato. La decisione si basa sull’analisi dei tre pilastri su cui si fonda l’istituto della retrodatazione: l’anteriorità dei fatti, la connessione qualificata e la desumibilità degli elementi dagli atti del primo procedimento. La Suprema Corte ha rilevato la mancanza di due requisiti fondamentali nel caso di specie.

L’ostacolo del Reato Associativo Permanente

Il primo punto dirimente è il requisito dell’anteriorità. L’art. 297 c.p.p. stabilisce che la retrodatazione opera per “fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza”. La Corte sottolinea che, nel caso di reati associativi, la condotta illecita è permanente e si protrae fino a quando non cessa il vincolo. Nel caso esaminato, il nuovo reato associativo era stato contestato come ancora in corso fino a una data successiva all’esecuzione della prima ordinanza del 2018. Secondo la giurisprudenza consolidata, una contestazione con formula “aperta” o che indichi una permanenza del reato oltre la prima misura cautelare impedisce la retrodatazione, poiché il provvedimento non può “coprire” fatti successivi alla sua emissione.

Il Requisito della “Desumibilità” degli Atti

Il secondo motivo di rigetto riguarda la mancanza del requisito della “desumibilità”. Non basta che gli elementi di prova esistessero genericamente all’epoca della prima ordinanza; è necessario che essi fossero già presenti negli atti del primo procedimento e avessero una tale chiarezza e gravità da consentire al pubblico ministero di formulare una richiesta cautelare. La Corte ha evidenziato che le conversazioni telefoniche poste a fondamento della seconda ordinanza non solo non erano presenti nell’informativa conclusiva del primo procedimento, ma erano state trascritte solo anni dopo. Inoltre, gli indizi per il nuovo reato associativo derivavano anche da elementi acquisiti successivamente (perquisizioni, sequestri, dichiarazioni di collaboratori di giustizia), rendendo impossibile la loro valutazione al momento della prima misura.

le motivazioni

La Suprema Corte ha ribadito che l’istituto della retrodatazione dei termini di custodia cautelare è soggetto a requisiti stringenti per poter operare. In particolare, la decisione si fonda su due argomentazioni principali. In primo luogo, il requisito dell'”anteriorità” del fatto non è soddisfatto quando si tratta di un reato associativo la cui permanenza è contestata fino a una data successiva all’emissione della prima ordinanza cautelare. La natura continuativa del reato impedisce di considerare la condotta come interamente “commessa anteriormente”. In secondo luogo, il presupposto della “desumibilità” non si limita a una mera conoscibilità storica degli elementi, ma richiede che il compendio indiziario disponibile al momento della prima ordinanza sia già completo e sufficientemente grave da giustificare una nuova misura, senza necessità di ulteriori indagini. Nel caso di specie, le prove decisive sono state acquisite o elaborate solo in un momento successivo, escludendo così la possibilità di applicare la retrodatazione.

le conclusioni

La sentenza in esame consolida un orientamento rigoroso sull’applicazione della retrodatazione dei termini di custodia cautelare. Le conclusioni pratiche sono significative: primo, nei reati associativi permanenti, la formulazione del capo d’imputazione e la data di cessazione della condotta sono cruciali per determinare l’applicabilità dell’istituto. Secondo, l’onere della prova della sussistenza dei presupposti, inclusa la desumibilità, grava sulla parte che la invoca, la quale deve dimostrare che tutti gli elementi necessari erano già completi e valutabili nel primo procedimento. Questa pronuncia riafferma la necessità di un’analisi puntuale e rigorosa per bilanciare l’efficienza processuale con la tutela della libertà personale dell’imputato.

Quando si applica la retrodatazione dei termini di custodia cautelare?
Si applica quando una persona, già sottoposta a una misura cautelare, ne riceve un’altra per fatti diversi commessi prima dell’emissione della prima ordinanza. I termini della seconda misura decorrono dalla data della prima, a condizione che sussista una connessione qualificata tra i reati o che gli elementi per la seconda misura fossero già desumibili dagli atti del primo procedimento.

Perché la Corte ha negato la retrodatazione nel caso di un reato associativo?
La Corte l’ha negata perché il reato associativo contestato nella seconda ordinanza era considerato ancora in corso (permanente) fino a una data successiva all’esecuzione della prima misura. La legge richiede che i fatti siano stati commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza, condizione non soddisfatta se il reato si protrae nel tempo.

Cosa significa che gli elementi devono essere ‘desumibili dagli atti’?
Significa che, al momento dell’emissione della prima ordinanza, gli atti del procedimento dovevano già contenere un quadro indiziario completo e sufficientemente grave da poter fondare la seconda misura cautelare, senza la necessità di ulteriori indagini o elaborazioni probatorie. Non è sufficiente che gli elementi esistessero, ma devono essere stati già acquisiti e avere una chiara rilevanza processuale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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