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Retrodatazione termini custodia: quando non si applica?

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato che chiedeva l’applicazione della retrodatazione termini custodia. L’uomo, detenuto prima per tentata estorsione e poi per associazione mafiosa, sosteneva che la seconda misura dovesse essere retrodatata alla prima. La Corte ha stabilito che, per i reati permanenti contestati con formula aperta, l’arresto crea solo una presunzione relativa di non interruzione della condotta. Poiché la difesa non ha fornito prove concrete della cessazione dell’attività criminosa, la richiesta è stata respinta.

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Pubblicato il 5 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Retrodatazione Termini Custodia: La Cassazione e la Prova della Cessazione del Reato Permanente

L’istituto della retrodatazione termini custodia, previsto dall’articolo 297, comma 3 del codice di procedura penale, è un meccanismo fondamentale per garantire la corretta durata della detenzione preventiva. Tuttavia, la sua applicazione non è automatica, specialmente in contesti complessi come i reati associativi. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito i rigorosi presupposti per la sua operatività, focalizzandosi sull’onere della prova a carico della difesa in caso di reati permanenti.

I Fatti del Caso

Un soggetto veniva sottoposto a una prima misura di custodia cautelare in carcere nel febbraio 2023 per il delitto di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso. Circa un anno dopo, nel febbraio 2024, veniva raggiunto da una seconda ordinanza di custodia cautelare per il reato di associazione di tipo mafioso.

La Richiesta della Difesa

La difesa dell’indagato ha chiesto la scarcerazione per decorrenza dei termini massimi di custodia. La tesi difensiva si basava sull’applicabilità della retrodatazione termini custodia: poiché il reato associativo era connesso alla tentata estorsione e gli elementi a suo carico erano già desumibili dagli atti al momento della prima misura, la decorrenza della seconda misura avrebbe dovuto essere retrodatata alla data della prima. In questo modo, i termini massimi di fase sarebbero risultati scaduti.

I giudici di merito, sia in primo grado che in appello, hanno rigettato l’istanza. La loro motivazione si è incentrata sulla natura permanente del reato di associazione mafiosa e sulla contestazione avvenuta con “formula aperta”, ovvero senza indicare una data di cessazione della condotta. Questo, secondo i giudici, implicava una presunzione di permanenza del reato anche dopo l’emissione del primo provvedimento cautelare.

La Decisione della Cassazione sulla retrodatazione termini custodia

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile per genericità, confermando di fatto la decisione dei giudici di merito. Il punto cruciale, secondo la Cassazione, è che il ricorso non si è confrontato adeguatamente con la ratio decidendi della decisione impugnata.

Le Motivazioni

La Corte ha chiarito un principio fondamentale relativo alla retrodatazione termini custodia per i reati permanenti. L’emissione di una misura cautelare e il conseguente stato di detenzione non determinano automaticamente l’interruzione della condotta criminosa partecipativa a un sodalizio mafioso. Al contrario, l’arresto genera una mera presunzione relativa di non interruzione della condotta.

Questo significa che, per poter beneficiare della retrodatazione, non è sufficiente per la difesa affermare che gli elementi del secondo reato erano già noti. È necessario un passo ulteriore: superare attivamente la presunzione di continuità del reato. L’imputato ha l’onere di allegare e dimostrare, attraverso elementi concreti e specifici, che la sua partecipazione al sodalizio criminale si è effettivamente interrotta con il primo arresto.

Nel caso di specie, la difesa si era limitata a prospettare l’esigenza di retrodatazione senza fornire alcun elemento idoneo a smentire la presunzione di perdurante appartenenza al clan. Questa mancanza ha reso il ricorso generico e, di conseguenza, inammissibile.

Le Conclusioni

La sentenza consolida un orientamento giurisprudenziale rigoroso. Per i reati permanenti, come l’associazione mafiosa, la detenzione non è di per sé prova della cessazione della condotta. Per ottenere la retrodatazione termini custodia, la difesa deve assumere un ruolo attivo, fornendo al giudice elementi concreti che dimostrino una rottura del legame associativo. La mera allegazione della conoscibilità pregressa degli indizi non è sufficiente a superare la presunzione di continuità della partecipazione, lasciando così inalterata la decorrenza dei termini della seconda misura cautelare.

Quando si applica il principio della retrodatazione dei termini di custodia cautelare?
Si applica quando, per un reato commesso anteriormente alla prima ordinanza e connesso a quello per cui si procede, gli elementi a carico erano già desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio per il reato contestato nel primo provvedimento.

Perché nel caso di un reato permanente come l’associazione mafiosa la retrodatazione non è automatica?
Perché lo stato di detenzione genera solo una presunzione relativa (e non assoluta) di non interruzione della condotta criminosa. Si presume che la partecipazione al sodalizio possa continuare anche dal carcere, a meno che non venga fornita una prova contraria.

Quale onere ha la difesa per ottenere la retrodatazione in caso di reato permanente?
La difesa ha l’onere di allegare e dimostrare, attraverso elementi concreti e specifici, che la condotta partecipativa dell’indagato si è effettivamente interrotta con l’applicazione della prima misura cautelare, superando così la presunzione di continuità del reato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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