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Retrodatazione misura cautelare: no se prova è nuova

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato che chiedeva la retrodatazione di una misura cautelare per associazione mafiosa. La Corte ha stabilito che la retrodatazione misura cautelare non è applicabile quando la seconda ordinanza si fonda su elementi di prova nuovi e non desumibili dagli atti del primo procedimento al momento della sua emissione, come le dichiarazioni di un nuovo collaboratore di giustizia.

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Pubblicato il 14 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Retrodatazione Misura Cautelare: No se le Prove sono Nuove e Sopravvenute

L’istituto della retrodatazione misura cautelare, previsto dall’articolo 297, comma 3, del codice di procedura penale, rappresenta un’importante garanzia per l’imputato sottoposto a più provvedimenti restrittivi. Tuttavia, la sua applicazione è subordinata a presupposti rigorosi. Con la recente sentenza n. 32052/2024, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: la retrodatazione non opera se la seconda ordinanza si basa su un quadro probatorio nuovo e non desumibile dagli atti del primo procedimento. Analizziamo insieme la decisione.

I Fatti del Caso

Un soggetto, già detenuto in forza di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per reati legati al traffico di stupefacenti (artt. 73 e 74 T.U. Stupefacenti), veniva raggiunto da un secondo provvedimento restrittivo per il ben più grave reato di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.).

La difesa dell’imputato presentava appello al Tribunale del Riesame, chiedendo l’applicazione della retrodatazione. In pratica, si chiedeva di far decorrere i termini di custodia della seconda ordinanza non dalla sua esecuzione, ma dalla data di esecuzione della prima. La tesi difensiva si basava sull’assunto che gli elementi per contestare il reato di mafia fossero già presenti o, quantomeno, desumibili dagli atti del primo procedimento.

Il Tribunale di Catanzaro rigettava l’appello, evidenziando la mancanza di due requisiti essenziali: la desumibilità dei gravi indizi e l’anteriorità del fatto.

L’Analisi della Corte: Niente Retrodatazione Misura Cautelare con Prove Sopravvenute

Il cuore della questione giuridica ruota attorno al concetto di “desumibilità”. Per poter applicare la retrodatazione, è necessario che gli elementi a carico dell’indagato per il secondo reato fossero già ricavabili, almeno in nuce, dagli atti a disposizione dell’autorità giudiziaria al momento dell’emissione della prima ordinanza.

Nel caso di specie, il Tribunale ha accertato che la seconda ordinanza, quella per il reato associativo mafioso, si fondava in modo determinante su prove nuove: le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia. La collaborazione di quest’ultimo era iniziata in una data successiva non solo all’emissione della prima misura cautelare, ma anche al rinvio a giudizio per i reati di droga. Di conseguenza, al momento della prima decisione, mancava un quadro indiziario sufficiente per procedere anche per il 416-bis c.p.

La piattaforma probatoria della seconda misura era, quindi, qualitativamente e quantitativamente diversa e successiva rispetto a quella originaria. Questo elemento è stato ritenuto decisivo per escludere il presupposto della desumibilità.

Le Motivazioni

La Corte di Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha confermato l’impianto logico-giuridico del Tribunale. I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che la valutazione sulla desumibilità degli indizi costituisce una quaestio facti, ovvero una questione di fatto, la cui analisi è riservata al giudice di merito. Il sindacato della Cassazione è limitato al controllo della logicità e coerenza della motivazione, vizi che non sono stati riscontrati nella decisione impugnata.

La Corte ha sottolineato come il ricorso fosse generico, limitandosi ad affermazioni non supportate da elementi concreti che potessero smentire la ricostruzione del Tribunale. In particolare, la difesa non ha saputo spiegare perché le dichiarazioni del nuovo collaboratore non dovessero essere considerate una prova sopravvenuta e decisiva.

L’inammissibilità del ricorso è stata quindi pronunciata per aspecificità, ovvero per la mancanza di una critica puntuale e correlata alle ragioni esposte nel provvedimento impugnato. La difesa, in sostanza, non ha fornito argomenti idonei a dimostrare che la posticipazione della seconda ordinanza fosse frutto di una scelta arbitraria del pubblico ministero, ma ha semplicemente contrapposto una propria valutazione a quella, ben motivata, del giudice.

Le Conclusioni

La sentenza in esame rafforza un principio cardine in materia di “contestazione a catena”: la retrodatazione misura cautelare non è un automatismo. La sua funzione è quella di evitare che una frammentazione procedimentale, magari frutto di una scelta discrezionale dell’accusa, possa pregiudicare i diritti dell’imputato prolungando indebitamente i termini di custodia. Tuttavia, quando la seconda misura cautelare si fonda su un compendio probatorio autonomo, nuovo e non disponibile in precedenza, questa esigenza di garanzia viene meno. L’acquisizione di nuove prove, come le dichiarazioni di un collaboratore, legittima l’emissione di un nuovo e distinto provvedimento restrittivo, i cui termini di durata decorreranno autonomamente, senza possibilità di essere retrodatati.

Quando si può chiedere la retrodatazione di una misura cautelare?
La retrodatazione può essere richiesta quando una persona riceve più ordinanze di custodia cautelare in momenti diversi per reati tra cui esiste una connessione qualificata. Lo scopo è far decorrere i termini della seconda misura dalla data della prima, ma solo a condizione che gli elementi di prova per il secondo reato fossero già desumibili dagli atti del primo procedimento.

Perché in questo caso è stata negata la retrodatazione misura cautelare?
È stata negata perché la seconda ordinanza (per associazione mafiosa) si basava su prove decisive che non erano disponibili al momento dell’emissione della prima (per droga). Nello specifico, si trattava delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia la cui collaborazione è iniziata solo in un momento successivo, creando così una piattaforma probatoria nuova e distinta.

Cosa significa che la valutazione della ‘desumibilità’ degli indizi è una ‘quaestio facti’?
Significa che si tratta di una ‘questione di fatto’, ovvero un accertamento che riguarda la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle prove. Tale compito spetta ai giudici di merito (come il Tribunale del Riesame) e la Corte di Cassazione non può riesaminare le prove, ma solo verificare che la motivazione del giudice sia logica e non contraddittoria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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