Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 32052 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 32052 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 25/06/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME, nato a Cosenza il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 09/04/2024 del Tribunale di Catanzaro visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione del AVV_NOTAIO NOME COGNOME; letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona Sostituto Procuratore AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con il provvedimento in epigrafe indicato, il Tribunale di Catanzaro ha rigettato l’appello proposto ex art. 310 cod. proc. pen. avverso l’ordinanza del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale della stessa città con la quale è stata rigettata la richiesta di scarcerazione avanzata ai sensi dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. in relazione alla misura della custodia cautelare in carcere disposta nei confronti di NOME COGNOME per il reato di associazione mafiosa, applicata con ordinanza del 2 agosto 2022, eseguita 11 settembre 2022, rispetto alla prima ordinanza cautelare emessa in data 11 febbraio 2020 per i reati di cui agli artt. 73 e 74 T.U. Stup.
Il Tribunale ha rilevato l’assenza dei presupposti per la retrodatazione, innanzitutto, sotto il profilo della carenza del presupposto della desumibilità dei gravi indizi dagli atti posti a fondamento della prima ordinanza cautelare, e, in secondo luogo, per difetto del requisito dell’anteriorità dei reati oggetto della successiva ordinanza rispetto all’emissione della prima, in riferimento al reato associativo contestato, nella forma c.d. aperta, con condotta permanente protrattasi anche in epoca successiva all’esecuzione della prima ordinanza, intervenuta in data 11 febbraio 2020.
In particolare, il primo presupposto è stato escluso perché la seconda ordinanza emessa per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. si basa in modo determinante sulle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia COGNOME NOME, la cui collaborazione è iniziata il 21 dicembre 2020, quindi, in epoca successiva rispetto anche all’emissione del decreto che dispone il giudizio, emesso in data 19 ottobre 2020, nell’ambito del procedimento per i reati di partecipazione alla diversa associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, oggetto della prima ordinanza cautelare.
Con atto a firma del difensore di fiducia, NOME COGNOME chiede l’annullamento del provvedimento, articolando un unico motivo per vizio di motivazione e di violazione di legge in relazione all’art. 297, comma 3, cod. proc. pen.
Innanzitutto, si osserva che ove operasse la retrodatazione del termine iniziale di decorrenza della nuova misura custodiale, questa andrebbe revocata per scadenza del previsto termine massimo di fase, essendo il ricorrente detenuto ininterrottamente dal febbraio 2020, quindi da quasi quattro anni.
In secondo luogo, si rappresenta che il Tribunale ha escluso l’anteriorità dei fatti oggetto della seconda ordinanza sulla base della contestazione aperta del reato associativo per 416-bis cod. pen. senza elementi di prova concreti attestanti la prosecuzione di detto reato dopo l’esecuzione della prima ordinanza in data 11 febbraio 2020, in assenza di elementi da cui desumere un contributo operativo fornito dall’imputato agli scopi del sodalizio durante la sua detenzione in carcere.
Si rappresenta che avendo il Tribunale ammesso la sussistenza della connessione qualificata tra il reato di associazione di cui all’art. 74 T.U. Stup. ed i reato di associazione mafiosa ex art. 416-bis cod. pen. che renderebbe applicabile il riferimento al momento del rinvio a giudizio, il requisito della desumibilità dagl atti degli elementi posti a fondamento della seconda ordinanza non può essere escluso sulla base del riferimento alla sopravvenuta collaborazione di COGNOME NOMENOME
Al riguardo si sottolinea come alla data di emissione del decreto che ha ammesso il giudizio abbreviato nel luglio del 2023, era già disponibile l’informativa finale della Questura di Cosenza a firma, tra gli altri, del capo della Squadra Mobile di Cosenza, che reca la data del 19 ottobre 2020 e che era comprensiva di elementi di prova validi anche a sostenere il carattere mafioso dell’associazione, come confermato in sede di dibattimento dal predetto agente di Polizia Giudiziaria che avrebbe dato atto dell’identità del materiale probatorio posto a base dell’accusa per associazione mafiosa.
Si deve dare atto che il ricorso è stato trattato senza l’intervento delle parti, ai sensi dell’art. 23, commi 8 e 9, di. 28 ottobre 2020, n. 137, come prorogato dall’art. 94 del d.lgs. n. 150 del 2022, modificato dall’art. 17 del d.l. 22 giugno 2023, n. 75.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Deve premettersi come questa Corte abbia chiarito più volte che tanto l’esistenza della connessione rilevante ex art. 297, comma 3, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 22681 del 27/05/2008, COGNOME, Rv. 240099), quanto la desunnibilità dagli atti del primo procedimento degli elementi idonei e sufficienti per adottare i diversi provvedimenti cautelari (Sez. 6, n. 12676 del 20/12/2006, dep. 2007, Barresi, Rv. 236829) costituiscono quaestiones facti, la cui valutazione è riservata ai giudici di merito ed è sindacabile dal giudice di legittimità esclusivamente sotto il profilo della logicità e coerenza descrittiva delle emergenze processuali e probatorie, nonché della congruenza e non contraddittorietà delle relative analisi e dei pertinenti passaggi argomentativi.
È, inoltre, opportuno ricordare che in tema di “contestazione a catena”, quando nei confronti di un imputato sono emesse in procedimenti diversi più ordinanze cautelari per fatti diversi in relazione ai quali esiste una connessione qualificata, la retrodatazione prevista dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. opera per i fatti desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stata emessa la prima ordinanza.
Al contrario quando le ordinanze cautelari adottate in procedimenti diversi riguardino fatti tra i quali non sussiste la suddetta connessione, l’art. 297, comma 3, come integrato dalla Corte Costituzionale, consente la retrodatazione quando gli elementi giustificativi della seconda erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della prima, solo se i due procedimenti sono in corso davanti alla stessa autorità giudiziaria e la loro separazione può essere frutto di una scelta del pubblico ministero, sicché la regola della retrodatazione concerne normalmente
misure adottate nello stesso procedimento e può applicarsi a misure disposte in un procedimento diverso solo nelle ipotesi testé indicate (Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, dep. 2007, COGNOME, Rv. 235909; Sez. U, n. 21957 del 22/03/2005, COGNOME, Rv. 231058).
Deve essere, altresì, ribadito che i casi di connessione rilevanti a fini di retrodatazione sono, ai sensi dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., solo quelli di concorso formale di reati, reato continuato e nesso teleologico tra reati commessi per eseguire gli altri, previsti all’art. 12, comma 1, lett. b) e c) cod. proc. pen.
2. Alla stregua di quanto precede, il percorso argomentativo seguito dal Tribunale del riesame per negare la sussistenza dei presupposti normativi della retrodatazione della seconda misura custodiale applicata al ricorrente deve ritenersi adeguatamente motivato con riferimento alla mancanza del requisito della desumibilità dagli atti del primo procedimento, senza che assumano rilevanza le altre considerazioni dell’ordinanza impugnata, basate sull’affermata prosecuzione delle condotte di reato anche dopo l’inizio dello stato di detenzione in forza della prima ordinanza, che sono state censurate dal ricorrente.
Sotto tale differente profilo si deve rammentare che il presupposto dell’anteriorità dei fatti oggetto della seconda ordinanza coercitiva, rispetto all’emissione della prima, non ricorre allorché il provvedimento successivo riguardi un reato di associazione (nella specie di tipo mafioso) e la condotta di partecipazione alla stessa si sia protratta dopo l’emissione della prima ordinanza.
Tuttavia, è stato condivisibilmente già affermato dalla giurisprudenza di legittimità che il provvedimento coercitivo che limita la libertà personale dell’indagato per il primo fatto di reato determina una mera presunzione relativa di non interruzione della condotta partecipativa, la protrazione della quale deve tuttavia essere desunta da concreti elementi dimostrativi (Sez. 6, n. 13568 del 29/11/2019, dep. 2020, Alfano, Rv. 278840; Sez. 1, n. 20135 del 16/12/2020, dep. 2021, Ciancio, Rv. 281283).
Nel caso in esame si può prescindere dalla valutazione di detto ulteriore presupposto, relativo al requisito della anteriorità della consumazione del reato oggetto della seconda ordinanza rispetto alla data di emissione della prima ordinanza, perché la motivazione riferita all’altro requisito della desumibilità dagli atti del primo procedimento è sicuramente adeguata e resiste alle censure difensive che appaiono del tutto generiche.
Si deve ricordare, a tale riguardo, che non è sufficiente che, entro i limiti temporali suddetti – riferiti alla data del rinvio a giudizio nel caso di reati connessi o al momento dell’adozione della prima misura in assenza di connessione
qualificata tra i reati – sia stata acquisita e risulti dagli atti la mera notizia fatto-reato oggetto della seconda ordinanza, essendo invece indispensabile che sussista un quadro indiziario legittimante l’adozione delle misure cautelari successivamente applicate allo stesso indagato, essendo, quest’ultimo, soggetto all’onere di allegazione degli elementi dai quali desumere l’applicabilità della retrodatazione da lui invocata (Sez. U, n. 9 del 25/06/1997, Atene, Rv. 208167).
Già solo l’inesistenza di tale presupposto esclude l’operatività della retrodatazione (art. 297, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen.).
Sotto tale specifico profilo assume rilevanza decisiva la ragione del rigetto correlata alla mancanza del requisito della desumibilità della partecipazione dell’indagato all’associazione mafiosa di cui all’art. 416-bis cod. pen. già dagli att disponibili al momento del rinvio a giudizio disposto in relazione ai fatti oggetto della prima ordinanza.
A tale proposito, il Tribunale ha evidenziato che alla data del rinvio a giudizio, disposto il 19 ottobre 2020 nel separato procedimento, non vi erano elementi sufficienti per corroborare la gravità indiziaria richiesta per emettere una misura cautelare anche per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. in quanto è solo grazie alle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia NOME COGNOME che sarebbe stata riconosciuta la partecipazione all’associazione mafiosa di NOME, quindi, sulla base di una prova sopravvenuta, non ancora disponibile al momento della prima ordinanza e del rinvio a giudizio disposto per il connesso reato di cui all’art. 74 d.P.R. 309/90, essendo la collaborazione del predetto coimputato iniziata il 21 dicembre 2020.
Il ricorrente ha criticato questa affermazione evidenziando che la gravità indiziaria sarebbe stata al contrario già sussistente prima della emissione della prima ordinanza, ma attraverso mese asserzioni del tutto generiche perché non spiegano le ragioni per cui le dichiarazioni del predetto collaboratore non avrebbero assunto alcuna rilevanza ai fini del giudizio di gravità indiziaria per l’imputazione relativa al reato di associazione mafiosa.
A tale riguardo non può certamente essere sufficiente il riferimento operato dal ricorrente alla deposizione dell’agente di Polizia Giudiziaria, firmatario della prima informativa finale, che sulla base di una valutazione del tutto personale, assume genericamente che gli elementi di prova dei due procedimenti sarebbero stati oggetto di una diversa lettura, senza neppure chiarire le ragioni ed il senso di tale asserzione.
Come già osservato in premessa, la desumibilità dagli atti del primo procedimento degli elementi idonei e sufficienti per adottare i diversi provvedimenti cautelari (Sez. 6, n. 12676 del 20/12/2006, dep. 2007, Barresi, Rv. 236829) costituisce una quaestio facti la cui soluzione é rimessa di volta in volta
all’apprezzamento del giudice di merito ed è sindacabile dal giudice di legittimità esclusivamente sotto il profilo della logicità e coerenza descrittiva delle emergenze processuali e probatorie, nonché della congruenza e non contraddittorietà delle relative analisi e dei pertinenti passaggi argomentativi.
Una volta appurato che la seconda ordinanza è stata emessa sulla base di una piattaforma probatoria differente da quella disponibile al momento dell’adozione della prima ordinanza era onere da parte della difesa evidenziare l’esistenza di elementi indiziari dotati di una oggettiva gravità tali da fare emergere in modo evidente e non discutibile che la posticipazione della seconda ordinanza è stata effettivamente il frutto di una scelta arbitraria del pubblico ministero.
Deve, peraltro, rilevarsi che il ricorrente neppure spiega perché il riferimento temporale non dovrebbe essere quello del decreto di rinvio a giudizio emesso in data 19 ottobre 2020, ma piuttosto quello del provvedimento che ha ammesso il giudizio abbreviato intervenuto nel luglio 2023.
Come osservato in premessa nel caso di reati connessi il riferimento al momento procedimentale in cui si dispone degli elementi di prova utili a fondare la gravità indiziarla è quello della data del rinvio a giudizio per i fatti oggetto del prima ordinanza cautelare, cui si equipara la data del decreto di ammissione del rito abbreviato nei casi in cui il giudizio relativo ai fatti oggetto di detta ordinan cautelare venga svolto con tale rito speciale, in cui manca il provvedimento formale di rinvio a giudizio.
Nel caso di specie, il riferimento alla data di ammissione del giudizio abbreviato non è stato oggetto di una specifica censura, atteso che il Tribunale per il riesame ha fatto riferimento alla data del decreto che dispone il giudizio rispetto ai fatti oggetto della prima ordinanza, così escludendo implicitamente che nei confronti dell’imputato si sia proceduto per tali fatti con il giudizio abbreviat (ovvero per il reato di cui all’art. 74 T.U. Stup.).
Anche sotto tale profilo era onere del ricorrente censurare in modo specifico tale profilo, chiarendo i tempi e le forme processuali di definizione dei due procedimenti, non essendo stato chiarito quale di essi si sarebbe svolto nelle forme del giudizio abbreviato e nei confronti di quali imputati.
Le censure del ricorrente non tengono, quindi, conto delle argomentazioni del Tribunale ed essendo carenti di correlazione con le ragioni argomentate dalla decisione impugnata appaiono anche solo per questo inammissibili per vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen. all’inammissibilità del ricorso.
Dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente, oltre che al pagamento
delle spese del procedimento, anche a versare una somma, che si ritiene congruo determinare in tremila euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 25 giugno 2024
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