Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 30697 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 30697 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 11/07/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a VIBO VALENTIA il DATA_NASCITA avverso l’ordinanza del 14/3/2024 del Tribunale di Catanzaro udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO COGNOMEAVV_NOTAIOCOGNOME; udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME AVV_NOTAIO, che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito il difensore, AVV_NOTAIO, che, dopo breve discussione, ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Catanzaro, in funzione di giudice del riesame, con provvedimento del 14/3/2024 respingeva l’appello avverso l’ordinanza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Catanzaro del 15/1/2024, che aveva rigettato l’istanza di declaratoria di inefficacia della misura cautelare dell custodia in carcere applicata a NOME COGNOME.
L’imputato, a mezzo del suo difensore, ha interposto ricorso per cassazione.
2.1. Con il primo motivo deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen, in relazione agli artt. 310 e 125 cod. proc. pen., per motivazione apparente e carente.
2.1.1. Sotto il primo profilo, rileva che del tutto apparente risulta il tessu
motivazionale, in relazione alla ritenuta non configurabilità del vincolo della continuazione tra il reato associativo oggetto della prima ordinanza custodiale (procedimento cosiddetto RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE) ed i reati in materia di armi e di estorsione contestati con il secondo titolo cautelare (procedimento cosiddetto RAGIONE_SOCIALE). Evidenzia in proposito che, ai fini della continuazione tra il reato associativo e quelli scopo, è sufficiente che questi ultimi siano individuati e, dunque, previsti almeno nelle loro linee essenziali all’atto della costituzione del sodalizio o dell’adesione ad esso, per cui sostenere che non vi è prova che le ipotesi estorsive contestate nel secondo procedimento fossero state già pianificate al momento della costituzione del vincolo costituisce una motivazione apparente. Emerge, invero, dalla contestazione elevata dalla pubblica accusa che l’associazione di stampo mafioso contestata nel procedimento RAGIONE_SOCIALE era finalizzata anche alla commissione di reati in materia di armi e di estorsioni. In conclusione, l’argomento giustificativo utilizzato dal Tribunale del riesame si avvale di argomentazioni di puro genere, di asserzioni apodittiche e di proposizioni prive di efficacia dimostrativa, per cui si manifesta solo fittizio perciò sostanzialmente inesistente.
2.1.2. Sotto il secondo profilo, assume che nell’appello cautelare si era argomentato anche in relazione alla ricorrenza nel caso di specie della connessione teleologica, in merito alla quale il provvedimento impugnato ha omesso qualsivoglia valutazione. Osserva sul punto che la natura permanente del reato associativo non impedisce che i reati fine vengano posti in essere successivamente proprio in funzione della protrazione del reato associativo; che, dunque, l’esecuzione dei delitti contestati nel procedimento RAGIONE_SOCIALE, non solo manifestava l’attuazione del programma criminoso unitario, apprezzabile ai sensi dell’art. 81 cod. pen., ma costituiva l’espressione del contegno che animava, manifestandone protrazione, la consumazione del reato associativo già contestato nel procedimento RAGIONE_SOCIALE.
2.2. Con il secondo motivo eccepisce la violazione la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., in relazione all’art. 81 cod. pen. Rileva che il raffronto tra i reati, ai fini della configurabilità della continuazione, non può c investire il programma dell’associazione ed i delitti specifici, che non è necessario siano previsti e programmati in maniera puntuale, essendo sufficiente che nel programma del sodalizio sia prevista la consumazione dei reati del tipo di quelli specifici, intesi quale strumento attuativo della finalità perseguita; che, dunque, il provvedimento impugnato erra nel non riconoscere la continuazione tra i reati oggetto dei due titoli cautelari.
2.3. Con il terzo motivo si duole della violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in relazione agli artt. 310 e 125 cod. proc. pen., per
motivazione apparente e carente.
2.3.1. Sotto un primo aspetto rileva che il Tribunale del riesame non ha risposto alle doglianze difensive, che avevano evidenziato come i due procedimenti, RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, fossero espressione di un procedimento unitario, piuttosto che di procedimenti diversi, come apoditticannente ritenuto nell’ordinanza impugnata; che, invero, l’oggetto complessivo delle due indagini è il medesimo, nel senso che la contestazione associativa è la stessa, tanto che il Giudice per le indagini preliminari del procedimento RAGIONE_SOCIALE ha espressamente dato atto che all’odierno ricorrente non è stato contestato anche il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., in quanto detto titolo era stato già cautelato ne processo RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE; che, dunque, l’oggetto complessivo delle due indagini è lo stesso e che il Pubblico Ministero, pur potendo farlo, non ha riunito le due investigazioni, in tal modo determinando l’applicazione di una seconda misura cautelare, in violazione del disposto di cui all’art. 297, comma 3, cod. proc. pen.
2.3.2. Con riferimento, invece, alla ritenuta assenza di elementi idonei e sufficienti ad adottare il secondo provvedimento cautelare al momento dell’emissione della prima ordinanza, il difensore eccepisce per un verso l’apparenza della motivazione e per altro verso ne evidenzia la carenza. La motivazione sarebbe apparente nella parte in cui giunge alla conclusione che dal raffronto tra le informative finali dei procedimenti RAGIONE_SOCIALE ed RAGIONE_SOCIALE si desume che nel primo procedimento non fossero stati introdotti elementi idonei a consentire la ricostruzione dei delitti trattati nel secondo. In altri termi secondo la difesa, assumere che l’informativa finale del procedimento COGNOME descriveva il reato associativo e non anche i reati fine trattati nel procedimento COGNOME costituisce ragionamento che difetta di capacità esplicativa, atteso che ciò che rileva è l’esistenza degli elementi di prova conosciuti dal pubblico RAGIONE_SOCIALE e la loro attitudine a descrivere la ricorrenza dei reati oggetto di cautela differita. In particolare, ciò che andava valutato era l’insieme degli indizi che – a prescindere dalla allocazione fisica nell’uno o nell’altr procedimento in ragione della scelta del pubblico RAGIONE_SOCIALE di non riunire i procedimenti – erano comunque nella disponibilità della pubblica accusa. Dunque, il pubblico RAGIONE_SOCIALE aveva la disponibilità e la compiuta conoscenza degli elementi sufficienti all’adozione del secondo titolo cautelare ben prima dell’applicazione della prima misura, come si evince dalla motivazione dei decreti di proroga delle intercettazioni, nel loro progressivo deposito e nella richiesta di poter ritardare il deposito degli esiti delle intercettazioni.
Nello stesso tempo la motivazione è carente perché non risponde alle censure mosse nei motivi di appello proprio in tema di pregressa desumibilità già al momento della emissione della prima misura cautelare. La difesa sul punto, a
titolo di esempio, aveva riportato il contenuto di diverse note di polizia giudiziaria, aventi ad oggetto proprio gli episodi estorsivi di cui ai capi M), N) R) ed il reato in materia di armi contestato al capo Al), che sono oggetto del secondo titolo cautelare. Evidenziava, infine, la difesa che non può condividersi l’assunto secondo il quale ciò che assumerebbe rilievo non è la materiale disponibilità delle fonti di prova, ma l’effettiva conoscenza degli epiloghi investigativi che hanno fondato l’azione cautelare, in quanto una siffatta impostazione non si sottrae al rischio di arbitrio da parte del pubblico RAGIONE_SOCIALE; che, dunque, occorre far riferimento all’emersione degli indizi sufficienti per emettere la misura cautelare e non alla attività di interpretazione ed elaborazione di detti elementi. Ebbene, denuncia il difensore che il provvedimento impugnato, a fronte di siffatte argonnentazioni, tace.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato nei limiti e per le ragioni che seguono.
1.1. Il primo ed il secondo motivo – che, per essere strettamente connessi, possono essere trattati congiuntamente – sono manifestamente infondati.
1.1.1. Va, innanzitutto, premesso che è certamente configurabile la continuazione tra il reato associativo ed i reati fine, sempre che il giudice verifichi puntualmente che questi ultimi risultino essere stati programmati, pur nelle sole linee essenziali, al momento della costituzione dell’associazione ovvero al momento dell’ingresso nel sodalizio del singolo partecipe (Sez. l, n. 39858 del 28/4/2023, COGNOME, Rv. 285369 – 01; Sez. 1, n. 23818 del 22/6/2020, COGNOME, Rv. 279430 – 01; Sez. 1, 1534 del 9/11/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 271984 01; Sez. 1, n. 40318 del 04/07/2013, Corigliano, Rv. 257253 – 01).
Tuttavia, ritiene il Collegio che detta programmazione debba riguardare gli specifici reati scopo, non essendo all’uopo sufficiente che i reati fine, rispetto a quali si chiede l’applicazione dell’istituto della continuazione, siano compresi nel programma criminoso del sodalizio, atteso che in tal caso si è in presenza di una previsione generica, di massima, degli obbiettivi di fondo che l’associazione criminale intende perseguire. In altri termini, la disciplina del reato continuato postula che al momento della costituzione del sodalizio ovvero dell’ingresso in esso del singolo associato debbano sussistere gli elementi necessari, quello ideativo e quello volitivo, di quel singolo fatto, non genericamente di un qualunque fatto di quel tipo o categoria; pertanto, devono essere esclusi dalla possibilità di essere unificati in continuazione quei reati fine che, pur rientrando nel più ampio ambito di attività svolta dall’associazione, non siano stati programmati ab origine.
Diversamente opinando, ove cioè si ritenesse sufficiente la indicazione nel
programma criminoso di determinati reati fine (nel caso di specie estorsioni e reati in materia di armi), si finirebbe per configurare una sorta di automatismo nel riconoscimento della continuazione e del conseguente beneficio sanzionatorio, atteso che tutti i reati scopo dovrebbero ritenersi in continuazione con il reato associativo.
Nel caso che si sta scrutinando, manca la prova della programmazione unitaria dei reati che si chiede siano avvinti dal vincolo della continuazione, né il ricorrente si è premurato di spiegare per quale motivo debba essere disattesa la conclusione del Tribunale del riesame, salvo richiamare il contenuto dell’imputazione relativa al delitto associativo, che – per quanto si è sopra specificato – non è sufficiente a dimostrare l’unicità del disegno criminoso.
1.1.2. Considerazioni analoghe devono essere svolte con riferimento al nesso teleologico.
Sul punto, si registrano due orientamenti della giurisprudenza di legittimità. Secondo una prima impostazione deve escludersi la configurabilità del nesso tra il reato di associazione mafiosa e i reati fine, «non potendo ritenersi che i reati fine rientrino nel generico programma associativo, né che i medesimi siano consumati per eseguire il reato associativo» (Sez. 1, n. 22751 del 6/5/2021, NOME, Rv. 281545 – 01; Sez. 5 n. 49224 del 6/6/2017, NOME, Rv. 271477 – 01; Sez. 1, n. 18340 del 11/2/2011, COGNOME, Rv. 250305 – 01; Sez. 1, n. 12715 del 6/3/2008, COGNOME, Rv. 239379 – 01). In altri termini, è stato affermato che, in tema di associazione mafiosa, non è corretto ritenere che i reati fine siano consumati «per eseguire» il delitto associativo, dal momento che non rappresentano la finalità per la quale l’associazione è stata costituita.
Secondo un diverso orientamento, non sussistano ragioni per escludere in astratto la possibilità che un reato-scopo sia commesso per eseguire il reatoassociativo, in quanto la natura permanente del secondo fa sì che il primo possa essere commesso con l’obiettivo di garantire la prosecuzione dell’esecuzione del reato-associativo stesso (Sez. 1, n. 38771 del 7/4/2022, COGNOME, n.m.; Sez. 5, n. 37452 del 13/5/2014, COGNOME, n.m.; Sez. 1, n. 48190 del 23/10/2013, COGNOME, in motivazione). Invero, è stato affermato che occorre distinguere tra il momento in cui il reato associativo si perfeziona, che è quello in cui viene ad esistenza il pactum sceleris e la successiva vita del sodalizio, che del tutto fisiologicamente continua anche dopo la formazione dell’accordo, trattandosi di reato permanente. Dunque, secondo questo filone giurisprudenziale, nulla vieta che un reato scopo sia commesso successivamente al perfezionamento del reato associativo, in quanto finalizzato al mantenimento in vita della struttura criminale. Del resto, anche il dato letterale depone in tal senso, tenuto conto che gli artt. 61, n. 2, cod. pen. e 12, lett. c), cod. proc. pen., quest’ultimo richiama
dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., fanno riferimento ad un reato commesso al fine di «eseguire» – e non di consumare – un altro reato.
Orbene, nel caso di specie, se pure si volesse seguire il secondo orientamento sopra sintetizzato, come per la medesinnezza del disegno criminoso per il riconoscimento della continuazione, anche la strunnentalità del reato fine rispetto al reato associativo deve essere accertata in concreto, dovendosi verificare se il reato scopo sia finalizzato a garantire la sopravvivenza del sodalizio o se non sia piuttosto dettato da motivi contingenti e occasionali, sebbene inserito in un più ampio contesto associativo. Ebbene, sul punto, il ricorrente non ha fornito prova alcuna, limitandosi ad evidenziare la astratta applicabilità della circostanza aggravante del nesso teleologico ai reati fine per i quali è stato emesso il secondo titolo custodiale.
1.2. Coglie, invece, nel segno il terzo motivo per quanto di seguito si dirà. Seguendo il percorso argonnentativo fissato dalle Sezioni Unite di questa Corte con due decisioni rispettivamente del 2005 e del 2006 (Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, dep. 2007, COGNOME, Rv. 235909 – 01; Sez. U, n. 21957 del 22/3/2005 Rahulia, Rv. 231057 – 01), può affermarsi che l’art. 297, connma 3, cod. proc. pen., dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 408 del 2005, prevede tre distinte ipotesi di retrodatazione del termine di decorrenza della custodia cautelare: «La prima situazione è quella in cui le due (o più) ordinanze applicative di misure cautelari personali abbiano ad oggetto fatti – reato legati tra loro da concorso formale, continuazione o da connessione teleologia (casi di connessione qualificata), e per le imputazioni oggetto del primo provvedimento coercitivo non sia ancora intervenuto il rinvio a giudizio. In queste circostanze trova applicazione la disposizione dettata dal primo periodo dell’art. 297 c.p.p., comma 3, che non lascia alcun dubbio sul fatto che la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata della misura o delle misure applicate successivamente alla prima operi automaticamente e, dunque – impiegando le parole delle Sezioni unite di questa Corte – “indipendentemente dalla possibilità, al momento della emissione della prima ordinanza, di desumere dagli atti l’esistenza dei fatti oggetto delle ordinanze successive e, a maggior ragione, indipendentemente dalla possibilità di desumere dagli atti l’esistenza degli elementi idonei a giustificare le relative misure”. Automatica retrodatazione della decorrenza dei termini che risponde all’esigenza “di mantenere la durata della custodia cautelare nei limiti stabili dalla legge, anche quando nel corso delle indagini emergono fatti diversi legati da connessione qualificata” (così C. Cost., 28 marzo 1996, n. 89), e che si determina solo se le ordinanze siano state emesse nello stesso procedimento penale (così Sez. U, n. 14535/07 del 19/12/2006, COGNOME, cit). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
La seconda situazione rappresenta una variante della prima, presupponendo comunque l’accertata esistenza, tra i fatti oggetto delle plurime ordinanze cautelari, di una delle tre forme di connessione qualificata sopra indicate, ma è caratterizzata dall’intervenuta emissione del decreto di rinvio a giudizio per i fatt oggetto del primo provvedimento coercitivo. Tale ipotesi presuppone, ovviamente, che le due o più ordinanze siano state emesse in distinti procedimenti, ma (come hanno chiarito le Sezioni unite nelle più volte richiamate sentenze) è irrilevante che gli stessi siano “gemmazione” di un unico procedimento, vale a dire siano la conseguenza di una separazione delle indagini per taluni fatti, oppure che i due procedimenti abbiano avuto autonome origini. In siffatta diversa situazione si applica la regola dettata dal secondo periodo dell’art. 297 c.p.p., comnna 3, sicché la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure applicate con la successiva o le successive ordinanze opera solo se i fatti oggetto di tali provvedimenti erano desumibili dagli atti già prima del momento in cui è intervenuto il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza (Cass. N. 42442 del 2013 Rv. 257380, N. 50128 del 2013 Rv. 258500; N. 17918 del 2014 Rv. 259713).
Infine, la terza situazione è quella in cui tra i fatti oggetto dei du provvedimenti cautelari non esista alcuna connessione ovvero sia configurabile una forma di connessione non qualificata, cioè diversa da quelle sopra considerate del concorso formale, della continuazione o del nesso teleologia) (per quest’ultimo, nei limiti fissati dal codice). Questa ipotesi, che in passato si riteneva pacificamente non riguardare l’art. 297 c.p.p., comma 3, oggi rientra nel campo applicativo di tale disposizione codicistica per effetto della menzionata sentenza “nnanipolativa” della Consulta n. 408 del 2005. Ne consegue che la retrodatazione della decorrenza del termine di durata massima della misura cautelare è dovuta “in tutti i casi in cui, pur potendo i diversi provvedimenti coercitivi essere adottati in un unico contesto temporale, per qualsiasi causa l’autorità giudiziaria abbia invece prescelto momenti diversi per l’adozione delle singole ordinanze”. Il giudice deve, perciò, verificare se al momento dell’emissione della prima ordinanza cautelare non fossero desumibili, dagli atti a disposizione, gli elementi per emettere la successiva ordinanza cautelare, da intendersi – come sottolineato dai Giudici delle leggi – come “elementi idonei e sufficienti per adottare” il provvedimento cronologicamente posteriore. Tale regola vale solo se le due ordinanze siano state emesse in uno stesso procedimento penale, perché se i provvedimenti cautelari sono stati adottati in procedimenti formalmente differenti, per la retrodatazione occorre verificare, oltre che al momento della emissione della prima ordinanza vi fossero gli elementi idonei a giustificare l’applicazione della misura disposta con la seconda
ordinanza, che i due procedimenti siano in corso dinanzi alla stessa autorità giudiziaria e che la separazione possa essere stata il frutto di una scelta del pubblico RAGIONE_SOCIALE (così Sez. U, n. 14535/07 del 19/12/2006, COGNOME, cit; conf., in seguito, su tale specifico aspetto, Sez. 2^, n. 44381 del 25/11/2010, Noci, Rv. 248895; Sez. 1^, n. 22681 del 27/05/2008, Camello, Rv. 240099)» (Sez. 2, n. 13021 del 10/3/2015, Belgio, in motivazione).
Il caso che si sta scrutinando, per le ragioni sopra esposte, rientra nell’ipotesi in cui non sussiste la connessione qualificata tra i fatti oggetto del due ordinanze, emesse in procedimenti diversi, nella quale quindi occorre, perché operi il meccanismo della retrodatazione, che al momento della emissione della prima misura cautelare fossero già desunnibili gli elementi giustificativi per la emissione del secondo provvedimento coercitivo, sempre che la separazione dei due procedimenti in corso davanti alla stessa autorità giudiziaria sia frutto di una scelta discrezionale dell’Inquirente.
La prima questione di diritto che si pone, dunque, è di stabilire cosa si debba intendersi per “desumibilità dagli atti” degli elementi giustificativi dell’ordinanz cautelare.
Secondo il Tribunale del riesame, «la nozione di desumibilità dagli atti … non coincide con la disponibilità degli atti stessi – che costituisce mero dato di fatto ma consiste, viceversa, in un giudizio sulla possibilità che l’autorità giudiziaria, i possesso di determinati elementi, sia in grado di dedurre da essi date conclusioni»; nel caso di specie, le operazioni di captazione sono terminate nell’agosto del 2019, cioè, «a ridosso della emissione della prima ordinanza cautelare, non consentendo il tempo limitato un sunto riepilogativo da parte dell’Ufficio di Procura per la verifica della sussistenza di gravi indizi per i re estorsivi».
In proposito, le Sezioni Unite COGNOME hanno ritenuto che «non giustifica di per sé la retrodatazione, perché non è di per sé indicativo di una scelta indebita, il fatto che l’ordinanza, emessa nel secondo procedimento, si fondi su elementi già presenti nel primo, perché in molti casi gli elementi probatori non manifestano immediatamente e in modo evidente il loro significato: essi spesso devono essere interpretati, specie quando si tratta, come di frequente accade, di colloqui intercettati e avvenuti in modo criptico. Perciò il solo fatto che ess fossero già in possesso degli organi delle indagini non dimostra che questi ne avessero individuato tutta la portata probatoria e fossero venuti a conoscenza delle notizie di reato per le quali si è proceduto, in un secondo momento, separatamente. A volte infatti la presa di conoscenza e la elaborazione degli elementi probatori da parte degli organi delle indagini richiede tempi non brevi, che danno ragione dell’intervallo di tempo trascorso tra l’acquisizione della fonte
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di prova e l’inizio del procedimento penale (si pensi ai casi in cui ci si trova i presenza di una grande quantità di documenti sequestrati o di complessi documenti contabili, da sottoporre all’esame di un consulente tecnico, o di numerose intercettazioni, protrattesi per lungo tempo).
In conclusione, quando in differenti procedimenti, non legati da connessione qualificata, vengono emesse più ordinanze cautelari per fatti diversi e gli elementi giustificativi della seconda erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della prima, è da ritenere che i termini della seconda ordinanza debbano decorrere dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima, se i due procedimenti sono in corso davanti alla stessa autorità giudiziaria e la loro separazione può essere frutto di una scelta del pubblico RAGIONE_SOCIALE».
Tale impostazione ha trovato conferma nella prevalente giurisprudenza di legittimità sviluppatasi successivamente, secondo la quale, in tema di retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, il momento in cui dagli atti possono desumersi i gravi indizi di colpevolezza non coincide con la ricezione da parte del pubblico RAGIONE_SOCIALE della informativa di reato, ma con quello in cui il suo contenuto possa considerarsi recepito, avendo riguardo al tempo obiettivamente occorrente per enuclearne ed apprezzarne la valenza indiziaria, tenuto conto della complessità della regiudicanda, del numero degli imputati e delle imputazioni, della mole del materiale da esaminare e di ogni altro elemento di rilievo (Sez. 4, n. 48565 del 6/10/2016, Commisso, Rv. 268391 – 01).
Nello stesso senso, è stato affermato che «l -anteriore desumibilità” è nozione da intendersi nel senso che … l’autorità giudiziaria debba essere in grado di desumere, non solo di conoscere, la specifica significanza processuale, intesa come idoneità a fondare una richiesta di misura cautelare, degli elementi relativi al reato sul quale si fonda l’adozione del successivo provvedimento cautelare per reato connesso, atteso che spesso il compendio indiziario non manifesta oggi, immediatamente la propria portata dimostrativa (Sez. 3, n. 48034 del 25/10/2019, COGNOME, Rv. 277351 – 02; Sez. 3, n. 46158 del 04/02/2015, COGNOME, Rv. 265437 – 01). La retrodatazione costituisce un rimedio rispetto a una scelta indebita dell’autorità giudiziaria che, in ipotesi, abbia tenuto separati i due procedimenti ovvero abbia iscritto in tempi diversi alcune notizie di reato. Occorre, pertanto, verificare se, effettivamente, il doppio binario impartito con la separazione o con la distinta iscrizione delle notizie di reato dall’autorit inquirente ai procedimenti connessi trovi giustificazione nella necessità di ulteriori indagini o di elaborazione di elementi probatori che, nel momento in cui è stato richiesto il rinvio a giudizio in ordine al primo procedimento, non apparivano in tutta la loro portata indiziaria» (Sez. 4, n. 16343 del 29/3/2023,
COGNOME, Rv. 284464 – 01; Sez. 3, n. 20002 del 10/1/2020, Flandina, Rv. 279291 – 01).
In altri termini, perché operi il meccanismo della retrodatazione di cui all’art. 298, comma 3, cod. proc. peri., occorre che il compendio indiziario manifesti già la propria portata dimostrativa e non richieda ulteriori indagini o elaborazione degli elementi probatori acquisiti, che rendano necessaria la separazione o la distinta iscrizione delle notizie di reato in relazione ai fatti contestati con seconda ordinanza.
Il secondo punto da chiarire, poi, è se la separazione dei due procedimenti sia frutto di una scelta discrezionale del Pubblico Ministero. In proposito, il difensore evidenzia come il procedimento RAGIONE_SOCIALE riguardi la stessa associazione di stampo mafioso oggetto del procedimento RAGIONE_SOCIALE, tanto è vero che nella seconda ordinanza cautelare il reato associativo non sarebbe stato contestato all’odierno ricorrente in quanto quest’ultimo era già sottoposto a misura cautelare per detto titolo di reato. Del resto, l’attività di captazione cui risultanze sono state poste a base dei reati contestati nel procedimento RAGIONE_SOCIALE – è stata disposta nell’ambito del procedimento RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e si è conclusa nell’agosto del 2019, dunque, ben prima che fosse emessa la prima misura cautelare. Tali circostanze, a giudizio della difesa, testimonierebbero che la separazione dei procedimenti è stata frutto di una scelta discrezionale del pubblico RAGIONE_SOCIALE. Peraltro, evidenzia ancora il ricorrente che la nozione di procedimento diverso non può essere ricollegata a un dato di ordine meramente formale, quale il diverso numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato, essendo decisivo, invece, il riferimento al contenuto della notizia di reato, ossia al fatto-reato in relazione al quale il pubblico RAGIONE_SOCIALE e la polizia giudiziar svolgono le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Ciò posto, rileva il Collegio che la posizione difensiva – che si è articolata nella specifica indicazione delle date delle note di polizia giudiziaria (aventi ad oggetto proprio gli episodi estorsivi di cui ai capi M, N e R ed il reato in materia di armi contestato al capo Al), dei decreti di proroga delle operazioni di captazione (che hanno valutato la sussistenza degli indizi necessari alla prosecuzione dell’attività di intercettazione), della loro trattazione da parte dell medesima autorità giudiziaria che ha coordinato le indagini, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro e della scelta del pubblico RAGIONE_SOCIALE di tenere separati i due procedimenti – non appare aver trovato adeguato approfondimento da parte dei giudici del riesame, che si sono limitati a rilevare che la chiusura delle operazioni di intercettazione ad agosto del 2019 non avrebbe consentito all’Inquirente di elaborare i dati emersi prima della emissione
della ordinanza cautelare disposta nel procedimento RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, senza indicare né le date delle informative conclusive del primo e del secondo procedimento, né quali siano gli «elementi ulteriori emersi con successive informative di p.g., oggetto del secondo titolo cautelare», né ancora quali siano le «ulteriori ed inedite emergenze indiziarie» sopravvenute all’emissione della prima ordinanza custodiale, né se la separazione dei procedimenti sia stata frutto di una scelta discrezionale del pubblico RAGIONE_SOCIALE.
In definitiva, pur graficamente presente, la motivazione del provvedimento impugnato – in relazione alla effettiva sussistenza dei presupposti per la retrodatazione – si sostanzia in argomentazioni generiche, non riferite a ben individuati elementi probatori e processuali, di talchè non assolve alla sua necessaria funzione di illustrazione della decisione adottata, sia in ordine alla effettiva desurnibilità dagli atti del primo procedimento, al momento della emissione del primo titolo custodiale, degli elementi per l’emissione della seconda ordinanza cautelare, sia in relazione alla natura eventualmente discrezionale della scelta del Pubblico Ministero di tenere separati i due procedimenti. Si è, dunque, in presenza di un vizio della motivazione tale da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento mancante e privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e, come tale, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U, n. 25932 del 29/5/2008, COGNOME, Rv. 239692 – 01; Sez. U, n. 25933 del 29/5/2008, COGNOME, n. m. sul punto).
Il provvedimento impugnato va, quindi, annullato con rinvio al Tribunale di Catanzaro, che dovrà confrontarsi con gli argomenti difensivi e valutare se, al momento della emissione della prima ordinanza cautelare, fossero già desumibili dagli atti – nel senso sopra specificato – gli elementi giustificativi per emissione del secondo provvedimento coercitivo e se la separazione dei procedimenti sia stata frutto di una scelta discrezionale del pubblico RAGIONE_SOCIALE.
P. Q. M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Catanzaro competente ai sensi dell’art. 309, comma 7, cod. proc. pen.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso in Roma, il giorno 11 luglio 2024.